Her name was Alice
L'aver cura si rivela così come una costituzione
d’essere dell’Esserci che, nelle sue diverse possibilità, è intrecciata da un
lato con l’essere-per il mondo di cui l’Esserci si
prende cura e, dall’altro, col suo autentico essere-per
il proprio essere. L’essere-assieme si fonda, innanzi tutto e spesso
esclusivamente, in ciò di cui in tale essere ci si prende cura assieme. Un
essere-assieme che trae origine dal fare le stesse cose resta per lo più non
solo limitato a rapporti esterni, ma dominato dal distacco e dalla riserva.
L’essere-assieme di coloro che sono impiegati nello
stesso affare non si nutre sovente che di diffidenza. Al contrario,
l’impegnarsi in comune per la medesima causa è determinato dall’Esserci che è
toccato rispettivamente nel proprio. Solo questo legame autentico rende possibile la
determinazione giusta della cosa in questione e rimette l’altro alla propria
libertà.
Heidegger, Essere
e Tempo, §26
Sul
pavimento dei tappeti persiani cercavano di scaldare i colori cupi
dell'ambiente. Lo studio dello psicanalista era nella penombra, il paziente si
era messo comodo, quasi spaparanzato. Parlava, una
parola dietro l'altra.
- Sono
ormai passati molti anni, ma non sono più io da quando lei non c'è più. Aveva i capelli nerissimi e giocava felice. Sorrideva, una farfalle le pareva una festa. Le guardava,
aveva quello sguardo stupito, quello innocente dell'infanzia, quello che niente
riesce a spostare. Ne guardava le ali dorate e sorrideva, sorrideva
mentre quasi batteva le mani. Era troppo ben educata per farlo, ma avrebbe
voluto davvero saltellare per la gioia. Si tratteneva però, perché era stata
abituata a comportarsi così, come una signora per bene, una signora
per bene della sua età, ovviamente.
Mi
seguiva ovunque, non c'era alcun posto dove non
sarebbe venuta con me. No, davvero, mi seguiva fin'anco
nelle nere profondità della terra, laddove il sole non c'è e il mondo diventa
uno specchio della realtà, dove le cose vanno all'esatto
contrario. Veniva con me, si fidava a lasciarsi andare. Dove andavamo
tutto era strano e misterioso e tutto poteva succedere. Era un posto
meraviglioso, ma anche sottoterra, un posto di vetro
eppure resistente. Lì c'erano i poeti che cercano di abbellire il caos e i
matematici che invece comprendono la bellezza nel caos, i linguisti che amano
l'anomalia e i medici che la combattono, i filosofi che parlano di ciò che sarà
e gli storici di ciò che era... Lì, nel mondo sottoterra, nel mondo nero e
grande, anche se non lo conosceva mi seguiva, senza temere i sorrisi che si
trasformano in lune e quello che da bello diventa brutto, come giocare a criquet o a scacchi e in palio c'è
la tua stessa vita. A volte fumava mentre mi correva dietro e un grosso bruco
le chiedeva una poesia, mentre lei tossiva perché il fumo le andava di
traverso. Era bello stare lì, davvero, era agevole scendere, facile come finire
per terra, quando non hai ancora un equilibrio stabile. Cadi e basta, solo che
vai oltre il pavimento, oltre la crosta. Non costava niente arrivarci, bastava
calarsi giù, senza preoccuparsi di farlo piano, perché poi, tanto, nonostante
ci provassi a usare la massima cautela, precipitavi di botto. Toccavi quello che
forse era il fondo, e, toh, diventava una gran corsa, una maratona che sembrava
girarsi intorno, perché non si vedeva mai la fine. Lei finiva lì, guardava
tutto, mi seguiva con la coda dell'occhio, mentre mi infilavo
i guanti e continuavo a scappare. C'erano trichechi che pensavano
di essere intelligenti e chi mangiava ostriche e champagne e chi avrebbe voluto
e si illudeva di farlo e che tutto fosse vero, assolutamente vero, e invece era
solo un sogno, una piccola illusione prima che tutto finisse. Era tutto
psichedelico, tutto vivo e vivace, le immagini diventavano grandissime, le
pitture si muovevano e si poteva parlare con i fiori se sapevi come farlo,
perché, bah, a me verrebbe voglia di mangiarli, ma qualcuno preferisce
parlarci. A volte, lei era piccolissima, così piccola che l'avrei potuta
schiacciare, a volte enorme e grande e le sarebbe bastato un dito per
uccidermi. Poi, lei prendeva la sua strada, mentre cercava di rincorrermi, si
perdeva. La sentivo che si stava dando un consiglio, che usava la sua
implacabile logica e, poi, per curiosità o per semplice spirito di
contraddizione faceva l'esatto contrario di ciò che le suggeriva il buon senso.
Era brava a parlare in teoria, perché non era sciocca, ma poi, quando si
trattava di passare alla pratica, non sapeva più a che santo votarsi e non
sapeva proprio cosa fare e finiva per fare la cosa più
sciocca possibile, quella che non avrebbe mai dovuto fare. Era fatta così,
incapace di scegliere, che cercava il dolcetto più gustoso e finiva per
scegliere qualcosa che non poteva davvero farle bene.
Usciva
dal portone e mi seguiva sempre, quando correvo guardando l'orologio. Con un
po' di pudore confessava che amava stare sul prato e non rientrare, le piaceva
farlo anche con la pioggia, ma alla fine, quando pioveva, correva a casa. Si
vestiva spesso di azzurro e non le importava di chi diceva che avrebbe fatto
tardi, per scoprire cose nuove con me avrebbe fatto ancora più tardi. Forse lo
faceva solo per stare con me, chi lo sa. A volte in piena notte sgattaiolava
via per venirmi a salutare e a trovare, rimaneva in silenzio e non parlava. Mi
guardava con i suoi occhi di ossidiana e mi sentivo importante, perché per lei
lo ero.
Non
ascoltava mai una parola delle lezioni, tanto che mi chiedevo come mai poi le sapesse,
ma non si perdeva nemmeno uno dei miei piccoli movimenti. Mai. Non c'era nulla
di me che le sfuggisse, tranne quando sbagliava, a volte penso volutamente, la
strada per trovarmi.
Cesellava
ogni singola parola che pronunciava e memorizzava con la massima velocità
quello che ascoltava o leggeva, ma preferiva i libri illustrati, quelli sì, le
piacevano davvero molto, soprattutto quelli con le figure intere e le
didascalie precise. Le piaceva decifrare i simboli, le piaceva
molto, la faceva sentire importante.
Andava matta
per il tè e gli scones,
quello me lo ricordo. Guai a chi le impediva di prendere il tè, guai a loro,
non poteva assolutamente farne a meno. Una bella tazza
calda e bollente di tè, una sorsata e via, era felice e contenta.
A
volte pensavo non mi seguisse e un po' mi sentivo libero, ma poi me la
ritrovavo dietro ed era un vero sollievo, perché... l'avrei cacciata, o mi
faceva arrivare tardi, ma non vederla, alla fine mi faceva preoccupare.
So che
amava tanto il museo di Storia Naturale e guardare gli scheletri di dinosauro,
perché le sembrava gigantesco, si era fatta portare anche a Londra per il
dinosauro e lo ha schizzato sul suo piccolo quaderno.
Poi, ovviamente, si era presa un tè speciale e cercava
di scappare da quella gente che la costringeva a fare la persona educata,
quella tutta seriosa, mentre voleva solo ridere e disegnare il dinosauro,
toccare la sequoia e stare lì. Dentro il museo di Oxford era tutta contegnosa,
Mi faceva ridere. Sognava spesso, a occhi aperti, di diventare una principessa
e cercava di imparare a comportarsi di conseguenza, ma i risultati erano vari.
Un'altra
cosa che le piaceva erano gli uccelli, era tutta felice di fronte al dodo e ci
sarebbe rimasta per mesi. Quando vedeva il dodo ero
anche un po' geloso, perché cosa c'aveva da fare con lui? Degli altri animali
non mi interessava, ma lui era un suo amico e avevo
paura prendesse il mio posto. Se poi avesse preferito rimanere con lui
piuttosto che cercarmi mentre mi perdevo per le strade? Io cosa avrei fatto?
Mentre
correvo davanti a tutti, lei veniva dietro di me, mi
rincorreva sempre e speravo quasi mi prendesse. Poi spariva, poi tornava e rispariva di nuovo, per poi ricomparire quando meno me lo
aspettavo. Era quasi una fuga la mia a volte, ma ero sicuro mi avrebbe sempre
seguito, ci sarebbe sempre stata dietro di me.
Un
giorno ha smesso. Semplicemente non mi ha più cercato, non mi è più corsa
dietro, non ha detto nemmeno "Basta". Io le passavo davanti e niente.
La cosa mi ha scombussolato, lei non lo ha dato troppo
a vedere. Si era semplicemente stufata di corrermi dietro, di scendere nel
tunnel con me, di sentire le cose che dicevo. Forse è solo cresciuta, perché i
suoi occhi erano cambiati, vedevano sempre quello che non c'era, ma mentre
carezzava la sua gatta il suo sguardo era distante,
c'era qualcosa che guardava oltre, che non si fermava più lì, tra di noi.
La
sensazione è stata strana. Anzi, i primi secondi ho pensato che non mi avrebbe
più fatto arrivare tardi, poi, mi sono sentito abbattuto completamente. Non
avevo più potere. A forza di fuggire, ormai ero solo un coniglio, non era più
quello che rincorreva... Non potevo più essere il bianconiglio,
era solo lei a rendermi tale. Ero un coniglio
qualsiasi che scappava, anzi, ora che non mi rincorreva nessuno ero solo un
ridicolo coniglietto saltellante che sembrava attuare una difesa. I suoi occhi
mi rendevano altro, quello che potevo essere. Mi vedevo attraverso i suoi
occhi. Ora i suoi occhi se ne erano andati, mentre carezzava un gatto e diventava
distante, sempre più distante. Capii che ero stato fortunato e non me ne ero
accorto. Ero stato importante, ero stato unico e specialissimo, avevo un nome
che era solo ed esclusivamente mio e, ora, proprio il mio nome, il mio essere
stesso, era scomparso. Solo perché aveva allontanato lo sguardo, io non c'ero
più per nessuno. Sparito, mi ero dissolto, in un gesto solo. Perché aveva
distolto lo sguardo, capisce? Aveva distolto lo sguardo e se ne era andata,
lontana, lontana. Non c'era più, forse mi aveva persino
dimenticato, perché non guardava più dove ero e, così facendo, mi ha distrutto.
- Come
si chiamava?
- Si
chiamava Alice.
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Buona sera (beh, qui sarebbero circa le tre di notte, ma
non ci formalizziamo)! Devo ringraziare chi ancora mi legge, dopo tutti questi
anni, e quelli che hanno iniziato a leggermi da poco, fa
piacere vedere che c'è chi recensisce vecchie storie scritte quando si era
ancora una ragazzina.
Questa storia apre un piccolo spiraglio sulla mia vita
privata, molto più di tutto quello che ho scritto. Ho una nipotina, beh, è alta, ma nipotina è il termine giusto, visto che ha circa due
lustri d'età, figlia di un'amica di famiglia che ha preso la simpatica
abitudine di chiamarmi "Zia", un termine che mi sta iniziando a far
pensare di essere abbastanza adulta, visto che potrei quasi essere la mamma
della signorina in questione. La suddetta creatura adora "Alice nel paese
delle meraviglie". Tra soli tre giorni cade Natale e la fanciulla
mi ha chiesto in regalo una storia, anche breve, in cui il protagonista fosse
il Bianconiglio, invece di Alice. Confesso di aver
utilizzato per anni il dizionario che porta il nome anche del padre di Alice Liddell, di aver avuto un professore di Filosofia al liceo
che andava matto per Lewis Carol, di essere stata a Oxford (storia abbastanza
lunga e complessa, ma ricordo Oxford con un affetto infinito, è un posto dove sono stata molto felice), di esserci ricapitata
non moltissimo tempo fa, di essere stata chiamata "Alice" da uno dei
miei migliori amici (che invece sarebbe il dodo, visto che è una persona
talmente buona da essere in via di estinzione), quindi, diciamo che ho una
conoscenza del romanzo che è abbastanza buona, anche se ovviamente non pretendo
di riscrivere il racconto dal punto di vista del Bianconiglio,
finirei per fare un pastrocchio ridicolo. Al massimo, ho preso un tè nella
saletta vicino al Christ Church e se vi dico che nel college ho trovato davvero
dei coniglietti bianchi potete crederci che lo dico perché li ho visti (ammesso
che non mi fossi addormentata sul prato per il caldo e
i troppi scones,
abbondantemente farciti di clotted cream e, qui ho gusti non propriamente tradizionali,
marmellata di lamponi, la mia preferita. Lo so che la tradizione prevede le
fragole, ma io preferisco la marmellata di lamponi, con quella di arance è la
mia preferita). Proprio oggi mi sono imbattuta in una
foto su fb di un coniglietto bianco sdraiato su un
lettino con Sigmund Freud vicino e sotto la scritta "Her
name was Alice". E'
stato quasi un lampo e ho approfittato della quiete notturna per scrivere
qualcosa di leggero.
Così è nata questa piccola storia che spero possa piacervi.