Everland

di AmbraDellaRosa
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Jaqueed 

Le nuvole erano il colore del fuoco quella mattina, il vento soffiava prima leggero, poi ti travolgeva in un turbine ed il cielo e la terra si mescolavano insieme prima che il vortice d'aria ti spingesse in avanti e potevi volare veloce come un fulmine. Le braccia di Jaque erano aperte come se fossero state le fiere ali di un aquila delle monagne dell'Est, che solca le distese di neve spuntando tra la nebbia alle prime luci del alba.
Le sue mani potevano tagliare le nuvole come se fossero zucchero, si chiese che sapore avessero in reltà, ma quella restò una domanda senza risposta. Prima ancora che potesse voltarsi del tutto, il cielo alla sua sinistra e le nuvole sora di lui si stavano catapultano nella sua direzione, come se quella parte di mondo fosse solo disegnata su una pagina che era stata girata e lui sarebbe stato schiacciato e condannato a fare da segnaibro tra il Nord ed il Sud.
La paura si impadronì di lui e in un attimo tutto divenne terrificante. Le voci nella sua testa iniziarono a farsi sentire insistenti "Cadrai!" diceva una particolarmente squillante, "Morirai!" urlava un altra con una nota stonata, una di quelle che premute insieme a quelle sbagliate fanno accapponare la pelle, "Per sempre nell'oscurita!" sibilò la terza, al contrario delle sue sorelle lo disse in un solo sospiro, immediato, quasi cantato, melodico, come se fosse un'oscura filastrocca che non doveva giammai essere recitata. Seguì un risata in cui le tre voci si mescolarono in un'armonia dissonante e Jaque si sentì cadere; le sue braccia ora non erano più distese come ali ma i suoi palmi spingevano contro le orecchie, "Ma noi siamo qui dentro" disse una delle voci, l'ultima che aveva parlato sempre con quel fare cantilenante ed una punta di falsa ingenuità.
Tutto divenne rosso e poi buio. Nel buio decise di spalancare gli occhi e gli uscì un urlo sordo, non seppe se qualcuno lo avesse sentito, ne se avesse davvero urlato, perchè neppure lui era certo di aver sentito qualcosa. I suoi pugni stringevano le coperte in una morsa. Messosi a sedere, con il fiatone, poteva sentire le sue spalle ed il suo ventre alzarsi ed abbassarsi ritmicamente. Attese che gli passasse, poi crollò indietro nel letto, con gli occhi ancora a fissare l'oscurità, così infinita, così paurosa, quante cose potevano celarvisi. "Troppa paura per dormire, troppa paura per alzarsi" gli diceva sua nonna, quando da piccolo aveva gli incubi e si faceva trovare nel letto a chiamare il suo nome quasi con la paura di essere sentito da qualcun altro, da qualche mostro, qualcosa che avrebbe potuto fargli del male. Ora non lo avrebbe sentito nessuno, meglio non dire niente, meglio fingere di dormire, meglio. Una parte di lui sperava che presto sarebbe sorto il sole in modo che i suoi raggi potessero scacciare la sua paura come l'oscurità, un'altra parte sperava che l'indomani non arrivasse mai; dopo quel sogno era più convinto che non sarebbe riuscito nell'impresa che doveva compiere. Le voci nella sua testa non erano insistenti come nei suoi sogni ma una delle filastrocche della voce più inquietante tornò a farsi sentire:

"Dopo undic'anni il filo si spezza, 
la Parca lo taglia non lo rammenda,
la tua vita appesa al filo,
lo lasci, lo lasci, sei solo un bambino" 

Jaque si rigirò nel letto "zitta" pensò, "zitta!"
"Cadi, cadi, giù, più giù,
l'oscuro ti inghiotte, non ti lascia più
Jaque, Jaqueed, che bel nomicino 
conserverò il filo per un altro bambino!"




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