Personaggi: Doctor!Charles / Rose!Erik, Charles / Erik
Scritta
perché ho appena riguardato la seconda serie di Doctor Who e sto ancora piangendo
per Ten e Rose. Piangerò sempre per Ten e Rose. E piangerò sempre anche per Charles ed Erik,
perciò ecco. Sì, aspettatevi angst, ma un finale
abbastanza happy.
A Strange
man in a good mood
[1]
«Sei speciale»
gli aveva detto una volta sua madre, sistemandogli i ciuffi di capelli sbarazzini
e piantandogli un bacio sulla guancia. Allora, Erik pensava che fosse qualcosa
che tutte le mamme dicono. È il suo unico figlio, d’altronde, per forza di cose
è speciale. Se ricorda bene dev’essere stato durante il suo tredicesimo
compleanno, qualche mese prima che morisse, proprio come il marito.
Erik non era
nato in tempo per essere abbracciato da suo padre. Era un pensiero triste che
lo aveva accompagnato per la gran parte della sua infanzia, surclassato
successivamente dal dolore del vuoto quando anche sua madre se n’era andata.
Per un periodo
Erik aveva tentato di lasciarsi andare alla religione. Credere ad un Dio che
ama e che dona seconde possibilità, che ha un piano più grande per ogni cosa.
Non aveva funzionato molto bene –
Non aveva
funzionato per nulla.
Ancora oggi non
sa se crede o meno; di sicuro non pratica. Fa finta di pregare, qualche volta,
e accende il menorah durante l’hanukkah, giusto perché sua madre sarebbe triste
nel vedere che sta perdendo una parte essenziale della sua cultura. Tuttavia
vive in un limbo di quotidianità. Si alza, fa colazione, va al lavoro e torna a
casa. Niente amici, niente relazioni. È molto più facile quando non hai più
nulla da perdere.
Quando pensa a
quanto sia strana – per non dire
sbagliata – la sua vita, si ripete che lui è speciale. Qualche volta, se si
concentra abbastanza, riesce ancora a sentire la voce di sua madre che glielo
sussurra. Quando accade, durante la notte è sempre tormentato dagli incubi.
Per questo,
circa vent’anni dopo quel tredicesimo compleanno, resta in silenzio quando un
uomo che indossa un cardigan e sta bevendo dal suo cartone del latte nella sua
cucina – affiancato da una strana cabina blu - gli dice, «Sei speciale». E
dice anche, «Ti piacerebbe essere il mio companion?».
Che cosa sia un
companion, Erik non lo sa. Come ci sia entrata una cabina telefonica nella sua
fottutissima cucina è un mistero ancora più grande, soprattutto perché abita al
fottutissimo quinto piano.
Erik non è bravo
a gestire rabbia ed esasperazione.
«Oh no, amico
mio» sorride l’uomo, sventolando una mano. Il suo accento prettamente inglese
risuona nella stanza, «questo è un TARDIS, uh, una navicella spaziale». E se
quello non è un sogno, Erik è finalmente giunto al punto di rottura della sua
mente, qualche neurone non funziona più, o forse è caduto dal letto e ha
picchiato la testa.
«Chi sei?»
chiede, infine, perché la curiosità batte lo sconforto di star parlando con un
possibile serial killer che utilizza cabine telefoniche volanti. O qualcosa del
genere.
«Il Dottore».
C’è una serietà tale nel modo in cui lo dice a cui Erik non può ribattere. Come
se fosse normale rispondere così, e continuare a sorridere.
«Il Dottore
chi?». L’uomo lo guarda dritto negli occhi e inclina il capo, rimettendo a posto
il latte e appoggiando una mano sull’anta del frigorifero per chiuderlo. Erik
ha il sospetto che gliene abbia lasciato poco, di latte. Ad ogni modo, non c’è
risposta.
«Penso che tu
sia molto annoiato della tua vita… uh»
«Erik». L’altro
annuisce. La constatazione gli dà abbastanza fastidio, soprattutto perché è
vera e non ha idea di come faccia a saperlo il
Dottore. Gli sfugge una risata al pensiero di quel nome, se il tizio
davanti a lui se ne è accorto, però, fa finta di nulla.
«Ci sono pianeti
e galassie, passate e future, potresti vederle tutte, se solo viaggiassi con
me». La sua spiegazione è abbastanza vaga. Erik pensa che sia pazzo, lo deve
essere, eppure-
Eppure lo
ascolta, perché c’è qualcosa nel Dottore.
«Non sei solo, Erik. Non sei solo. Vieni con me, cosa perderesti?» indica
la porta della cabina blu.
«Ci diamo già
del tu?» lo schernisce, tuttavia gli ci vogliono solo pochi secondi per
decidere di seguire l’uomo – o quel che sia – dentro il TARDIS, entrare di
corsa e chiudersi tutto alle spalle.
Saint-John Perse diceva,
s’en aller! s’en
aller! Parole du prodigue. E il dottore chiede,
«Da dove vuoi incominciare?»
[2]
Erik vuole
sapere tutto del Dottore, soprattutto perché il Dottore asserisce di sapere
tutto su di lui, o su ogni cosa in generale – o sta viaggiando per quello. Di
certo non pecca di arroganza.
«È una storia
troppo lunga» risponde quando Erik pretende. «C’era una guerra e- e nulla di
cui è bello chiacchierare»
«Perché io?»
allora chiede. «Perché non l’adolescente pieno di brufoli dell’appartamento
sottostante»
«E che
divertimento ci sarebbe stato?» ride il Dottore, «No, Erik, si chiama caso e
questa volta ha girato per il verso giusto»
[3]
Sono su una navicella
spaziale a guardare la terra scoppiare. Manca meno di un’ora ed Erik è fermo di
fronte alle vetrate ad osservarla. Quella è casa sua. È il suolo su cui è nato
ed ha condiviso ricordi ed ha amato – e perso e sofferto. Ora guarda quel
pianeta lontano anni luce e non prova niente, forse un po’ di malinconia, ma è
la stessa che proverebbe se perdesse la sua giacca in pelle preferita.
Non c’è mai
stato niente per lui lì, in nessun caso.
«Mi dispiace»
gli si avvicina il Dottore, posandogli una mano sulla spalla e stringendo per
confortare. Erik non capisce come abbia fatto il Dottore a entrare nella sua
vita così in fretta e prenderne le redini. Talvolta si sveglia e poco prima di
allungare un passo sul suolo di un pianeta nuovo viene colto dal panico. Dura
un’istante e con altrettanta velocità scompare. Ma c’era, e lo avvisava. Perché tutti ti abbandonano, anche
quelli che promettono di farti vedere un futuro splendente. Ciononostante, è
troppo vigliacco per chiedere di tornare indietro – e poi, indietro dove?
«Credi nel
destino?» dice, per rompere il silenzio. Gira il capo, incontrando gli occhi
blu dell’amico. «Forse era destino»
«Che creature
stupende gli esseri umani» mormora fra sé e sé il Dottore.
Un’ora dopo la
terra esplode, ed è uno spettacolo meraviglioso.
[4]
Viaggiare
risulta un po’ complicato nell’ultimo periodo. Sbagliano destinazione ogni
volta, e ogni volta rischiano di morire per le più disparate ragioni. Il
Dottore non pare essere uno bravo con la violenza, lui usa perlopiù il cervello
e quel coso che chiama cacciavite
sonico - «È molto utile per aprire le porte!» -, quindi è Erik il componente
del gruppo che fa a pugni con gli alieni e, di conseguenza, si prende
altrettante botte.
Questa volta
sono su un pianeta deserto, o così sembra, perché all’orizzonte Erik riesce a
vedere un ammasso di esseri neri che marcia a grande velocità nella loro
direzione. Non è confortante.
«Hai mai sentito
parlare di scarabei carnivori?» dice il Dottore, guardando preoccupato il terreno
tremante. «Li ho già incontrati diverse volte, non sono piacevoli, te lo
assicuro». Così finiscono per correre fino a non avere più fiato - «Si può sapere perché il TARDIS si parcheggia
sempre così lontano?» -, e il giorno dopo sventano un attacco alieno contro
Londra; poi quella strana epidemia in cui ogni oggetto plastico vuole uccidere
l’umanità, e cose del genere.
È tutto fuorché
confortante vivere in quel modo, ma Erik non si è mai sentito così vivo prima
d’ora.
[5]
Una donna capita
sulla loro strada un giorno, con questo sorriso colto e un’elasticità alla
presenza del Dottore che appare quasi impossibile. Se c’è una conversazione fra
lei ed il Dottore, Erik non ne è al corrente, e la volta dopo lei sta
viaggiando con loro nel TARDIS, «In memoria dei vecchi tempi» dice il Dottore.
È una vecchia
companion e si chiama Moira. Erik la trova insopportabile per una moltitudine
di motivi, primo fra tutti il suo carattere spiccato, quasi volesse sempre
sottolineare quanto sia importante il suo ruolo nella CIA. Non vanno d’accordo.
Erik si limita a dirle qualche parola di circostanza, perché obbligato e perché
il Dottore lo fulmina con lo sguardo; lei, invece, lo osserva con trattenuta rabbia
e gelosia, e talvolta un rassegnato sorriso.
Finiscono su un
pianeta con cinque lune e una lunga distesa di terreno verdastro. Come fa
sempre, il Dottore esclama, «Meraviglioso» e al suo fianco Moira ride e gli
sfiora una mano sul suo braccio. Ad un certo punto il Dottore si scusa per andare
a combinare qualcosa delle sue, qualcosa che da lì a qualche minuto li metterà
tutti in pericolo di vita – ma è inutile tentare di fermarlo. Senza che quasi
se ne accorga, Moira approccia Erik su un masso enorme e gli sorride.
«È come un buco
nero che ti risucchia, vero?» gli chiede, un bagliore lontano negli occhi le
illumina tutto il volto. «Abbiamo vissuto tante avventure, io e lui»
«Perché te ne
sei andata, allora?» dice, rauco, per poi aggiungere con malizia, «o forse è
stato lui a lasciarti indietro?». Moira lo perfora con gli occhi, e sebbene
fosse suo diritto mandarlo al diavolo, con molta diplomazia sorvola il tutto.
«È stata una mia
decisione» sospira, sistemando una ciocca di capelli bruni ricadutagli davanti
agli occhi. «Il Dottore può diventare difficile…
col tempo»
«Una decisione
stupida, lui -»
«Lo so. Ci
conosciamo da molto tempo, io e lui. Ma un giorno capirai, Erik Lehnsherr, che
chi viaggia col Dottore prima o poi si fa male, inevitabilmente».
[6]
Moira la
lasciano a New York, con sua enorme gioia, e ripartono immediatamente per un
altro viaggio. E un altro viaggio ancora. Verso il nulla ed il tutto.
«Non ti fermi
mai» gli domanda un giorno Erik, mentre sistema le coordinate per la loro
prossima avventura. «Non hai mai voglia di costruire una casa su un pianeta
pacifico e smetterla di volare qua e là in cerca di non sai che cosa?»
«E perdermi
tutto questo?» risponde il Dottore, aprendo le porte del TARDIS e mostrandogli
lo spazio infinito. Erik non ha nulla su cui obiettare. «E poi ho te, non sono
più solo» sorride, e con molta semplicità Erik pensa di volerlo baciare. È da
un po’ che vorrebbe baciarlo.
Quando atterrano
non cercano gli indigeni, non vanno ad esplorare la civiltà che ha vissuto su
quella terra, semplicemente si guardano intorno e assaggiano secondo dopo
secondo la bellezza di essere lì, uno al fianco dell’altro.
«Per quanto
tempo resterai?» chiede il Dottore. I suoi grandi occhi blu sono illuminati da
due soli.
«Per sempre»
[7]
Scoprono di
avere in comune una passione per gli scacchi. Che cosa stupida, di per sé. Il
pensiero lo fa ridere, ma non può dire di non trovare piacevole le lunghe sere
che passano a giocare. Erik scopre anche che il Dottore ama i dolci, e l’alcool
costoso e il thè. Il thè è qualcosa di cui non può fare a meno.
«Nettare degli
dei» chiarifica ogni qualvolta si fermano sulla terra, non importa che anno, e
lo obbliga ad entrare in un bar o a casa di qualcuno per una tazza di thè.
Una volta
approdano in Utah nel periodo natalizio. Erik è ebreo, quindi non ha nulla a
che fare con tutte quelle decorazioni e quello spirito cristiano, però è anche
il periodo dell’hanukkah, quindi non si sente in colpa quando acquista un
bollitore portatile e qualche pregiata scatola da thè per il Dottore. In vita
sua non ha mai dovuto fare un regalo a qualcuno. Quand’era piccolo non aveva la
coscienza e i soldi per farne qualcuno a sua madre e una volta adulto non aveva
semplicemente nessuno.
Prova a
consegnarlo diverse volte, però si sente un po’ stupido, poi non è il momento
esatto, poi capisce che se al Dottore non piacesse, lui farebbe una figura
orribile. Eventualmente glielo dà, perché se non lo fa impazzirebbe.
«Erik -»
«Buon Natale o
buon Hanukkah o buon qualsiasi cosa festeggino gli alieni durante questo
periodo dell’anno», e con sua sorpresa, una lacrima riga la guancia del
Dottore. Erik non ha la più pallida idea di come reagire. Si aspettava un grazie, amico mio o una pacca sulla
spalla e una lunga risata. Di certo non lacrime! Che cosa dovrebbe fare, che
cosa dovrebbe dire –
Ma non c’è nulla
che possa dire, perché il secondo dopo le braccia del Dottore sono intorno al
suo collo, il suo corpo caldo schiacciato contro quello di Erik, e quello è il
miglior Natale-Hanukkah della sua vita.
[8]
Erik ha le
braccia incrociate sul petto, un’espressione stoica e le labbra tirate. Pensa
che ormai viaggia col Dottore da molto tempo, perciò dovrebbe essersi abituato
alle sue stravaganze, eppure ogni volta è come la prima volta. Il Dottore si
sistema quella strana camicia rosa intorno ai fianchi e si gira, sorridendogli.
«Allora?»
chiede, aprendo le braccia e compiendo una lenta giravolta per mostrare quei
ridicoli vestiti – camicia rosa aperta, canottiera giallastra e pantaloni a
zampa d’elefante.
Erik è sempre
troppo sincero, fino a rasentare l’insopportabile, per poter dire qualcosa di
carino.
«Questo outfit va di moda negli anni ’70, lo
trovo molto carino»
«E io ridicolo.
Perché non torni ad indossare tweed o cardigan? Mi ero abituato al vecchio
stile da professore». Il Dottore gira gli occhi al cielo e lo indica con un
dito.
«Foulard intorno
al collo, Erik, davvero?»
«Cosa?» protesta
Erik, stizzito. «Questo va di moda»
«Oh per l’amor
del cielo!»
Alla fine
sventano un attacco spaziale alieno su New York vestiti così. Qualcuno li
guarda male, la maggior parte pensa che il Dottore sia un ubriacone, ma la cosa
lo fa più ridere che altro. Quando tornano nel TARDIS e si guardano, senza dire
nulla, entrambi scoppiano a ridere, e continuano finché è difficile respirare.
[9]
La prima volta
che lo aveva visto – visto davvero; non semplicemente l’involucro che presenta
a tutti, ma anche quel suo umorismo tipicamente inglese, il sorriso che fa
quando Erik si sporge e gli tocca un ginocchio, il calore che brucia nei suoi
occhi quando i loro sguardi s’incontrano – l’aveva fatto attraverso gli occhi
di un uomo differente. Non era più Erik Lehnsherr, l’uomo solo, dalle battute
cattive e il sorriso da squalo, ma era Erik Lehnsherr, companion del Dottore,
viaggiatore nel tempo e un uomo inevitabilmente e irrimediabilmente innamorato.
Non sa come, non
sa esattamente quando, era successo in un secondo o forse durante tutto l’anno
trascorso insieme. I loro occhi erano più luminosi. Le loro menti più veloci.
Talvolta potevano spendere più di settantadue ore a parlare senza mai fermarsi,
semplicemente raccontando le loro idee sull’universo e tutte le possibilità.
«Descrivimi»
esige il Dottore, un giorno in cui sono sdraiati nel TARDIS a pensare.
«Uno strano uomo
di buon umore» risponde Erik, dopodiché ripete la domanda e attende. Il Dottore
gira il volto nella sua direzione, c’è l’ombra di un sorriso che gli decora il
viso, allunga un braccio e apre una mano, chiedendo ad Erik di stringergliela.
Quando Erik lo fa, il Dottore s’illumina e dice, «Sei il mio companion».
Quello è tutto
ciò che Erik deve sentire per essere felice.
[10]
Tutto ha una
fine. Erik lo aveva imparato fin dal primo momento in cui era venuto al mondo.
La vita ha fine, la felicità, l’amicizia. Il tempo che puoi avere con le
persone che ami.
Mentre guarda le
onde del mare infrangersi contro la spiaggia, il vento soffiare sulle rocce
sporgenti e il profilo lontano della Norvegia risplendere sotto i raggi caldi
del sole, pensa che non sia giusto. Lui e il Dottore non dovrebbero essere
separati; non dovrebbe vedere la sua immagine comparire su quella spiaggia,
sapendo che è solo una proiezione resa possibile dal TARDIS. Il Dottore sorride
sempre quando è con Erik, anche questa volta sorride, ma è triste. Non hanno
nulla da dire, nel momento in cui dovrebbero dirsi tutto. Il Dottore ha sempre
parlato tanto, di tutto. Di come avrebbe portato Erik su nuovi pianeti, delle
avventure che avevano già vissuto, di cose che non erano ancora successe ma
sperava succedessero. Parlava di altre persone, qualche volta, di eventi
passati, di una guerra – la guerra -,
dei Dalek, quando capitava. Di cose morte, sempre
perse.
Chissà se anche
Erik sarà una storia. Se col tempo il Dottore troverà il coraggio di raccontare
di loro, dei loro sogni sussurrati la notte, di quei tocchi segreti condivisi
fra uno sguardo e l’altro. Fa male sapere che di un’eternità sperata ora ha
solo cinque corti e indispensabili minuti. Cinque
minuti. Ha viaggiato fino in Norvegia per quei cinque minuti. Sembra una
beffa. Lo fa arrabbiare.
Il Dottore dice,
«C’è ancora una piccola crepa nell’universo e sta per chiudersi. Ci vuole un
mare di energia per questa proiezione, sono vicino ad una super nova. Erik
Lehnsherr, sto bruciando un sole solo per dirti addio».
Erik vorrebbe
gridare, forse ridere perché bruciare un sole per dire addio è una cosa che
solo il suo Dottore farebbe. Invece
lascia che le lacrime scendano sul suo viso. Non si chiede più perché il
Dottore non parlasse mai di sé, della sua fuga – dell’angoscia e la paura che
deve aver provato, la solitudine di qualcuno che viaggia per anni ed anni salvando
mondi e universi. Sempre da solo. Perché sa che basta uno sguardo, affinché
Erik capisca. Per quanto si parlassero, i loro silenzi erano quel che dicevano
di più.
Anche adesso. Ci
sono elenchi di frasi che avrebbero senso, ma Erik ha due parole da dover dire,
prima d’ora le aveva tenute nascoste nel petto, evidenti com’erano, e cinque
minuti, forse meno. Sempre meno.
Glielo dice, che
lo ama. Lo amerà per sempre, probabilmente. Anche in quel mondo dove sua madre
e suo padre non sono morti. Dove una porta verrà chiusa e mai più aperta.
Erik vede le
stesse parole sulle labbra del Dottore. Sono lì, reali e dolorose, l’unica
verità che avrebbe voluto sentire. Eppure muoiono anch’esse. Perché tutto ha
una fine.
«Erik Lehnsherr,
io-»
[0]
Sta affogando.
L’acqua sulla sua testa si muove con forza ed è troppo concentrato su tutto ciò
che ha perso e che ancora perderà per muovere le braccia e nuotare in
superficie. Sta affogando, e comunque non gli importa più di quel tanto.
Non finché due
forti braccia gli stringono il petto e lo riportano a respirare. Non finché non
vede riemergere quel viso fra le
onde. Per un attimo pensa che sia lui, oh quanto gli fa male la speranza. Ma
l’uomo è differente, un po’ più serio, un po’ più dolce. Non è il suo Dottore,
sebbene abbia la sua faccia.
«Chi sei?» urla.
Vengono
riportati sulla nave, una coperta gli avvolge le spalle e la Moira MacTaggert
di quell’universo gli sorride prima di uscire dalla stanza e far entrare dietro
di lei l’uomo con la faccia del Dottore. Si siedono sulla stessa brandina, in
silenzio. Dopodiché l’uomo allunga una mano e dice, «Charles Xavier».
È uno strano
uomo, Charles. Quel tipo di uomo che si lancia nell’oceano aperto per salvare
uno sconosciuto che sta per morire. Quel tipo di uomo che gli offre un lavoro
nella sua scuola, no, quel tipo di uomo che inconsapevolmente gli offre un
nuovo senso di vita.