Racconto originariamente scritto per il literary-blog Regin La Radiosa in occasione di Natale 2013.
Lo ripropongo qui perché trovo carino che più persone abbiano
la possibilità di leggerlo.
Spero possa rivelarsi cosa gradita.
Salto nel
vuoto
Leone: la luna è nel
vostro segno e vi promette un Natale sfolgorante, pieno di doni e iniziative
che intensificheranno la vostra vita lavorativa e vi regaleranno la pace che
cercate da molto tempo. Grandi cose anche per quanto riguarda la sfera
dell’amicizia, e se stavate aspettando una svolta economica per fare un
importante investimento per il futuro, verrete accontentati.
Oliver abbandonò il
giornale in grembo, sbuffando.
L’unica cosa che aveva
azzeccato era la parola investimento.
Si lasciò andare contro
lo schienale, stando attento a poggiare bene il collo sulla parte imbottita.
Il Pronto Soccorso alle
tre di notte - e non una notte qualsiasi, giusta quella di Natale - sembrava
l’ultimo dell’anno a Times Square.
Un casino infernale, le
voci di decine e decine di persone si sovrapponevano dietro la tendina di
cerata verde acqua, passi che andavano avanti e indietro, rumore di mocassini,
di suole di gomma, di tacchi a spillo, piagnucolii, risate, bambini che chiamavano
la mamma, gente che faceva discorsi sulla politica e sui parenti morti per i
motivi più disparati, l’abbaiare di un cane.
Se non altro in due ore
che era lì non era ancora arrivata nessuna ambulanza con casi gravi. A quanto
pareva a Natale si facevano male tutti, ma in maniera decorosamente blanda.
Tipo lui.
Fece leva sui bicipiti
femorali e cercò di piegare il ginocchio, ma una vibrazione lancinante che
partì dal menisco e si ripercosse sul piede gli fece capire che
l’antidolorifico non aveva ancora fatto effetto. Grandioso.
Il sacchetto di ghiaccio
medicale in gel che gli avevano dato gli stava congelando mezza coscia, aveva
perso sensibilità persino al culo mentre le spalle gli stavano cuocendo sotto
la giacca che l’infermiera gli aveva fatto rimettere.
La sua tuta era da
buttare. Più di seicento dollari di tuta da motociclista da gettare nella
spazzatura.
Beh, inutile
lamentarsene dato che la moto era ridotta a un cumulo di lamiere, gomma e
plastica.
Si massaggiò una tempia
- quella dove non c’era l’enorme cerotto di garza - bestemmiando tra sé contro
quel coglione in Mercedes che gli era finito addosso all’improvviso, sbucato da
una laterale e gettatosi a cazzo in mezzo alla strada. Per fortuna Oliver se
n’era accorto qualche secondo prima dell’impatto, aveva lasciato la presa sul
manubrio e aveva spostato il peso all’indietro. Era stato sbalzato sulla
carreggiata senza troppa violenza, anche se la BMW era finita dritta sotto le
ruote di quel deficiente sbronzo come una spugna e fatto di chissà quali acidi.
Se l’era cavata con
graffi superficiali sulla parte destra del corpo, un ematoma di dimensioni
bibliche al ginocchio sinistro, un male indescrivibile al braccio dove gli
avevano fatto l’antitetanica in muscolo e la notte di Natale da passare in ospedale
in attesa che qualcuno si decidesse a rispedirlo a casa.
Ebbe la tentazione di
controllare il cellulare - per un chissà quale miracolo era rimasto intonso -
ma l’indolenzimento gli fece cambiare idea. Anche perché immaginava che gli
altri, ormai appurato che non si era fatto uccidere, stessero festeggiando come
da programma a casa di Andy, dove sarebbe dovuto essere anche lui.
Per un attimo pensò di
comportarsi da bravo figliolo e chiamare i suoi genitori per informarli che era
scampato al proprio funerale per un soffio, ma poi ricordò di quanto riuscisse
a diventare imbarazzante sua madre quando entrava nel panico - soprattutto
quando non ce n’era nessuna ragione - perciò decise che avrebbe telefonato
verso le dieci della mattinata e avrebbe chiesto loro di venirlo a prendere
piuttosto che aspettarlo come al solito. Con quella gamba non sarebbe riuscito
a guidare per giorni.
Merda.
Provò a mettersi le mani
sulla testa, gesto che lo aiutava a scaricare la tensione, ma si sentiva di
legno. Non ci riuscì.
Sospirò annoiato,
frustrato, avvilito.
La tenda veleggiò, ed
emerse un tipo con degli occhi talmente tondi da sembrare due nocciole con
tanto di guscio. O meglio. Uno lo sembrava, l’altro era socchiuso, circondato
da un alone granata che probabilmente presto sarebbe diventato viola.
«Ah, scusa...» disse.
«Hai bisogno del
ghiaccio?» Oliver fu felice di avere una scusa per liberarsi di quel blocco
freddo che gli stava rallentando la circolazione. L’infermiera che lo aveva
medicato dopo la visita del dottore gli aveva tassativamente ordinato di
tenerlo sulla contusione finché non fosse tornata, ma era da due fottute ore
che non la vedeva, e si era un po’ rotto le palle di aspettarla a vuoto.
Il tipo esitò per un
istante.
Oliver tendeva a
dimenticare che le tute da motociclista sembravano una sorta di armatura da
cavaliere nero, perlopiù imbottita nei punti sensibili e che quindi dava
l’impressione d raddoppiare il fisico di chi la indossava.
Doveva essere uno
spettacolo strano vedere un astronauta del lato oscuro sprofondato in una
poltrona e impegnato a tenere sollevata una gamba fasciata peggio di una mummia.
«Grazie...» Ma lo
sconosciuto accettò comunque. Doveva essere disperato. O provare parecchio
dolore.
Afferrò stancamente il sacchetto
avvolto in una stoffa di tela che gli porgeva Oliver e se lo posò sulla faccia,
piano, adagiandolo con una lieve smorfia sofferente.
«Serata movimentata?»
Oliver di solito non era uno che attaccava bottone con chiunque. In realtà gli
piaceva un mondo conoscere gente, ma col tempo aveva imparato a scremare gli
interlocutori e prendere confidenza soltanto con quelli che gli sembravano più
aperti. Aveva perso il conto di quante volte gli era stato risposto male, di
quante volte avessero biascicato un insulto sulla lingua, di quante volte gli
avessero lanciato occhiate sconvolte, di quante volte era stato ignorato, e
solo perché aveva due piercing e un dilatatore all’orecchio, e spesso andava in
giro col casco alla mano.
Se quella gente avesse
visto il tatuaggio che gli copriva il torace si sarebbero fatti il segno della
croce?
«Serata di merda.»
replicò l’altro. Il tono che aveva usato fece capire a Oliver che non era
avvezzo a quel linguaggio, e che quando lo adoperava era perché era arrivato al
limite di sopportazione.
Fece per rispondere, ma
di nuovo la tendina venne tirata da un lato. Quante visite tutte in una volta.
«Ehi, Quinn, noi...»
L’uomo in giacca e con la cravatta in tasca, naso gonfio e gocce di sangue
secco sulla camicia s’impietrì quando vide Oliver. L’interessato sfoderò il suo
miglior sorriso sfacciato, quello adatto per mettere in evidenza lo sfavillio
sia del piercing sotto al labbro inferiore che quello del sopracciglio sinistro
«Noi... Noi andiamo a prenderci qualcosa da mangiare...» Il nuovo arrivato
concentrò l’attenzione su quello che doveva chiamarsi Quinn, e si sforzò di non
muovere neppure le pupille «Per i denti di Eliott non
c’è niente da fare, gli hanno dato un tranquillante da cavallo e mi sa che se
lo tengono per stanotte. Andiamo al Mac a mangiare
qualcosa, vieni?»
C’era talmente tanta
retorica che trasudava da quell’ultimo vocabolo che era facile ascoltare
nell’aria una frase non pronunciata che diceva pressappoco È vero che vieni
e non vedi l’ora di dire addio a questo tossico, eh?
«No, andate voi...»
Oliver si voltò verso il ragazzo. Essere scelto da un estraneo come compagnia
al posto di un amico era una bella sorpresa «Devo... mi devo ancora riprendere.»
Oliver tornò a guardare
l’altro, e dovette impegnarsi per non mettersi a ridere dopo aver visto la sua
faccia allibita.
Calò qualche secondo di
silenzio, riempito dalla voce di una ragazza di passaggio che parlava al
cellulare in una lingua straniera.
«Ok.» Giacca e cravatta
in tasca parlò senza inflessione. Forse per lo shock «Ci vediamo dopo.» Stese
la tendina con un colpo secco, dando loro di nuovo la parvenza di essere
rimasti soli.
Oliver sbirciò il tipo -
Quinn - perplesso, e incuriosito.
Indossava una camicia
nera, di un stoffa opaca e sgualcita, con alcuni fregi che si notavano in
controluce, troppo ampia su fianchi stretti e di fattura costosa. Pantaloni a
metà tra casual e un abbozzo di eleganza, che si arricciavano su un paio di
mocassini che non si adattavano per niente a chi le indossava, come se se le
fosse fatte prestare in mancanza d’altro.
Quinn lo osservò con
l’unico occhio.
«Posso sedermi qui?»
Posò la mano sulla spalliera della poltrona gemella di quella su cui era
stravaccato Oliver.
Oliver allargò le
braccia qual tanto che gli consentirono le fitte.
«Prego.»
Quinn si accasciò di
traverso, con un sospiro silenzioso che sembrava volesse buttare fuori ogni
cosa.
«Ehi, se ti dovesse
venire un infarto o un aneurisma non riuscirei a correre in cerca d’aiuto.»
puntualizzò Oliver, sperando che l’altro cogliesse l’ironia. La colse.
Quinn gli fece un
sorriso smunto, cordiale, sfinito. Ma pur sempre un sorriso. Molto carino.
«Il peggio che mi può
succedere è di addormentarmi e rimanere qui fino a sera.»
«Il Natale in ospedale
dev’essere un must quest’anno.» commentò con un certo
sarcasmo. Afferrò il giornale che aveva ancora sullo stomaco «Che segno sei?»
«Capricorno.» rispose
Quinn dopo un momento.
«Capricorno.»
lesse Oliver «Questo per voi sarà un Natale da ricordare: il vostro segno
entra in una fascia positiva sotto ogni aspetto. Il campo lavorativo subirà un
leggero rallentamento ma non vi preoccupate, si tratta di una fase passeggera
che porterà a ulteriori miglioramenti. La sfera dei sentimenti vi darà grandi
soddisfazioni a 360°.» Oliver ridacchiò.
Quinn emise una
risatina, inarcando il sopracciglio libero.
«Che si tratti di un
Natale da ricordare non c’è dubbio.»
Oliver gettò la rivista
sullo scaffale lì accanto, traboccante di tubicini, strumenti di acciaio opaco,
bacinelle e altre cianfrusaglie mediche di cui non voleva conoscere l’uso.
«Ti avrei passato il
cruciverba, ma sono qui da una vita e per disperazione sono riuscito a finirlo.
Mai successo prima.»
Quinn sorrise di nuovo,
sistemandosi il ghiaccio che stava diventando fluido.
«È rotta?» domandò,
intendendo la gamba. Oliver scosse la testa.
«Solo una gran botta e
un versamento interno.»
«Che ti è successo? Sei
caduto in moto?»
«Sono stato investito.»
lo corresse.
«Investito?»
«Già.» Schioccò la
lingua «L’autista di una Mercedes ha pensato bene di scambiare l’isolato per le
strade di GTA e mi ha preso in pieno. Io ho fatto in tempo a gettarmi a terra,
ma mi ritrovo ammaccato e senza più moto.»
«Oh.» Quinn parve
sinceramente colpito «Beh... il 75% dei riders coinvolti
in incidenti con automobili perde la vita... puoi sentirti fortunato.»
Oliver lo scrutò per una
manciata di secondi.
«È il tuo modo di
consolarmi?»
Quinn rise. Una risata
graziosa, adolescenziale, divertita e che divertiva, a cui Oliver scelse di non
resistere. Metteva di buonumore.
«E tu chi hai fatto
incazzare per ritrovarti con un occhio nero?»
Quinn si sistemò meglio
in una posizione obliqua, in modo da guardarlo in faccia senza essere scomodo.
«Non ne ho idea, me ne
sono stato davanti a una finestra tutta la sera. Un attimo prima tutto normale,
un attimo dopo scoppia una rissa che non so com’è cominciata, e ci finiscono in
mezzo i miei colleghi e anch’io.» Oliver intravide nel suo sguardo la medesima
desolazione di prima, di quando aveva rifiutato l’invito di giacca e cravatta
in tasca. Quella di chi è troppo spossato per commentare oltre.
«Eravate al Paprika?»
Quinn lo fissò stupito.
«Sì... Come fai a...?»
Oliver si mise a ridere.
«In zona ci sono solo
due locali dove ci si mena almeno due volte a settimana, e il Paprika è l’unico
che vuole solo gente vestita bene.» Lo indicò con un unico gesto. Quinn parve
essere sul punto di imprecare, ma non lo fece.
Invece emise un verso
sconsolato, esasperato, un poco comico.
«Non ci posso
credere...» sibilò, presumibilmente più rivolto a se stesso ai suoi compagni
piuttosto che a Oliver.
«Vieni da fuori?» gli
chiese. Aveva un aspetto già abbastanza abbattuto, non voleva che peggiorasse.
Quinn rialzò la fronte, annuendo «Da dove?»
«Da Eunice.»
Oliver fischiò.
«Sei lontano da casa.»
«Già.» confermò. Posò la
guancia contro la testiera della poltrona, e i capelli che gli arrivavano alle
spalle gli coprirono le dita con cui teneva fermo il ghiaccio, formando onde
castane sulle nocche «Per lavoro.» Oliver non disse niente. Era curioso di
constatare se Quinn avesse preso confidenza o meno «Alla Faith&Hombrace.
Mi hanno promosso circa due mesi fa, e dalla filiale di Eunice
mi hanno spedito alla sede principale, qui.» Sollevò la palpebra per
controllare che Oliver stesse ascoltando.
Oliver gli sorrise.
«Mi aspettavo qualcosa
di meglio.» mormorò Quinn. Poi agitò una mano «Cioè... il lavoro va alla
grande, guadagno bene e mi piace, e sono contento della promozione.» mise in
chiaro «Ma... tutto il resto... tutto il resto...»
Oliver rise, e nel farlo
avvertì una lieve stilettata al costato, nel punto dove c’era un altro cerotto
sterile a coprirgli un taglio.
«Non sei ancora entrato
nello spirito cosmopolita?»
«Probabile.» ammise «È
che credevo non sarebbe stato così difficile adeguarmi ai ritmi e ai
meccanismi.» Strinse le spalle «Io non sono uno che si mette in tiro anche solo
per andare a fare la spesa nella bottega del quartiere, non sono abituato a
uscire, bere e fare tardi tutte le sere, e penso di non riuscire a capire le
persone di città.»
«In che senso?»
L’antidolorifico stava iniziando - per fortuna - a fare effetto. Oliver
sentiva i nervi tirare molto meno, e riuscì a rilassarsi poco a poco.
«Non riesco a parlare di
cose serie con nessuno.»
«Di cose serie?»
«Del futuro, dei
progetti di vita, di religione, di cultura...» Quinn gesticolò di nuovo,
disegnando nell’aria una figura geometrica minuta, discreta anche se eloquente
«Quando comincio un discorso serio mi assecondano per massimo cinque minuti e
poi cambiano argomento. Il calcio, le sfilate, il prezzo dei parcheggi, il talk
show di Conan O’Brian... cazzate. E non capisco se fanno così perché è il loro
modo di essere, o perché sono l’ultimo arrivato e non si fidano di me.»
Oliver rise, sperando
che Quinn non si accorgesse di quanta tenerezza gli ispirasse.
«Sono io a essere
strano, vero?» chiese in tono afflitto.
«No, no.» lo rassicurò.
Avrebbe voluto allungare il braccio e posargli il palmo sulla tomaia di una di
quelle orrende scarpe inguardabili, ma si trattenne. Forse non avrebbe gradito
tanta familiarità «È che la gente ha sempre qualcosa da fare. O è sempre
impegnata a pensare a cosa dover fare. E magari non gli importa di mettersi a
discorrere di temi impegnativi perché finché non la riguardano da vicino non
avrà di che lamentarsene, quindi non se ne preoccupa e non vuole farlo.»
Quinn lo osservò senza
parlare, con un’occhiaia che si stava facendo evidente e capillari che si
iniettavano di rosso istoriando la sclera.
«E poi, forse il tuo
problema è che non hai incontrato le persone giuste.» continuò Oliver. Lasciò
indugiare lo sguardo prima sugli avambracci di Quinn, uno piegato per sostenere
il ghiaccio e l’altro abbandonato sulla spalliera, indi risalì sul suo viso,
accontentandosi di studiare la metà speculare degli zigomi dai tratti
infantili, graziosi, arrotondati. Gli sorrise.
La guancia di Quinn
riassunse un po’ di colore mentre gli sorrideva di rimando, spontaneamente.
«Tu saresti una persona
giusta?»
«Solo se sono quella che
stai cercando.»
Quinn allargò il
sorriso, si mosse sui cuscini di pelle producendo uno stridore di tensione, e
scostò il ghiaccio, provando a sbattere le ciglia.
«Com’è?»
Oliver distese le
labbra, in segno di moderata sufficienza.
«In pochi giorni il
gonfiore sparirà. Tra una settimana avrai un bellissimo alone giallo alieno.»
«Sono soddisfazioni.»
rimbeccò, provando a sfiorarsi con un polpastrello l’area che aveva assunto una
sfumatura prugna, sentendola tumida e troppo sensibile. Se non altro la vista
era a posto.
«Perché non sei tornato
dalla tua famiglia e dalla tua ragazza per le feste?» Quinn lo squadrò con
ironia non tanto velata «Mi sto annoiando e tu sei l’unico che posso molestare
con le mie chiacchiere.»
«Dalla mia famiglia e
dal mio inesistente ragazzo.» precisò placidamente «Sono rimasto perché
quelli dell’ufficio contabile dovevano chiudere il bilancio, ma hanno avuto la
bella idea di perdere alcuni documenti e quindi quelli dell’ufficio vendite -
io e i miei colleghi - hanno dovuto affiancarli.»
«Tremendo.» mugugnò Oliver
con un brivido. La parola ufficio gli faceva venire in mente monotone
stanzette dalle pareti tinteggiate di grigio, con scrivanie essenziali di
design in acciaio spoglio e una pianta grassa in vaso in un angolo che prendeva
polvere in attesa che la desertificazione la raggiungesse «Spero che almeno ti
paghino gli straordinari.»
«Lo fanno, lo fanno.»
confermò, pacifico «E tu? A quest’ora dove dovresti essere?»
«A casa di un amico, in
collina.» Sospirò debolmente «Due ore di viaggio previste. Invece dopo neanche
dieci minuti sotto finito contro il muso di una macchina da ricchi.» Spedì
l’ennesima maledizione all’idiota, sperando che i poliziotti che l’avevano
trattenuto gli avessero infilato un manganello in quel posto per fargli passare
la sbornia. E che ce l’avessero lasciato.
«E non è venuto nessuno
per starti vicino?»
Oliver lo studiò,
perplesso. Quinn sembrava davvero sbalordito dalla faccenda. Oliver non si mise
a ridere perché temeva di offenderlo, anche se la voglia di scompigliargli i capelli
si faceva sempre più forte.
«Ho venticinque anni,
sono vaccinato - ho anche l’antitetanica fresca di intramuscolare - i miei
amici sono a due ore e mezza di strada dall’ospedale e preferisco che rimangano
a divertirsi piuttosto che stare a dormire in corsia.»
«Non hai qualcuno della
famiglia...?»
«Se tu conoscessi mia
madre sapresti che è meglio informarla solo quando non può più fare danni.» Non
era propriamente una cosa carina da dire su Marissa,
premurosa, attenta e sempre disponibile per qualunque richiesta del figlio. Ma
la scenata imbarazzante che fece quando Oliver aveva dodici anni, in cui per
poco non aveva preso a sberle due dottori perché secondo lei non avevano
interpretato bene dei sintomi di eventuale appendicite, gli era rimasta
impressa nei ricordi come monito.
Quinn aveva ancora
dipinta in volto un’espressione dubbiosa, spaesata, vagamente preoccupata.
«Non fare quella
faccia.» Oliver gli fece l’occhiolino «Me la cavo bene anche da solo.»
Quinn non parve per
niente soddisfatto, e Oliver immaginò che per lui il Natale fosse sempre stato
cena in famiglia, serata passata davanti al camino a raccontarsi barzellette o
aneddoti carini, e allo scoccare della mezzanotte scartare i regali assieme ai
nonni e ai cugini.
A Oliver una prospettiva
simile di norma indurrebbe un principio di orticaria, ma ora che la vedeva
attraverso Quinn la cosa assumeva connotati meno inquietanti. Quasi
accattivanti.
Sorrise tra sé,
accorgendosi che era Quinn a fargli quell’effetto insolitamente confortante.
«Ehi, hai detto di
essere capricorno, vero?» riprese. Quinn assentì «Quindi sei nato in questi
giorni o sbaglio?»
«Non sbagli. Sono
nato...» Allungò il collo verso la parete di destra, coprendosi l’occhio
tumefatto perché gli sfasava la percezione dei contorni «... circa un’ora fa di
venticinque anni fa.»
Il sedativo era entrato
pienamente in circolo e gli stava rallentando i collegamenti neurali; Oliver ci
mise due secondi per realizzare.
«Oh.» fece quando ci
arrivò. Poi realizzò anche che al momento si trovavano entrambi in ospedale, e
Quinn era stato pestato «Oh.» ripeté. E ricordò anche che Quinn era solo come
un cane in una nuova città a miglia e miglia di distanza da casa «Oh.»
«Oh.» lo prese in giro
«Non era propriamente il compleanno che mi aspettavo. Ma non mi lamento.»
Sorrideva. Un sorriso pacato, snervato ma non falso, di quelli tranquilli che
coglievano la vita con coraggiosa filosofia.
Oliver lo fissò per
diversi attimi, incurante del silenzio sempre più intenso che si stava levando
tra loro. Si accorse soltanto adesso che Quinn aveva le iridi di una bella
tonalità verde miele.
Gli tese la mano.
«Oliver.»
Venne ricambiato con una
stretta garbata, e calorosa.
«Quinn.» Lo sapeva già,
ma gli piacque come l’aveva pronunciato. Con un tipico accento concavo, che
affondava sullo iato e riemergeva elegantemente sulla coppia di consonanti.
«Quinn, visto che è
evidente che la sfiga oggi ci ha presi di mira, ti faccio una proposta.» Si
massaggiò la nuca, torturandosi qualche corto ricciolo bruno «Troviamo il modo
di andarcene da questo sgabuzzino e andiamo a casa mia - così mi dai una mano a
non uccidermi per le scale.» Lo squadrò per captare ogni mutamento nella sua
espressione, che aveva un che di stupore perpetuo «Ci facciamo una dormita di
qualche ora visto che stiamo in piedi da ieri mattina, ci svegliamo
direi a metà pomeriggio, supplico mia madre di portarmi una torta e ci ficco
sopra una bella candelina che potrai spegnere dopo aver espresso il tuo
desiderio.»
Quinn aveva l’aria di chi
aveva appena visto un uomo denudarsi in mezzo alla strada e stesse cercando di
capire se mettersi a ridere o scandalizzarsi.
«E come regalo, faremo
l’amore fino a quanto ne avrai voglia.»
Le sopracciglia di Quinn
formarono due virgole deliziosamente inarcate.
«Il regalo però si
potrebbe rateizzare.» Oliver si toccò il ginocchio «In effetti non ho mai fatto
l’amore tanto acciaccato, ma darò il massimo, garantisco.»
Quinn inclinò la testa,
socchiudendo la bocca. Non sembrava né scandalizzato né sul punto di mettersi a
ridere.
Sembrava... che quasi si
aspettasse un’uscita simile.
Un po’ imbarazzato,
lusingato, allegro.
«Tu sei un tipo strano.»
mormorò «Oliver.»
«Solo perché non hai mai
incontrato nessuno come me prima d’ora.» replicò, scoccandogli un sorriso
languido, illuminato dal bagliore riverberato dalla minuscola sfera del
piercing «Quinn.»
Quinn rimase impassibile
per alcuni secondi, pochi, che tuttavia secondo Oliver durarono un’eternità in
cui si sforzò di non sudare freddo.
Scoprì che la risposta
gli interessava parecchio.
Scoprì che Quinn gli
interessava inaspettatamente parecchio.
Quinn ricambiò il
sorriso, arricciando le labbra in una maniera sbarazzina che gli toglieva una
dozzina d’anni, mostrandolo come doveva essere da ragazzino.
«Penso che accetterò.»
Oliver rise.
«Anche tu sei un tipo
strano.» sussurrò Oliver, e non seppe se avesse voluto comunicarlo a lui, a se
stesso, al labile filo che stava accorciando le distanze in uno stravagante
quanto estasiante modo imperscrutabile.
«Faccio quel che posso.»
Risero insieme,
scambiandosi l’ennesimo sguardo denso, palpabile, che forse voleva dire tanto o
forse non significava niente. Proprio in quel momento la tenda venne
strattonata da un lato con un trambusto di anelli di metallo.
«Signor Bowen!» L’infermiera in tenuta verde mare aveva l’aspetto
di qualcuno che aveva sfilato avanti e indietro per le corsie del Pronto
Soccorso per ore, e a giudicare dal suo volume di voce doveva aver ascoltato
per tutto il tempo musica metal al massimo «Sta meglio?»
Oliver lanciò
un’occhiata a Quinn. Tornò a sorriderle.
«Molto meglio.»
«Bene.» Afferrò una
coppia di stampelle bianche che aveva appoggiato alla parete e gliele porse
educatamente nonostante i modi sbrigativi «I risultati degli esami, le lastre e
le ricette sono già nell’ufficio dimissioni, non le resta che andare a
firmare.» Lo esaminò per un momento «Ce l’ha l’assicurazione, vero?»
«Ce l’ho.» confermò per
la seconda volta nell’arco della nottata.
«Ottimo.» L’infermiera
parve compiaciuta. Soltanto dopo la sua attenzione venne attirata dalla
presenza di Quinn. Le bastò un istante per inquadrarlo «Lei è venuto per la
rissa al locale?»
«Eh...»
«I suoi amici hanno già
lasciato l’ospedale, tranne quello che dovrà rimanere in osservazione per
almeno quarantottore.» lo informò «Anche lei è libero di andare.» Le scappò un
sorrisino «Lei almeno ha ancora tutti i denti in bocca.»
Chiese a Oliver se
avesse bisogno di fare una telefonata per chiamare un parente o un taxi che lo
riportasse a casa. Quando accettò la seconda opzione, l’infermiera si fece
consegnare il ghiaccio in gel, ormai scioltosi, e si diresse verso la
direzione, strascicando i piedi. Doveva essere alla fine del suo turno e le si
leggeva la spossatezza della rigidità delle spalle.
«Simpatici i tuoi
colleghi.» constatò Oliver, preparandosi mentalmente alla prova delle
stampelle. Prevedeva lunghe giornate di noia assoluta.
Quinn si alzò,
aiutandolo a mettersi in piedi.
Analgesico o no, il
corpo era un unico spasmo di dolore che palpitava a tratti, e una volta in
posizione orizzontale la testa cominciò a pulsare, causandogli un lieve
capogiro.
La sala d’attesa
rassomigliava a un ricovero per senza tetto, con la differenza che molti dei
presenti erano vestiti bene, con maglioni o abiti rilucenti di strass comprati
per l’occasione in negozi di alta moda tanto per scialacquare una volta
all’anno tre quarti di stipendio, e avevano facce soprattutto scocciate. Due
donne si occupavano di smistare i documenti di chi poteva uscire e tornarsene tra
le proprie mura domestiche, portandosi appresso il dolore che si erano
procurato in modo più o meno dignitoso a seconda della situazione.
Una delle due analizzò
l’aspetto di Oliver con un misto di timore, eccitazione e civetteria, malgrado
i cinquant’anni suonati che dimostrava. Invece riservò a Quinn una smorfia
amorevole, indulgente, persino orgogliosa. Oliver suppose che avesse scambiato
Quinn per il fratellino carino che andava a recuperare il fratello maggiore
cacciatosi nei guai.
Forse avrebbe dovuto
farle notare che sui documenti i loro cognomi erano diversi, e che le loro date
di nascita erano eccessivamente ravvicinate per provenire dallo stesso utero,
ma perché fugare le sue materne illusioni che non avevano nulla di male?
L’addetta alla farmacistica fornì a Oliver un sacchetto di medicinali che
avevano pressappoco la funzione di stordirlo così tanto nella settimana
seguente da non fargli notare che si era scorticato metà del fisico. Lo istruì
su quando prenderli, come prenderli, per cosa prenderli, si raccomandò di non
bere nessun tipo di alcolico e andare al più presto dal suo medico curante per
tenere sotto controllo le ferite e soprattutto il versamento al ginocchio, e di
rimanere a riposo dai trenta ai quarantacinque giorni.
Aggiunse molte altre
cose, ma Oliver cascava dal sonno e il linguaggio medico da bugiardino gli
aveva fatto sfuggire il significato di diverse nozioni. Ma le sorrise comunque,
assicurandole che avrebbe seguito le istruzioni alla lettera e augurandole buone
feste già che c’era.
Quinn se l’era cavata
con due misere scatole di analgesici - uguali ad alcuni di quelli di Oliver - e
un unguento per aiutare l’ecchimosi a riassorbirsi.
«Non mi dirai che hai
l’auto nel parcheggio del Paprika, vero?» s’informò Oliver, mentre si
incamminavano lentamente verso l’uscita dove li aspettava un’auto gialla che
non aspettava altro che conoscere l’indirizzo verso cui andare.
«No, ci siamo trovati in
azienda e al locale ci siamo andati con una sola.» Rabbrividì, stringendo le spalle.
Oliver fece caso ora al
fatto che Quinn non aveva nulla di pesante con cui coprirsi.
«Vuoi la mia giacca?»
«No, grazie. Ti manca
soltanto l’influenza per chiudere l’anno in bellezza.»
Si sorrisero, risero,
avanzarono pian piano sotto i numerosi neon che illuminavano a giorno l’atrio
da cui si continuava a entrare e uscire con una frenesia stressata che
contagiava tanto era ansiogena.
«Odio gli ospedali.»
sibilò Oliver. Quinn sorrise.
«A me non fanno né caldo
né freddo. Ma non ci passerei le giornate.»
«Mi pare giusto.»
Oliver in pochi metri
era giunto alla conclusione di detestare le stampelle. Disagevoli, tediose,
rallentanti.
Si accorse praticamente
per caso un mazzolino di vischio verde e rosso appeso su uno degli usci che conducevano
fuori, che ondeggiava nel venticello freddo che spirava dall’ovest.
«Quinn.»
«Dimmi.»
Oliver raddrizzò la
spina dorsale - tentando di non far trapelare la fatica che gli costava -
spostò il peso sul piede destro e gli porse le stampelle.
«Me le tieni un attimo?»
Quinn lo fece. Gli passò
un braccio dietro la schiena per sostenerlo mentre spingeva la porta a vetri.
Poi Oliver lo abbracciò,
attese che Quinn trovasse l’equilibrio per entrambi, e lo baciò.
Un bacio non
perfettamente immobile, di quelli che si respiravano, che erano morbidi e
dolci, che si davano per esprimere affetto quando le parole non erano in grado
di giungere a un tale livello emotivo. Di quelli che sembravano dati a
tradimento e invece si aspettavano, si speravano, erano legittimi, erano
pretesi.
Di quelli che potevano
far evaporare ogni cosa, o che potevano condensare le sensazioni.
Di quelli che erano un
salto nel vuoto.
Oliver si allontanò, e
per quanto volesse negarlo, era teso. Non voleva che Quinn scappasse via.
Alzò le palpebre,
incontrando le iridi di Quinn, stanche, liquide, brillanti. Radiose. Un po’
peste ma splendenti come l’alba.
«Buon compleanno!»
esclamò Oliver divertendosi a sbilanciarlo, e godendosi le mani di Quinn che
nel frattempo avevano lasciato cadere le stampelle e cercavano di sorreggerlo
premendosi giusto sui fianchi.
«Ti comporti così con
tutti?» domandò trattenendo una risata che a Oliver non sfuggì. Si assestò,
posandogli un palmo sulla guancia, sfiorando delicatamente il gonfiore che
partiva da sopra lo zigomo.
«Solo con le persone
giuste.»
Quinn gli sorrise.
«E io sono una persona
giusta?»
Oliver incrociò i polsi
dietro il suo collo, osservandolo poco a poco. Prima la fronte, poi la linea
delicata del naso, la bocca da eterno adolescente, i capelli da cantante punk
che scappa di casa.
«Forse sei la persona
che sto cercando.»
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Grazie
per essere arrivati alla fine e per aver letto questo mio scritto. u.u
Un
commentino mi rende sempre felice.
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