Attenzione: la presente storia
ha come protagonisti personaggi veri e personaggi inventati. Non ha
alcuna pretesa di veridicità / verosimiglianza e non intende
offendere nessuna delle persone ivi citate. Nessun diritto legalmente
tutelato s'intende leso.
Centrefolds
Io
sapevo che sarebbe successo.
Lo
sapevo.
Lo
sapevo come si sanno queste cose. Ti ostini a nasconderle in fondo ad
un
cassetto, non le tiri più fuori, le ignori e fingi di
dimenticartene. Ma non te
ne dimentichi davvero.
Determinate
cose non si dimenticano quasi mai.
La
mia vita è fatta di successi. Piccoli, sudati e cazzo! meritati. Tutti.
Ci
ho messo me stesso nel costruirmi questa vita, ci ho messo tutto quello
che
avevo a disposizione, non mi sono risparmiato nulla, non mi sono
risparmiato io
stesso. Quindi, quello che ho, che tengo ben stretto, è mio ed io ne vado fiero, ne sono
orgoglioso e lo reputo un
sacrosanto diritto, sul quale non permetto a nessuno di sindacare.
Vi
da fastidio? Problemi vostri. Non vi ho chiesto io di comprare i miei
dischi,
non vi ho chiesto di venire ai miei concerti, né di pagare
per queste
interviste o di smaniare per vedermi apparire sulle vostre televisioni
o
sentirmi alle vostre radio. Io non vi ho chiesto nulla, ho offerto
qualcosa,
voi lo avete accettato, ma le cazzo di condizioni, ora come ora, le
detto io ed
io soltanto.
Tutto
questo per dire che odio quando
qualcuno mi porta dove non voglio solo per il gusto di uno scandaluccio
da
paese.
La
logica vorrebbe che, odiandolo, io mi limiti a rimbeccare la
giornalista
rotonda e graziosa che mi sorride falsa come una monetina da Luna Park.
E che
nel rimbeccarla, con gelida, cortese, ironia sprezzante, le chiarisca
subito
che le sue domande del cazzo le può graditamente riporre
dove più le piace, ma
sicuramente lontano da me.
La
logica vorrebbe, insomma, che io facessi come faccio sempre quando
qualcosa in
un dialogo mi infastidisce e, quindi, mi rifiutassi di rispondere e
lanciassi
un educato avvertimento al mio interlocutore perché misuri
bene la quantità di stronzate
che intende ancora rovesciare
in questa conversazione. Perché la mia pazienza ha un
limite, per natura
terrificantemente labile e prossimo alla rottura.
Solo
che sapevo che prima o poi sarebbe successo.
I
dannatissimi cassetti della mente umana fanno schifo sotto un numero
spropositato di aspetti. E, decisamente, sono molto poco idonei a
contenere i
ricordi spiacevoli.
Mi
ero trasferito a Londra da pochissimo quando entrai al College. Ci ero
andato
apposta, del resto. Tra le grida infuriate di mio padre ed i pianti
isterici di
mia madre. Barry, che io ricordi, fu l’unico a prendere la
cosa con una
filosofia impressionante.
Sempre
che ridere ferocemente di me e dirmi che non sarei sopravvissuto due
giorni
fuori casa da solo potesse essere considerato adesione ad una corrente
di
pensiero filosofico.
Fatto
sta che all’aeroporto ci ero arrivato in solitudine, in
macchina, con l’autista
che mi lanciava occhiate scettiche dallo specchietto retrovisore. Mio
padre mi
aveva rivolto l’ultimo saluto la mattina stessa, prima di
andare a lavoro,
dicendomi chiaro e tondo di non farmi rivedere mai più, e
mia madre era da
qualche parte dentro casa, con la domestica ed una confezione di sali
sotto il
naso per riprendersi da quel terribile
colpo.
Mio
fratello, in effetti, non ricordo dove accidenti fosse…
Ma
sto divagando e direi che potremmo saltare a piè pari tutta
la parte del
lugubre viaggio fino all’aeroporto e dell’arrivo
nella fredda ed inospitale
Inghilterra. Soprattutto perché io non trovai affatto
lugubre il viaggio – ero
semplicemente euforico all’idea di
mandare al diavolo casa, famiglia e quella cazzo di vita che avevo
fatto per
ben diciassette anni! – e l’Inghilterra
mi apparve da subito come l’unica
Terra Promessa per la quale valesse la pena di sbattersi un
po’.
Non
salteremo, invece, la parte del mio arrivo al College,
perché in fondo ruota
tutto attorno a questo ed attorno alla creaturina insignificante e
vagamente
pietosa che ero allora. A rivedermi adesso non mi stupisco affatto
della
pessima adolescenza che ho trascorso.
Perché
all’epoca Brian Molko era un affaretto ridicolo, bassino e
cicciottello come un
bambino rimpinzato di caramelle dalla madre – la
mia è sempre stata generosa di dolciumi, ora che ci
rifletto, come
non lo è mai stata di libertà in altri ambiti
espressivi – e se non
apparivo come un completo e totale disastro, lo dovevo solo al fatto
che non
apparivo proprio, avendo sviluppato – per istinto di
sopravvivenza, immagino –
una ragguardevole capacità di mimetismo con le pareti
circostanti.
Come
mi fosse poi saltato per testa di andare ad iscrivermi ad
un’Accademia di arti
figurative e di intraprendere la carriera di attore, rimarrà
un mistero per me
anzitutto. Forse è per questo che si trattava di qualcosa
destinano a
naufragare dapprincipio.
Fatto
sta che il discutibile essere umano che ero allora arrivò a
Londra e si
iscrisse al Goldsmith College, entrandoci per la prima volta per
prendere
possesso di una stanzetta adorabile in campus, stanza che dividevo con
un tizio
di cui non ricordo nome, faccia o qualsiasi altro segno distintivo.
Ci
rimasi talmente poco in quella stanzetta, che è un miracolo
mi ricordi di
esserci mai passato.
Peraltro,
tolleravo a stento il fatto che fosse comunque mio padre a pagare per
il
College - su richiesta pressante di mia madre che non poteva sopportare
nemmeno
l’idea che io dovessi davvero arrangiarmi da me. Nella teoria
delle cose, la
mia avrebbe dovuto essere una fuga da casa, il fatto che casa
continuasse a provvedere alle mie esigenze mi urtava non poco.
Sul momento accettai perché non potevo fare altrimenti
– sono sempre stato un
bambino talmente viziato! - ma misi
giù la borsa nel mezzo della camera, mi guardai attorno e
cominciai a contare i
secondi che mi separavano dal giorno in cui sarei uscito da
lì ed avrei detto
definitivamente a mio padre di andare a farsi fottere, lui ed i suoi
soldi.
..sì,
questa storia tende a colorarsi di eventi tutt’altro che
significativi. Alla
fine capita sempre che, quando lo apri, quel cassetto, dentro ci trovi
un tale
spropositato numero di oggetti di cui non ti ricordavi più
da perdere ore
intere a cercare di collocarli di nuovo al proprio posto nella memoria.
La
stanza al campus, il mio compagno, il primo giorno di
corso…sono altrettanti
giocattoli nascosti che mi rigiro tra le mani con curiosità
autentica e con una
punta di soddisfazione per quel ritrovamento.
La
giornalista tossicchia attorno alla propria domanda, aspetta che io le
risponda. Io la osservo, il viso posato contro la mano, sospiro ed il
fiato
caldo investe le mie dita mentre dietro ci nascondo un sorrisetto
cattivo.
Mi
hai fatto un tale
inaspettato e spiacevole regalo, mia cara, che dover rimanere
lì in paziente
attesa sarà una cosa della quale dovrai ritenerti fortunata.
In
realtà la faccia di Tristan appare quasi subito dal fondo
del cassetto. Non mi
ci vuole molto a ritrovarla in mezzo al resto, è trasparente
come una biglia di
vetro ed al centro esatto c’è un macchia colorata,
proprio come quelle delle
biglie di vetro. Quella macchia colorata sono io, ciò che
rimane di quello che
provai allora, rinchiuso all’interno di un ricordo che ormai
è sbiadito dalla
rabbia e dal rancore, dal tempo che ci è passato su e che lo
ha levigato – liscio come vetro,
perfettamente sferico, se
lo faccio rotolare a terra scivolerà via e si
perderà.
Tristan.
…che
cazzo di nome idiota.
Avrei
dovuto pensarci subito che sarebbero stati guai.
Invece,
che volete farci! all’epoca fingevo ancora di essere un animo
romantico.
Anche
se, di romantico, sesso…amore…e roba
così hanno davvero poco. Niente. Neanche
per sbaglio. Il romanticismo è una bella menzogna,
confezionata in nastrini
colorati e bamboline di zucchero da mettere sulle torte, il rapporto
che ora ho
con Helena e che è il più solido che io abbia mai
costruito nella mia vita si
fonda su questa stessa convinzione.
Il
matrimonio è un compromesso ragionevole tra due persone
adulte e responsabili.
Una coincidenza di intenti, rivestita di una forma giuridica per amore
della
prevenzione. Noi non siamo sposati, chiaramente, ma confido che il
nostro
“accordo” sia sufficientemente duraturo e chiaro
da non necessitare di una solennizzazione di tale tipo.
Ma
allora ero ingenuo, sprovveduto e fatalmente convinto che buttare fuori
il
veleno che avevo accumulato grazie a mio padre ed al bigottismo di mia
madre
fosse la chiave per riuscire a raggiungere un meraviglioso equilibrio,
fatto di
amore – ricambiato, per carità, non tollero di
essere meno che adorato - per il
mondo intero. Un’illusione destinata ad infrangersi
rapidamente ed a
comportare, tra l’altro, la revisione totale delle mie
posizioni con
riferimento agli insegnamenti di mio padre.
Lui
è stata indubbiamente la cosa più formativa
capitatami nella vita e, se sono
qui oggi, se questa graziosa e paffutella signorina che saltella
impaziente
sulla sedia mi sorride congelata nonostante la palese insofferenza, lo
devo
esclusivamente a lui.
Se
non si fosse premurato di distruggere tutti i miei sogni quando ancora
avevo il
diritto di possederne, non sarei mai stato in grado di passarci su con
tanta
nonchalance nel momento in cui mi sono potuto permettere di
realizzarli. E non
sarei mai stato in grado di fare altrettanto con il mio prossimo.
Eppure
quando Tristan piombò nella mia vita, io stavo attraversando
una gioiosa fase
di regressione emotiva, convinto com’ero che il mondo intero
mi sorridesse solo
perché non poteva più farlo mia madre alla
mattina quando scendevo per la
colazione.
Un
tale stato d’animo, connesso alla mia totale confusione in
ordine ai rapporti
interpersonali – io non
avevo mai avuto dei rapporti
interpersonali –
al totale disorientamento da provincialotto catapultato nella metropoli
dai
costumi libertini e - cosa di non minore
importanza, penso – alla bellezza vagamente eterea
ed irreale di Tristan,
alla sua ambiguità sfacciata e portata in palmo di
mano…beh, tutto questo
complesso di cosucce deve aver influito non poco sul modo in cui rimasi
letteralmente folgorato nel vederlo la prima volta.
Giusto
per dovere di cronaca e per semplicità di narrazione,
specifico che successe ad
un party. Uno di quegli incasinatissimi raduni improvvisati che ogni
tanto si
organizzano nei corridoi dei campus universitari, in cui nessuno
conosce
nessuno e tutti bevono birra fino a sfondarsi felicemente, senza
neppure sapere
da dove venga e perché sia lì.
Un
mondo meraviglioso che mi si spalancava davanti!
Tristan
non era da solo quella sera, stava con un tizio ma lo venni a sapere
solo molto
più tardi. Sul momento quello che registrai fu la sua
presenza bruna, gli occhi
come due spezzoni di cielo staccati a forza per essere incastonati su
quel viso
pallido e dai tratti affilatissimi. Aveva un enorme capigliatura di
riccioli
piccoli e scuri, lunga fino a sotto le spalle, la portava raccolta in
una coda
morbida, ed era spaventosamente alto e spaventosamente magro, con le
braccia e
le gambe lunghe, muscolose ma incredibilmente sottili e nervose. Era
volutamente sciatto, fintamente trasandato, in una sorta di
ostentazione
sfrontata di disinteresse per sé.
Ovviamente
tutto in lui gridava di bugia a miglia di distanza. Quando i suoi occhi
ti si
piantavano addosso boccheggiavi sotto la loro limpidezza ed insieme
agonizzavi,
perché erano come stilettate che si piantassero ben dritte
nella testa. Il suo
sguardo era lo specchio fedele di un’intelligenza pronta,
viva e veloce, che ti
incuteva un timore reverenziale, ed insieme era uno specchio
torbidissimo di un
animo che annusavi subito essere falso e doppiogiochista, arrogante ed
incurante degli altri.
Vi
pare mai che un simile campione di cattive qualità potesse
restarmi
indifferente?
Non
lo fece, è ovvio. Almeno tanto quanto è ovvio che
io, in compenso, gli fui del tutto
indifferente. Perlomeno in
quella prima occasione. Se Tristan non rimase per me solo
un’affascinante
figurina sul fondo della festa, lo dovetti al fatto che il tizio con
cui ci era
venuto – un certo Finney Non So Chi – se lo perse
di vista nella baraonda
confusionaria che regnava in quella parte di corridoio. A Tristan
questa cosa
urtò non poco e, dopo aver girato a vuoto nel bordello
immane che ci
circondava, per qualche assurda ragione approdò davanti a me
e si fermò a
guardarmi perplesso.
-…tu
sei il compagno di stanza di Finney?- mi chiese.
Scossi
il capo in automatico, ma in realtà non lo stavo neppure
ascoltando, registrai
solo il nome – Finney – e mi resi conto che no, non
mi ricordava nulla. Per il
resto, ero troppo impegnato ad osservare la sua bocca: ricordo che
aveva le
labbra molto sottili, ma erano di un rosa talmente vivido da essere
bellissime
comunque.
-No,
io sto in stanza con Sam Potter.- aggiunsi visto che lui sembrava
piuttosto
stizzito da quell’imprevisto.
…ecco
come si
chiamava…Sam…
Tristan
soffiò come un gatto, altrettanto grosso e pasciuto e gonfio
di un
autocompiacimento irrispettoso del prossimo. Si guardò
attorno ed io capii che
se ne sarebbe andato di lì ad un momento e la cosa mi
lasciò un sentore di
amarezza che mi spinse ad agire.
-Comunque
io sono Brian.- mi presentai senza neppure rendermene conto.
Dio!
Ero patetico!
Gli
occhi azzurri mi rimisero a fuoco, sollevando un sopracciglio in
atteggiamento
di scettica valutazione. Mi stava soppesando, esattamente come se io
fossi un
oggetto da stimare al mercato per decidere se valeva la pena di
concedermi
attenzione una seconda volta.
-Tristan.-
decise di rivelare alla fine, in tono asciutto e scostante.
Giusto
per mettere in chiaro che quella gentile concessione era stata dettata
da un
atto di pietà e che facevo bene a non aspettarmi che
replicasse o che la sua
benevolenza potesse arrivare oltre quel punto.
Ed
io avrei fatto bene a capirlo da subito.
Quindi,
chiaramente, non lo feci.
L’esistenza
di un adolescente – che non
è più davvero
tale, almeno sulla carta – in un campus
universitario – in cui gli spazi,
le realtà, le compagnie
sono strette e
soffocanti e sembra di vivere in un rarefatto
ambiente
di nuvole spumose su cui passeggiare fino allo schianto al suolo
– è quanto
di più alienante possa essere concepito da essere umano.
Corsi, vita di gruppo,
ancora corsi, e studio fino allo sfinimento. Niente che valga la pena
di essere
davvero vissuto, insomma. È come stare rinchiusi in una
gabbia e, man mano che
allarghi il giro che ci fai tutt’intorno, scopri la
verità su quanto sia
angusta e su quanto ti tenga prigioniero.
Questa
fu la prima sensazione che riuscì a formarsi in maniera
completa nel mese del
mio arrivo al Goldsmith. Nel secondo mese la sensazione si
rafforzò. Al terzo
smaniavo per mollare quel posto, scappare da lì e tuffarmi
anima e corpo in una
città – Londra
– che avevo fino a
quel momento soltanto osservato da lontano.
Nel
frattempo la mia noiosissima sopravvivenza si era colorata di due note
di
dissonanza.
La
prima era stata Celine.
Celine
non era una matricola come me, lei era iscritta a quel College da due
anni
ormai, ma in due anni aveva frequentato poco e niente delle lezioni e
dei corsi
ed aveva dato ancor meno esami. Così successe che
c’incontrammo proprio ad
un’esercitazione del primo anno, in cui finimmo per caso a
fare coppia assieme
in un esercizio di recitazione. Non so esattamente cosa la
colpì in me, fatto
sta che io le stavo simpatico e lei decise di prendermi sotto la sua
ala
protettiva.
Scoprii
in fretta che uno dei motivi per cui Celine non aveva terminato il
proprio anno
di corso era il fatto che al College ci vivesse poco e niente. Tutta la
sua
frenetica esistenza si svolgeva nella stessa Londra che io sognavo
dalla
mattina alla sera e nella quale mi ritrovai catapultato
all’improvviso, quando
lei decise di farmi uscire dal bozzolo nel quale mi ero rintanato.
Celine
era un essere affascinante, lo ammetto. Era interessante, ma non bella;
era
euforica e travolgente, ma non dinamica; era accattivante senza essere
un vero
animale sociale… A lei piacevano le feste, essere al centro
dell’attenzione,
guadagnarsi da vivere con il minimo sforzo, non doverne rendere conto a
nessuno
e scopare.
Scopava
così tanto che mi stupivo trovasse tempo per fare altro.
Beata gioventù…
A
me, comunque, andava bene. Chiaramente non rientravo nel suo
“genere” e,
quindi, con me non scopava affatto. Ma siccome il sentimento era
reciproco e
quella nostra stramba amicizia era più che appagante, non mi
dispiaceva affatto
l’esserle indifferente per quanto riguardava il rotolarsi tra
le lenzuola.
Anche
perché qui si intromette la seconda nota dissonante.
La
cosa veramente piacevole delle dissonanze è che creano
increspature.
C’è
un’armonia di base, che è come il corso di un
fiume o di un ruscello – dipende da
quanto schiocca scivolando sulle
rocce, da quanto è forte la corrente, da quanto veloce corre
l’acqua… - su
questa armonia si innesta la dissonanza come increspatura a pelo
d’acqua. Si
allarga in cerchi concentrici e poi viene riassorbita, ma io mi diverto
a
credere che muti almeno un po’ il corso del fiume, quanto
meno attirando
l’attenzione di chi la osserva… Anche il semplice
scorrere del tempo sulle cose
è già mutamento, il modo in cui lo si lascia
scorrere – osservando o correndo
verso il mare – comporta il segno di quel
mutamento.
Celine
fu un’increspatura vorace, enorme; affamata di vita
com’era mi trasmise la
stessa fame e la stessa bramosia, catapultandomi in un mondo fatto di
corse
contro il tempo nel desiderio di afferrare tutto e subito. Non mi
è mai più
passata, sono ancora assolutamente istintivo nelle mie cose, mi getto a
capofitto senza pormi problemi e poi, quando i problemi appaiono, ci
passo su
con indifferenza, alla ricerca dell’obiettivo successivo.
Tristan
doveva essere un’increspatura violenta, di quelle che almeno
per un momento
cambiano del tutto il corso dell’acqua: non scivola
più dal monte a valle, ma
inverte la rotta e si ostina a cercare di risalire il pendio. Era
chiaro,
quindi, il fallimento insito in tutto questo.
Ancora
una volta per dovere di cronaca, preciso i particolari più
rilevanti del
contesto in cui ci muovevamo. Tristan era più grande di me
di due o tre anni – lui frequentava
il corso di recitazione ed
era al terzo anno – non stava con Finney, il
fantomatico tipo della festa,
come non stava con nessun altro. Era piuttosto una di quelle
affascinanti
persone che usano la propria bellezza – il
proprio “sapere di piacere” –
per ottenere attenzione, favori ed una buona
dose di servilismo gratuito da parte di chi li circonda.
Io
sarei volentieri rientrato nella categoria di quelli che si fanno
sfruttare, ma
Tristan non era all’epoca interessato alla cosa. Aveva
già una nutrita schiera
di maschi e femmine
che gli ruotavano attorno desiderando solo compiacerlo e
sperando di guadagnarsi un minimo di “riconoscenza”
in cambio, io decisamente
non avrei mai potuto competere con loro e, se per questo, non ci
provavo
neppure. Mi accontentavo di guardare Tristan e la sua variegata corte
da
lontano, compiacendomi di osservarlo come si farebbe con una statua o
un’opera
d’arte e convinto che non mi sarei potuto muovere di un
millimetro da quella
posizione per avvicinarmi a lui.
Ed,
in effetti, era esattamente così.
Mi
ci abituai. Se ci ripenso adesso mi rendo conto che all’epoca
avevo uno spirito
di sacrificio decisamente più sviluppato, le cose che mi
davano davvero
fastidio erano molto poche e, comunque, ero in grado di adattarmi anche
a
quelle. Non che ora non sia capace di farlo. C’è
poco e niente davanti al quale
opporrei un “no” deciso. Ma allora, a differenza di
adesso, avevo molti più
motivi per sorridere e dire di “sì”.
Ora
sorrido davvero poco, ancora meno lo faccio sinceramente, ed in
generale se
qualcosa mi da fastidio la elimino.
Celine
aveva un giro di amici piuttosto ampio.
Anche
a vederlo dalla prospettiva odierna – in cui il novero dei
miei conoscenti è,
chiaramente, tutt’altro
che irrisorio – il suo giro
era
piuttosto ampio. Celine era una meravigliosa fanciulla di quelle che
conoscono
praticamente chiunque, in qualsiasi ambiente.
Lei
era alternativa quando al venerdì sera andava a sentire i
suoi amici suonare
nei pub underground. Era snob quando al sabato s’intratteneva
nei club privati
e nelle discoteche chic. Era solare ed un po’ ingenua alla
domenica, al parco
con i colleghi dell’Università. Era
così deliziosamente mutevole che il cielo
di Londra al confronto era blu e limpido come Haiti.
Ad
un certo punto io le dissi che mi ero rotto le palle di fare vita di
campus.
Lei
mi rispose che non c’era problema e mi trovò un
appartamento in città in meno
di due giorni.
Poi
venne un momento in cui le dissi che avevo voglia di ricominciare a
suonare.
Lei
mi rispose che andava bene e mi presentò qualche amico e
presentò me in un paio
di locali.
A
quel punto decisi che era arrivato il momento di cambiare tutto.
E
Celine ridacchiò assieme a me mentre sedevamo sul mio letto
e mi ricambiò lo
sguardo malizioso che le rivolgevo.
Per
un momento desidero davvero volermi bene. Non lo faccio tanto spesso,
è una
condizione alla quale ci si abitua in fretta ed ha troppe
controindicazioni per
essere veramente apprezzabile. Ma ogni tanto mi capita di trovare in me
lati
che possono apparirmi validi e piacevoli, li rimiro un pochino
– giusto quanto
basta per sorridere divertito e compiaciuto come in questo momento
– e poi li
rimetto a posto, prima che diventino un problema reale da porsi.
Stavolta,
mentre la signorina paffuta sbuffa in un accenno sottilissimo
– oh, non vuoi veramente irritarmi!
e farmi
fretta è un modo rapido per irritarmi –
io desidero sinceramente volermi
bene almeno un pochino. E più precisamente, desidero
sinceramente volere un
pochino di bene a quel me insignificante che è sparito nelle
pieghe del tempo.
Quindi
dirò che anche allora – o
meglio, che
sempre, in qualsiasi momento, in qualunque istante
– avevo una dote che non
tutti possiedono. Un feroce senso
dell’ironia.
No,
non sottovalutatela come qualità. Fareste un errore di cui i
vostri nemici si
potrebbero approfittare facilmente.
Io
me ne sono sempre approfittato con disinvoltura invidiabile, ad esempio.
L’ironia,
soprattutto quando si accosta all’auto-ironia,
serve a renderci inattaccabili – c’è
davvero poco che possa raggiungere una
persona disposta ad incassare con una risatina ed una scrollata di
spalle – e
rende gli altri assolutamente alla nostra portata, smontando
l’aura di
magnificenza che li circonda anche quando siano realmente
superiori a noi su qualunque fronte.
Chiaramente
l’ironia di cui parlo si accompagna ad un’assoluta
mancanza di senso del
pudore, ma ammetto di non aver mai scarseggiato nemmeno in quel senso.
Le
due componenti combinate assieme, comunque, danno ottimi risultati.
Provate
a guardarmi e ditemi che sto mentendo.
Io
non avevo nulla da perdere.
Vedevo
la mia vita da un’angolazione tale da renderla simile ad una
barzelletta non
troppo riuscita.
Mi
trovavo patetico allora, tanto quanto mi reputo patetico adesso a
guardarmi
indietro.
Insomma.
Sapevo che qualcosa andava fatto.
Celine,
poi, mi diede una poderosa spinta in questo senso.
Con
grande rammarico di mammina, che ci provava ancora a tenere i contatti,
la mia
frequentazione dei corsi al college divenne assidua più o
meno quanto quella di
Celine.
Il
risultato più immediato fu che smisi di vedere Tristan,
perché lui invece
passava il proprio tempo buttato tra aule e cortili, chiocciando felice
con i
propri cortigiani vestiti a festa. Io mi accontentavo di passare da
lì “per
caso” quando mi trovavo in sede per qualche esame o per un
corso che proprio
non potevo saltare, lo spiavo da lontano, me ne riempivo gli occhi fino
allo
sfinimento e poi tornavo a scorazzare libero oltre le mura del college.
L’effetto
immediato avrebbe dovuto essere un radicale ridimensionamento dei miei
risultati
negli studi, ma considerato che di talento non ne ho mai avuto di
più per la
recitazione che per la musica e considerato che ero abbastanza
intelligente per
cavarmela con qualunque corso teorico, su quel fronte non si mosse
nulla né in
un senso né in quello opposto.
Io
invece mi mossi, eccome.
Mi
piacerebbe perdere il mio ed il vostro tempo rievocando i singoli
passaggi di
quella trasformazione da baco a farfalla. Non lo farò.
Anzitutto perché, più
che una farfalla, sono diventato una falena
– una creatura notturna, priva di colore, grigia come solo
Londra sa essere ed
altrettanto brutta, sporca ed indifferente. Nessuno ama una falena,
nessuno lo
fa davvero, è poco più di una macchia sul muro:
le sue ali, che sono belle
tanto quelle di una vera farfalla, sono così prive di
attrattiva e di lusinghe
da risultare solo sporco sulla faccia del mondo.
Del
resto non ero davvero nemmeno un baco. Più un verme
in potenza. Un autentico, piccolo, strisciante esserino di
cattiveria repressa e mancanza di buon senso. Grazie a Dio, non mancavo
affatto
di senso pratico e di spirito calcolatore, li avevo ereditati nella
stessa
misura dai geni paterni ed erano lì, che aspettavano solo di
fiorire e di
costruirmi attorno il bozzolo artificioso nel quale avrei riposato in
attesa di
ricevere in dono un bel paio di ali.
Per
cui la mia favola non fu affatto una vera favola. Nessuna storia di
anatroccoli
che si trasformano in cigni da raccontare e, pertanto, niente che valga
davvero
la pena tirare fuori dal cilindro dei ricordi perché sia
rivestito della grazia
annacquata che hanno sempre le storie lontane e perse.
Dunque,
non racconterò questa fiaba dell’orrore. Non
dirò di come l’essere pietoso era
destinato a diventare in fretta un principe dei pantani. Ero viziato e
lo
rimasi, ero annoiato dalla vita e non mi è mai passata, ma
ero diventato anche
più esigente e volevo quello che prima mi accontentavo solo
di guardare da
lontano.
Cominciai
con il voler essere bello.
Celine
rise di me e mi disse che, in realtà, era molto
più semplice di quello che
potesse sembrare. La bellezza - sosteneva lei che
“bella” non lo era affatto –
è un concetto assolutamente fuori moda, la gente dice
“bello” quando vuole dire
“sesso”. Quindi, la chiave è il sesso.
Ed il sesso può farlo chiunque.
Aveva
ragione, chiaramente, ma - come scoprii quando cominciai a dimagrire, a
curare
il mio aspetto, ad aggiungerci modi smorfiosi da mocciosa arrogante,
allusivi
come quelli di una lolita quindicenne ma molto più torbidi,
perché io non ero una
lolita e non avevo affatto quindici anni
– nel mio caso la bellezza
era anche bellezza. Da mia madre avevo rubato la pelle chiara come la
neve, i
capelli scurissimi, gli occhi grigi e mutevoli, falsi. Da mio padre
avevo preso
la spregiudicatezza, la mancanza di senso dell’onore, la
voglia di vincere,
l’assenza di affetti, la capacità di simulare.
Da
Celine imparai i modi da puttana che il mondo voleva da me.
E
qui la favola si chiude, le porte di Londra si spalancavano ed io
diventavo
l’ennesima creatura sospesa tra un eterno crepuscolo e la
notte più nera: non
troppo scura, non eccessivamente chiara, a mio agio dovunque e dovunque
fuori
luogo.
Ma
sicuramente non indifferente al prossimo.
Era
arrivato il momento che anche Tristan se ne accorgesse.
Fu
il caso a fare in modo che accadesse.
Fino
ad allora, il mio interesse per i maschi
era rimasto un qualcosa di
latente. Non mi ero mai nascosto che esistesse: l’interesse
per Tristan lo
avevo qualificato in termini esatti fin dal primo momento in cui avevo
sentito
una scarica di adrenalina scivolarmi lungo la schiena solo ad
incrociare i suoi
occhi. E non mi erano neppure mancate le occasioni per verificare se
fosse un
episodio legato al solo Tristan o un qualcosa di più
profondo e meno poetico.
Eppure
quelle stesse occasioni le avevo snobbate
con finto disinteresse. Mi incuriosivano e, sicuramente, mi eccitavano,
ma un
po’ per sana paura un po’ per meno sana noia non mi
ci addentravo. Le persone
che frequentavo in quel periodo mi apparivano tutte ugualmente scialbe
e prive
di consistenza e, sebbene mi divertisse far credere loro che fossi
davvero solo
una puttanella alle prime armi, la verità era che non
m’intrigavano al punto da
volermi concedere sul serio. Qualche tizio più interessante
degli altri si era
anche fatto avanti, ma fu proprio mentre valutavo la
possibilità di accettare
le loro proposte che Tristan ricomparve nella mia vita dopo che, per un
po’
almeno, lo avevo accantonato in un angolo buio dal quale riemerse senza
alcuna
fatica.
Successe
una sera che stavo tornando da un pub
ed ero, insolitamente, meno ubriaco di quanto avrei dovuto. Celine, che
invece
era persa nei sogni estatici che birra e droga le propinavano
generosamente, mi
stava addosso, aggrappata al mio braccio e con la testa posata sulla
spalla.
Ridacchiava come una scema e aveva difficoltà enormi ad
incocciare
correttamente nei gradini sconnessi della scalinata che portava al mio
appartamento. Mi aveva chiesto lei di non riaccompagnarla a casa
propria,
viveva con due secchione rompiballe che le facevano storie come se
fossero
state sua madre e sua sorella e lei, se poteva, preferiva accettare
l’ospitalità di qualcun altro quando si riduceva
troppo male da non potersi
evitare una paternale senza autorità dalle due bigotte.
Stasera toccava a me,
Celine era troppo ubriaca e troppo fatta anche per riuscire a destare
l’attenzione di qualcuno degli amici che avevamo mollato al
locale, loro le
avevano gettato un’occhiata pietosa e poi mi avevano
consigliato gentilmente di
portarmela via finché era in grado di muoversi senza
vomitare l’anima. Avevo
seguito il consiglio, trascinandomela in strada mentre lei rideva
felice e
gridava al cielo pezzi sconnessi di frasi e canzoni. A parte doverla
riacciuffare un paio di volte prima che si buttasse sotto un auto o,
più
semplicemente, si accasciasse stremata contro il muro di un palazzo,
portarmela
dietro non era stato nemmeno tanto difficile. Mentre introducevo le
chiavi nella
serratura del portone, Celine si era abbattuta sul corrimano
arrugginito,
lasciandosi dondolare piegata a metà ed arrotolata attorno
al ferro gelido,
avevo controllato distrattamente che non cadesse di sotto, poi
l’avevo
richiamata secco quando lei si stava facendo scivolare troppo in
là e, con uno
spintone deciso alla porta dietro di me, avevo aperto e me
l’ero tirata in
braccio, obbligandola a posare il piedino calzato in costosissime
scarpette di
raso con il tacco sul primo dei gradini consunti.
-Brian!-
aveva mugolato lei, abbracciandomi
grata e stendendomisi addosso. Il suo fiato caldo e pesante mi aveva
dato noia,
ma siccome era sempre Celine – la mia piccola, pazza, assurda
Celine – avevo
sopportato, concedendomi solo un sorrisetto cattivo mentre continuavamo
ad
avanzare con difficoltà nella penombra sporca della tromba
delle scale.- Tu non
sei un ragazzo!- aveva affermato lei con convinzione- Tu sei un angelo!
Un vero
angelo! Vomitato dritto dalle fiamme dell’Inferno per venire
ad appestare il mondo
con la tua presenza!- mi disse in modo alquanto carino.
-Sì,
Celine, certo. E tu sei la fata turchina:
un’ubriacona strafatta che parla con gli animali proprio come
lei.- ribattei
pigramente.
-…‘fanculo.-
borbottò Celine contrariata dal
fatto che non avessi apprezzato i suoi complimenti.
Sospirai,
domandandomi che diavolo ci guadagnavo
a restare amico di quella lì – si
sarebbe
ammazzata entro l’anno, dovevo solo avere pazienza e poi una
dose di troppo se
la sarebbe portata al Creatore…sempre ammesso che Celine
credesse ancora a
queste cazzate. In tutta onestà avevo di meglio da
fare che non badare ad
una scema, incapace anche di gestirsi per non finire strafatta in
strada, e
magari avrei dovuto rifilare l’incombenza di assicurarsi
della sua incolumità a
qualcun altro, le due secchione bigotte sarebbero state sicuramente
più felici
di me di prendersi cura dell’anima della derelitta.
Con
questi pensieri a rincuorarmi mi disposi ad
affrontare l’ultima rampa traballante, quella che portava al
terzo piano dello stabile,
più su c’erano altri due piani ed un terrazzo
malmesso incastrato tra due
spioventi di tegole semidistrutte. Mi piaceva salirci ogni tanto,
bisognava
passare il quinto piano e le urla isteriche di una coppia di tizi che
non
faceva altro che litigare e prendersi a calci e pugni, ma se si usciva
incolumi
dalla porta di alluminio si poteva guardare un pezzo di Londra.
Fu
allora che il caso ci fece reincontrare.
Celine
ridacchiò più forte, miagolando qualcosa
di osceno diretto ad un immaginario amante, io mi voltai a scoccarle
un’occhiata divertita e perplessa e stavo per chiederle
spiegazioni – sicuro
che me le avrebbe fornite, posta l’assoluta mancanza di freni
inibitori –
quando qualcuno ci si parò davanti di colpo, in rapida
discesa dai piani superiori,
e si fermò appena in tempo per non travolgerci.
Il
qualcuno era Tristan.
A
differenza sua, immagino, io non feci alcuna
fatica a riconoscerlo.
Tristan
non era cambiato per nulla. Forse aveva
i capelli un po’ più corti, ma era sempre lui, gli
stessi occhi intelligenti e
vivi che riuscivano ad essere blu perfino nel buio, la stessa figura
snella,
l’andatura elegante e svogliata, l’espressione
sprezzante, che lo sguardo
genuinamente sorpreso storpiava in parte, rendendolo meno distante.
La
stessa
bellezza cattiva ed arrogante, ambigua e deliziosamente conturbante.
Ci
guardammo. Io lo fissai perché non potevo
farne a meno, piazzato com’era sulla strada esatta che avrei
dovuto percorrere
con Celine, e lui mi squadrò come aveva già fatto
in passato. Mi studiò
irrispettoso come sempre, la sua espressione mutò lentamente
mentre lo faceva
ed alla fine mi riconobbe...o qualcosa del genere.
-…tu
vieni al Goldsmith.- disse senza che fosse
una domanda.- Sei una matricola?- mi chiese.
Celine
singhiozzò al mio orecchio, era un
lamento, segno che – come previsto – la roba che
aveva in corpo aveva terminato
gli effetti benefici ed era intenzionata a cominciare con quelli meno
piacevoli. Dovevo portarla in casa.
-Lo
sai che sono una matricola.- ribattei più
aspro di quanto volessi suonare, dopodiché mi mossi senza
dire altro e lo
superai di forza, costringendolo a farsi da parte per farci passare.
Mentre
mi voltavo a scoccargli un’occhiata
silenziosa, mi accorsi che anche lui mi guardava, sorridendo come se
tutta la
situazione fosse per lui estremamente divertente. Mi venne voglia di
mandarlo
al diavolo, ma quando aprii la bocca per farlo le parole
s’incastrarono
prepotentemente nei suoi occhi blu, stringendo alla gola, ed io pensai
debolmente “…cosa cazzo hai da
guardare?”. Ma non lo dissi.
Scoprii
che la coppia di tizi del quinto piano
non esisteva più da un paio di giorni. Lo venni a sapere il
mattino dopo,
quando, assonnato e con un mal di testa feroce a tempestarmi le tempie,
scostai
via il corpo di Celine, che mi si era arrotolata addosso nel sonno, e
misi i
piedi a terra tirandomi su. Lanciai uno sguardo alla ragazza distesa,
che
dormiva a bocca aperta, il trucco sfatto e la minigonna troppo corta
che le
copriva appena le mutande. Raccolsi da una sedia una coperta di pile e
gliela
stesi sopra, più che altro per evitare che i miei
coinquilini si affacciassero
per caso alla porta della camera e decidessero di fermarsi
lì a godersi lo
spettacolo delle sue grazie seminude. Poi uscii e lasciai
l’appartamento, senza
chiudere la porta, per salire le ultime quattro rampe che portavano al
corridoio del quinto piano. Dalla sera prima mi era rimasta attaccata
addosso
la voglia di uscire sul terrazzo, nel silenzio spettrale del sabato
mattina mi
affacciai all’ultimo piano e seguii la fila di porte tutte
uguali e tutte
sbarrate.
Posto
che non credo nel destino più di quanto
creda a Dio o al Diavolo, il mio primo pensiero quando vidi uno dei
battenti
spalancarsi due metri davanti a me ed il viso di Tristan emergerne per
puntarmisi addosso, fu che mi stava aspettando. O quanto meno doveva
aver
sentito qualcuno nel corridoio ed aver guardato dall’uscio
chi fosse, decidendo
poi di venire a rompere le palle già di prima mattina.
Ci
riuscì. La sua presenza mi irritò, come se la
sensazione di fastidio ed inadeguatezza della notte precedente fosse
rimasta
attaccata alla mia pelle almeno quanto la voglia di superarlo e
raggiungere la
porta di alluminio che dava all’esterno. Provai a
controllarla, perché non
aveva senso e perché non potevo uscire senza superarlo e non
potevo superarlo
senza fare almeno segno di averlo visto e riconosciuto. Fu inutile, ma
mi
fermai lo stesso e lo fissai ostile.
-Ciao,
matricola.- mi schernì lui quando il
silenzio si fu fatto sufficientemente lungo da poter essere spezzato
con una
battuta maliziosa.
-Ho
un nome.- ribattei apatico, fiero di me
stesso per essere riuscito comunque a mantenere un tono indecifrabile.
-Sì,
ma non me lo hai detto.
Pensai:
“certo
che te l’ho detto, coglione, vattelo a ripescare nel bagaglio
di ricordi
inutili che ti affollano la testa”.
Ma
non risposi questo.
-…Brian.-
borbottai, invece, perdendo quasi
interamente quella magnifica indifferenza irritata che avevo ostentato,
per
ricadere in una molto più banale irritazione imbarazzata.
-Io
sono Tristan.- si presentò lui divertito da
quel cambio di intonazione.
Sospirai.
-Lo
so.- ammisi secco.
-Sul
serio?!- rise lui, affatto stupito.
Immagino che l’essere sicuro della propria
popolarità fosse una cosa naturale,
per lui.
Non
persi tempo a cercare di smontare
l’evidenza.
-Quella
è casa di George ed Isaac.- dissi senza
nessun legame con il discorso, ma con il preciso intento di distogliere
la sua
attenzione da me.
Lui
si voltò indietro, allo stesso battente
ancora aperto che lo aveva lasciato uscire poco prima,
scrollò le spalle con
indifferenza.
-Di
Isaac.- specificò correggendomi.- George se
n’è andato due giorni fa.
Fine
dell’idillio di piatti rotti e urla
isteriche, pensai io.
-E
tu sei quello che l’ha sostituito?-
m’informai con un ghigno, pregustando l’affondo
inevitabile della battuta.
Ma
avevo sottovalutato Tristan, l’essere
additato come una puttana non lo sfiorava minimamente e, del resto,
anche io
avrei scoperto con il tempo che è una condizione decisamente
vantaggiosa per
potersene sentire offesi.
-Più
o meno.- mi rispose senza nessun interesse-
Qualcosa del genere.- spiegò subito dopo.
-Bene.-
ribattei io facendomi risolutamente
avanti- Non vorrei portarti via troppo tempo…- mi affrettai
a congedarmi mentre
gli passavo di fianco. La sua risata leggera mi raggelò, era
così sinceramente
superficiale e priva di sentimento che pensai avrebbe dovuto suonarmi
falsa ed,
invece, non lo faceva affatto. Mi costrinsi a proseguire, nella frase e
nel
cammino diretto e preciso che mi avrebbe portato a posare la mano
sull’acciaio
distorto della porta sgangherata.- anche perché Isaac non
è il tipo che ama
aspettare.
-Io
non sono il tipo da farmi problemi di questo
genere.- mi rispose lui tranquillamente, mentre mi veniva dietro senza
nemmeno
scusarsi.
Respirai
a fondo, si era fatto vicino – troppo
vicino – ed io ricordo che aveva un odore decisamente
intenso, che sapeva di
sesso, come se avesse sempre appena finito di scopare, e di
“maschio”, come la
sua aria apparentemente fragile non avrebbe mai fatto presumere. Uscii
all’aria
aperta ringraziando tutti i Santi in cui non credevo del vento gelido
che mi
sferzò la faccia appena misi la testa fuori dal corridoio,
mi allontanai dalla
porta trattenendomi a stento dal correre lontano da lui, grato di avere
la possibilità
di mettere una qualche distanza tra noi due. Tristan mi
seguì in modo
decisamente più lento, io mi ero già sistemato
sul parapetto ampio che guardava
alla strada di sotto quando lui si sedette per terra, al mio fianco,
fissandomi
da sotto in su in un silenzio che divenne pensante nel giro di
pochissimi
minuti.
Sbuffai,
scossi i capelli indietro perché erano
già diventati lunghi abbastanza da darmi noia con il vento e
poi me li ritrovai
comunque in faccia e, per poterlo guardare decentemente, li afferrai
con le
mani e li tirai via dal volto.
-Tu
non ti ricordi davvero di me?- domandai
giusto per provocarlo, adottando allo scopo un tono irriverente e
saccente che
speravo lo infastidisse almeno un decimo di quanto mi sentivo
infastidito io
dalla sua indifferente pacatezza.
Scosse
il capo e non disse nulla.
Alzai
la voce per farmi sentire da sopra il
rumore del vento e raccontai stringato.
-Ci
siamo visti ad una festa. Tu stavi lì con un
certo Finney, credevi fossi il suo compagno di stanza.
Riuscii
a stupirlo. Ci pensò su un momento e poi
mi guardò.
-Scherzi?!-
ritorse- Tu non somigli affatto a
quel ranocchio del compagno di stanza di Finney!- affermò
con sicurezza.
Risi.
-Probabilmente
il problema è che per te i
ranocchi si assomigliano tutti.- commentai rendendomi conto che la
risposta era
proprio quella.
-…e
questo cosa c’entra?- mi chiese lui senza
riuscire a seguirmi.
Mi
dissi che non avevo voglia di spiegarglielo, che
non mi andava di ricordargli dell’essere patetico e ridicolo
con cui aveva
avuto a che fare quella sera. Mi dissi anche che lo facevo
perché tanto sarebbe
stato inutile, quelli come Tristan non cambiano solo perché
gli sbatti in
faccia realtà scomode. La verità che mi negai
sopra quella terrazza era che io
non volevo che mi ricollegasse al me
stesso di qualche mese prima. Avevo paura che l’interesse
evidente che mi
mostrava adesso sparisse con quel ricordo e poco importava che stessi
pagando
la mia identità con un anonimato privo di dignità.
Raccontai
a Celine quella storia solo due settimane dopo, quando incrociammo
nuovamente
Tristan su per le scale della palazzina, ancora una volta camminava
nella
direzione opposta rispetto alla nostra ma stavolta non era solo. Mi
riconobbe
da lontano e mi sorrise, salutandomi a gran voce con un “ehi,
matricola-Brian!”
che strappò un sorriso anche a me ed un’occhiata
sospettosa ad Isaac, che mi
scoccò uno sguardo seccato da sopra la spalla
dell’altro ma non disse nulla;
proprio come Celine, che squadrò prima Tristan e poi me come
se ci vedesse per
la prima volta. Infilai le chiavi nella toppa della porta di casa,
risposi al
saluto di Tristan ricambiandolo con un irrisorio “ehi,
senior-Tristan!” e poi
mi infilai dentro seguito da Celine, senza degnarlo di uno sguardo di
più.
Appena
la porta si fu chiusa alle nostre spalle, mi ci appoggiai pesantemente
come se
solo restare in piedi mi costasse uno sforzo enorme. Da fuori mi
arrivò il
vociare confuso di Isaac e Tristan, sembrava che il primo stesse
chiedendo
conto e ragione all’altro di qualcosa in particolare ed io
immaginai quale
potesse essere l’argomento di discussione. Celine
coprì le voci ed i passi
fuori della porta con uno strilletto isterico, agitando le buste della
spesa
come se fossero armi e fissandomi ad occhi sgranati.
-Brian!-
esordì ferocemente quando l’urlo ferino si fu
placato.
Io
ridacchiai e finsi di non capire, avanzando nell’appartamento
per sfilarle le
buste di plastica dalle mani e portarmele verso la cucina.
-Quello
è Tristan!- affermò lei.
Eh
sì, ne avevamo parlato. Ne avevamo parlato per giorni e
giorni, e poi per notti
intere, finché non era diventato un argomento noioso in un
mare di cose più
interessanti. Ed ora eccolo riapparire.
-Se
la fa con Isaac.- ritorsi come se fosse una spiegazione sufficiente,
sebbene la
cosa fosse comunque già evidente da sé.
Posai
le buste sul tavolo e mi voltai ad incrociare la sua occhiata affatto
convinta.
-Balle!-
proruppe.- Sa il tuo nome!
-Sì,
gliel’ho dovuto dire due volte, ma adesso sembra averlo
memorizzato.- ironizzai
sorridendo come un imbecille felice.
Celine
perse qualunque capacità di fingersi offesa e
sbuffò una risata sincera a
quell’espressione deficiente. Poi si mise tranquilla e mi
fece il terzo grado.
Convenimmo
entrambi sul fatto che non ci potessero essere molte ragioni per cui
Tristan
potesse ricordare il mio nome. Celine mi studiò con un
sorrisetto soddisfatto,
ponderandomi mentre mi squadrava ed io sbuffavo imitando un fastidio
che non
provavo: il personaggio che lentamente stavo diventando era
un’invenzione di
Celine almeno quanto mia. Rise e mi disse che non c’era molto
da stupirmi se
ora come ora Tristan mi reputava degno di perdere un po’ del
suo prezioso
tempo. Io ribattei che Isaac non sembrava apprezzare e lei mi disse
semplicemente che Isaac, come tutti prima di lui, si sarebbe adeguato.
La
cosa si chiuse lì, salvo per il fatto che – insolitamente
– il caso voleva che io e Tristan ci incontrassimo
continuamente.
In
quel periodo avevo smesso praticamente del tutto di frequentare i corsi
universitari, tra poco si sarebbe chiuso l’anno e si stavano
organizzando gli
spettacoli estivi. Sarei dovuto passare quanto prima dal Goldsmith per
trovarmi
un posto in qualcuno di quegli spettacoli, ma sebbene me lo ripetessi
quasi
tutte le mattine, trovavo sempre di meglio da fare che raggiungere
davvero il
College. Man mano che la mia presenza nella struttura universitaria
diminuiva,
la presenza di Tristan nei corridoi dello stabile dove vivevo
aumentava. Sapevo
che non si era trasferito da Isaac, perché glielo avevo
chiesto esplicitamente e
lui mi aveva negato che fosse così, eppure ogni volta che io
uscivo dalla porta
o quando mi affacciavo al portone per rincasare, lui mi sorprendeva con
un
sorriso ed uno sguardo ammiccante, i suoi occhi mi seguivano passo
passo mentre
facevo le scale ed io diventavo progressivamente più
insofferente.
Così
che alla fine lo aggredii.
-Ma
si può sapere che cazzo vuoi?!
Era
tardi, le due o le tre di notte, avevo sonno ed ero fatto ed ubriaco
come lo
era stata Celine la prima sera che avevo incrociato Tristan.
L’unica differenza
stava nel fatto che a me a casa non mi ci aveva riportato nessuno. Ero
scivolato via dal locale quasi come un ladro, dopo che Celine era
andata via
con qualcuno, io avevo mandato a cagare un tipo decisamente invadente,
tirandogli un pugno quando non aveva voluto rimettere le mani a posto
per
tempo, ed a quel punto avevo dichiarato chiusa la serata, trascinandomi
a casa.
Tristan mi aveva sorpreso mentre imprecavo contro la chiave e la
serratura, che
sembravano continuare a rincorrersi senza mai trovarsi mentre la
chitarra a
tracolla su una spalla mi pesava dannatamente e la testa girava. Ad un
certo
punto avevo sentito qualcosa pungere la nuca, come uno spillo
arroventato, mi
ero voltato di scatto e, per la paura, la chiave mi era volata di mano
e giù
per la scala.
-Porca
puttana Eva, Tristan!- avevo ruggito riconoscendo la figura snella
nella
penombra pesante. Mentre riprendevo fiato a rantoli brevi e schioccanti
lui si
era avvicinato ridendo e quel suono mi aveva dato alla testa- Si
può sapere che
cazzo vuoi?!- chiesi brusco a quel punto.
Tristan
si fermò un gradino più in alto del pianerottolo,
inarcando le sopracciglia
sottili sulla fronte spaziosa, mi squadrò quasi pietoso e
poi scese e raccolse
per me le chiavi, porgendomele.
-Andiamo,
Brian, non sei davvero così stupido.- mi disse piano mentre
io allungavo le
dita di scatto e gli strappavo il portachiavi tintinnante.
Ringhiai
un suono indistinto, voltandogli le spalle rabbiosamente, infuriato
contro di
lui per quell’inutile manfrina di inseguimenti senza senso ed
appostamenti
fuori luogo, e contro di me per la mia assoluta incapacità
di mandarlo “a
fanculo” come avrebbe meritato. Lui non si diede per vinto e,
mentre riprendevo
a litigare con più convinzione con quella dannata serratura,
mi si strinse
addosso e sollevò la mano ad afferrarmi il collo.
L’indomani
mattina, mi dissi che avrei fatto bene a chiedere a Celine di
restituirmi le
chiavi dell’appartamento. E lo pensai quando a svegliarci fu
un grido soffocato
ed inarticolato: quello che le sfuggì nel vederci a letto
assieme.
La
giornalista insofferente ha smesso di essere carina. È
rotonda come prima,
paffuta e graziosa, ma non sorride più. Io invece non riesco
a smettere ed ho
bisogno di nascondere in qualche modo il compiacimento irriverente che
provo in
questo momento. Caccio la mano in tasca, cercando a tentoni le
sigarette, lei
intuisce e, prima che io riesca nel mio intento, sfodera nuovamente il
sorriso
di circostanza e mi porge il proprio pacchetto tra le dita rotondette.
Accetto,
mi sta già più simpatica.
-Magari
preferisce fare una pausa? Per raccogliere le idee?- mi chiede quasi
con
dolcezza.
Ma
siccome è evidente che, in realtà, vorrebbe solo
che rispondessi a quella cazzo di
domanda senza tirarmela ancora,
decido che non le darò la soddisfazione di poter sollevare
il suo culo pienotto
dalla sedia.
Sospiro
una nuvola di fumo enorme, lasciando ricadere le spalle contro lo
schienale
imbottito della poltrona, una volta tanto devo dare merito ad Alex di
aver
scelto un posto davvero piacevole dove adempiere quella tortura
infinita che
sono le interviste. Ma magari non l’ha nemmeno scelto
lei…
-No,-
rispondo intanto, giusto per non essere del tutto ed assolutamente
cafone e
maleducato- fa lo stesso. E poi non è l’unica
intervista della giornata.-
sorrido zuccheroso.
Lei
si offende, la vedo irrigidirsi sulla sedia mentre il sorriso torna ad
essere
gelido e tirato come una copertina di plastica. Sono decisamente
più bravo di
lei a fingere di provare qualcosa: una
“felicità” che non mi appartiene per una
situazione che mi sta stretta, ad esempio. Sono decisamente
più bravo di
chiunque altro.
Ero
meno bravo solo di Tristan. Lui fingeva con una facilità
disarmante ed era
convincente oltre ogni dire.
Non
so, forse fu proprio il nostro incontro a farmi capire, alla fin fine,
che non
sarei davvero diventato un attore: non avevo la scioltezza crudele di
Tristan
nell’imitare la vita, la sua disillusione priva di qualsiasi
delicatezza verso
il prossimo e la sua assoluta indifferenza alla possibilità
che l’inganno in
cui “il prossimo” incappava invariabilmente fosse
l’ultimo pantano, quello da
cui è impossibile uscire. O quantomeno uscire incolumi.
Ovviamente
il mattino dopo, quando chiusi la porta di casa dietro le spalle magri
di
Tristan ed i suoi fianchi sottili che ancheggiavano appena salendo le
scale,
non feci nessuna di queste considerazioni. I miei pensieri di quel
momento erano
molto più terreni ed avevano a che fare con la nausea
incipiente che mi
tramortiva, con il mal di testa pulsante e con il ricordo distorto di
una notte
che aveva avuto un sapore molto strano e non del tutto soddisfacente.
Sbuffai
insofferente e tornai a passo lento e strascicato verso
l’interno
dell’appartamento, grattandomi la testa. Celine mi studiava
con espressione
incomprensibile, ritta sulla soglia della cucina e con le braccia
incrociate al
petto come una madre badessa molto arrabbiata. Le scoccai
un’occhiata in
tralice e decisi di invertire la rotta prima che attraccasse dalle sue
parti,
puntai al bagno e lasciai la porta aperta sentendo il rumore dei suoi
tacchi
seguirmi precipitosamente. Sapevo di non poterla evitare in eterno ed
al
momento avevo almeno la scusante di non essere del tutto in me, per cui
qualunque cosa avessi risposto avrei potuto ritrattarla con comodo
più tardi.
-Non
sono sicura che questa cosa sia un bene, Brian.- esordì
senza nessuna ragione
specifica.
-Ahah.-
annuii io, fissando incredulo la matassa scura e filacciosa a cui si
erano
ridotti i miei capelli.- Sono un disastro…Ma come cavolo si
fa a guardarmi…?!-
constatai a mezza voce, sollevando un dito per infilarlo a caso tra i
nodi e
tirare.- Ahi!- sbottai socchiudendo gli occhi quando mi feci davvero
molto
male.
-Com’è
che è successo?- insistette Celine dietro di me, mentre io
fissavo sconsolato
il pettine posato sul ripiano dello specchio.
-Ero
troppo fatto per buttarlo fuori.- ammisi.- E’ entrato in casa
e poi…già che
eravamo lì, credo abbia pensato che tanto valeva
approfittarne.
-…tu
o lui?- ritorse lei.
Allungai
una mano ed afferrai il pettine.
-Tutti
e due, presumo.- confessai strabuzzando gli occhi mentre mi rendevo
conto che
davvero non avevo pensato nemmeno quello.
Celine
sospirò, lasciò cadere le braccia da madre
badessa e mi scrutò.
-Sai
che Tristan è come il vento, Brian? Oggi
c’è e domani è già nel letto
di un
altro o di un’altra.
-Sì.-
risposi fingendomi disinteressato, quando in realtà bruciavo
alla sola idea che
potesse andare esattamente così.- Anche se, invece che
“vento”, io lo definirei
in modo meno lusinghiero.- affermai sforzando un sogghigno poco
convinto.
Celine
non aggiunse altro; io sfogai il bruciore feroce che sentivo allo
stomaco sui
capelli, sul viso dal trucco disfatto, sulla pelle che prese ad
infiammarsi
quando la strofinai con il sapone per lavare le tracce di matita nera.
Non ero
più un bambino da tempo, non fingevo più di
credere alle favole, di Tristan
sapevo che di poetico aveva solo il nome e mi aspettavo, onestamente,
che
quell’episodio rimanesse unico e solo.
Mi
stavo prendendo in giro una volta di più. È
davvero idiota credere nella bontà
degli esseri umani, io avevo sopravvalutato quella di Tristan e
decisamente
sottovalutato la sua appartenenza alla razza.
Isaac
rimaneva il compagno ufficiale, quello che metteva a disposizione casa,
letto
e, soprattutto, occasioni perché io e Tristan ci
incrociassimo sulle scale
della palazzina. Mi sono sempre chiesto se stesse usando lui tanto
quanto usava
me, ma non sono mai riuscito a darmi risposta, perché la
capacità di Tristan di
recitare la propria parte andava assolutamente aldilà della
mia di capire quale
fosse il ruolo che stava interpretando in quel momento. E poi dovevo
rimanere
concentrato su di me se volevo sperare di salvare qualcosa, per cui non
avevo
il tempo di pensare al rapporto tra Tristan ed Isaac se non per
realizzare che,
nonostante tutto, si protendeva nel tempo.
Il
“nonostante tutto” comprendeva anche le discussioni
interminabili che ogni
tanto mi capitava di cogliere, le sentivo fuori dal pianerottolo
dell’appartamento, nel corridoio del quinto piano ed a volte
ne afferravo
stralci in lontananza dopo che Tristan ed Isaac mi avevano beccato
sulle scale
ed io avevo salutato entrambi. Non ero l’unico a non sapere
come comportarsi in
quelle occasioni, Isaac aveva delle difficoltà enormi a
rapportarsi con me: non
era uno sciocco e sapeva che Tristan ed io non eravamo diventati
semplicemente amiconi da un giorno
all’altro. Quando
mi trovava da solo mi rivolgeva occhiate rancorose e non si degnava
nemmeno di
parlarmi, io facevo finta di non accorgermene e persistevo nel
rivolgergli
insolentemente la parola, quasi volessi vendicarmi su di lui del fatto
che il
rapporto tra me e Tristan non evolvesse ulteriormente. Ma Isaac non
c’entrava,
almeno quanto non c’entravo io nella sua relazione con
Tristan, mi domandavo
solo se lui fossi in grado di capirlo come lo ero io.
Presumo
che una delle cose che rendeva più difficile mandar
giù quella storia senza
futuro, fosse la consapevolezza lucida che la accompagnò
dall’inizio alla fine.
Non sono mai stato annebbiato dai sentimenti che provavo per Tristan,
non ho
mai perso la percezione esatta di quello che era e di quello che
eravamo noi
due, ho sempre saputo che un noi due non
esisteva per nulla. Celine ha voluto credere che non fosse
così, perché questo
le permetteva di ricoprire il ruolo amorevole di crocerossina ed amica,
faceva
da confidente, mi stordiva di chiacchiere inutili che mi davano anche
fastidio,
consigliandomi di fare proprio come Tristan: prendere il buono e
buttare via il
resto. Mi veniva da ribatterle velenosamente che “il
resto” che andava buttato
ero io e che non era un granché sentirsi considerato come
una vecchia ciabatta
anche da lei.
Non
glielo dicevo.
Così
come non dicevo a Tristan di andare a farsi fottere e di uscire dalla
mia vita
una volta per tutte.
Vorrei
poter affermare che la mia sia stata una scelta volontaria, che stavo
scientemente
e studiatamente perseguendo la mia stessa rovina, ma mentirei. La
verità era
che non potevo fare a meno della presenza di Tristan, che mi facevo
bastare gli
incontri “fortuiti” e le fughe dentro casa, in
camera mia, da cui lui usciva
fin troppo in fretta e con un sorriso finto e distante stampato in
faccia. Magari,
a mia discolpa almeno parziale, potrei addurre le capacità
di imbonitore di
Tristan - che erano notevoli – il numero immane di
sciocchezze con cui riusciva
a riempire la stanza, al punto che, per quanto ti ripromettessi di
prenderle
per ciò che erano – parole
gettate in
strada a marcire – finivi comunque per essere
stordito dalla loro quantità,
finché cominciavi stupidamente
a dare retta alla possibilità che possedessero una qualche
“qualità”. Mi
parlava sempre di quanto fosse ossessionato da me, mi diceva che non
riusciva
semplicemente a voltarmi le spalle ed andarsene, che era la prima volta
che gli
succedeva una cosa del genere, che non pensava sarebbe mai accaduta e
tante
altre similari perle, infilate con cura tra un bacio e
l’altro, tra una carezza
ed una richiesta più spinta delle altre. Se faccio la somma
della mia
imbecillità di allora ci riempio per intero la vita e credo
che, anzi, ne
rimanga da scontare.
Non
che gli credessi, no. Stupido sì, ma
c’è un limite all’idiozia: potevo anche
ammettere di comportarmi da idiota,
ma avevo difficoltà ad accettare di pensare
come un idiota. Per cui ogni volta che lui iniziava uno dei suoi
monologhi da
affabulatore, io gli rivolgevo una frase scontrosa a caso ed un insulto
– il primo che mi venisse in mente,
se ci
ripenso eravamo esilaranti! – nella speranza di
farlo smettere
immediatamente. Di solito non ottenevo che una risata divertita ed
un’occhiata
più maliziosa delle altre.
Saremmo
potuti andare avanti così per secoli.
Saremmo
potuti andare avanti così fino
alla fine
dei secoli.
Io
non volevo che finisse, lui si divertiva a trascinarsi in quella storia
e nella
mia vita. Nessuno dei due era veramente interessato a scoprire quale
potesse
essere il prezzo che avrei pagato in cambio. Io perché
già a quel tempo andavo
scoprendo di essere disposto a pagare prezzi altissimi per tutto
ciò che volevo
davvero; lui perché non era interessato a sapere se di me
sarebbe rimasto
abbastanza da continuare ad esistere dopo che lui avesse finito.
Tristan non si
poneva mai il problema del dopo, era troppo concentrato a vivere il proprio presente.
Quindi
saremmo potuti andare avanti fino alla fine dei giorni di questo stesso
mondo.
I
“Placebo” non sarebbero mai esistiti.
Io
non sarei mai esistito.
…scommetto
di conoscere più di un paio di persone che avrebbero
apprezzato molto questa
prospettiva.
E
scommetto che la mia giornalista paffutella rientra nel novero, in
questo
momento. Non dovrebbe rendersi tanto ridicola, non fa che accrescere il
mio
divertimento e prolungare la propria agonia.
Ma
la verità autentica era che così come sarebbe
potuto essere “per sempre” – e sempre è un tempo infinito anche da
mortali, quando hai la prospettiva di passarlo rinchiuso in una prigione
– era
inevitabilmente destinato a schiantarsi subito. La mia biglia di vetro
liscia e
rotonda, perfetta, colorata come l’odio che provavo, era
destinata a rotolarmi
via dalle mani e scivolare a terra.
In
questo momento mi piacerebbe riuscire a mantenere intatto quello stesso
odio.
Riuscire a mantenerlo vivo e colorato come lo era allora.
Mi
sembra strano, invece, ma man mano che i ricordi vanno avanti, sfuma
sul fondo.
Come se quella biglia stesse rotolando troppo lontana.
Dove
non potrei più afferrarla.
…mi
viene quasi da domandarmi quale desiderio potrei mai avere di
riacciuffarla. Dovrei
raccoglierla e metterla via di nuovo, nello stesso cassetto ed in
attesa che
qualcun altro per sbaglio lo apra. Sarebbe molto più
semplice ignorarne la
caduta, fingere che non si stia davvero allontanando per non tornare
mai più
indietro…
Ma
sono certo che non lo farò. Tristan è stato un
tassello della mia vita - uno di
quelli sbagliati - e come tale l’ha costruita, lasciarlo
scivolare via sarebbe
come rinunciare ad un pezzo di me. Io non rinuncio mai a nulla di me
stesso,
negli anni ho imparato quanto poco valgono gli altri e quanto
più importante
sia tenersi stretti a se stessi con tutta la tenacia cui possiamo
ricorrere.
Quindi
mi tengo stretto anche lui, quel tizio bruno che si è
portato via un pezzo in
più di un’adolescenza prolungata ma mefitica, la
stessa adolescenza malata e
senza speranze che avevo vissuto per i primi diciassette anni della mia
vita.
E
ricomincio da dove mi sono interrotto, dicendo che tra le cose che
vorrei poter
affermare c’è anche di essere stato io a rompere
quella relazione senza uscita.
Vorrei poter dire che ad un certo punto diventò
semplicemente troppo e che la
mia dignità – dovunque si sia nascosta per tutto
il tempo che ho vissuto –
abbia mandato chiaro il segnale che avevo raggiunto il limite in basso
e più
giù non potevo e non volevo scendere.
Ma
non è andata così, chiaramente. Se
c’è qualcosa che ho capito degli esseri
umani è che il fondo non esiste affatto, non lo tocchi mai,
è solo il tuo
limite personale che puoi raggiungere: quello che separa la vita dalla
morte.
Io
non ci sono ancora arrivato, c’è un baratro
talmente ampio tra me e ciò che può
uccidermi davvero da giustificare almeno in parte i miei deliri di
onnipotenza.
Quindi,
anche se vorrei poter affermare di aver preso in mano la situazione e
di aver
scelto di porvi fine, la verità è stata che
nessuno ed in nessun momento vi ha
messo “fine”.
Tristan
non era davvero ossessionato da niente e da nessuno ed io non facevo
eccezione
alla regola. Ero solo meno disponibile degli altri, lo insultavo invece
di
adorarlo spudoratamente, lo prendevo in giro quando lui si comportava
in modo
gentile e mi mostrava apertamente apprezzamento e lo facevo anche se
non
eravamo soli, quando ricevere le attenzioni di Tristan “in
pubblico” avrebbe
solo dovuto mandarmi in visibilio e farmi camminare un palmo da terra.
Questo
lo stuzzicava, cambiava gli schemi classici a cui era abituato
– inseguire
invece di farsi correre dietro – e lo divertiva rompendo la
noia mortale di
quegli stessi schemi. Il risultato finale era chiaramente che ci
volesse più
tempo perché io gli venissi a noia e lui decidesse di
dedicare altrove le sue
attenzioni.
Nel
frattempo le mie possibilità di continuare ad evitare il
College e gli
spettacoli di fine anno si erano rapidamente azzerate. Controvoglia mi
trascinai in istituto una mattina in cui non avevo proprio
nient’altro a
distrarmi e stetti quasi un’ora a cercare di decifrare
l’elenco dei provini
ancora aperti fuori dalla segreteria. Tristan mi trovò
lì, a consultare
svogliatamente il foglio ormai ingiallito dal sole, mi riconobbe da
lontano,
salutò la corte festante e puntò dritto nella mia
direzione, allungando un
braccio sopra la mia spalla e posando il petto sulla mia schiena, nel
finto
tentativo di raggiungere lo stesso elenco e puntare il dito su uno
degli
spettacoli in particolare. Un brivido che con il freddo aveva
tutt’altro a che
fare mi attraversò la pelle, i nervi ed i muscoli,
irrigidendomi di scatto
quando il peso di Tristan mi si appoggiò addosso, salvo poi
sciogliermi
altrettanto rapidamente quando il suo viso si abbassò al
livello del mio
orecchio, per sussurrarmi con voce roca.
-Io
faccio Oberon, il Re degli Elfi.
Misi
a fuoco lo spettacolo che aveva indicato e mi accorsi che era
l’ennesima
riedizione del “Sogno di una Notte di Mezza
Estate”. Sbuffai, insolitamente era
rimasto vacante il posto per Puck ed io pensai che avevo davvero poca
voglia di
fingermi un satiro irriverente e malizioso.
-No.-
dissi quindi secco, scostando lo sguardo per continuare a sfilare la
lista. Ma
il fatto che nel rifiutare il suo invito non decidessi anche di
spostarmi da
sotto il suo corpo privò la mia determinazione di molta
della sua forza
d’impatto.- Volevo qualcosa di un po’ meno
stagionato.- ribattei aspramente.-
Sai, età del bronzo invece che paleolitico superiore.
Tristan
non si fece prendere in contropiede, rise e non si spostò
neanche lui, aprendo
il palmo contro il foglio ed il muro per restare appoggiato mollemente
alla mia
schiena.
-Però
sarebbe divertente lavorare assieme.- mi fece notare piano.- Voglio
dire,
avremmo molto più tempo da passare noi due, senza Isaac,
considerato tra
l’altro che Puck ed Oberon hanno un sacco di scene a due che
potremmo provare…
-Non
credo che tu stia davvero pensando di provare le scene della commedia
con me.-
ribattei scuotendo il capo e lasciandomi scappare un sorriso ammiccante
mentre
mi voltavo a guardarlo.
-Vero.-
ammise lui senza difficoltà- Quindi farai il provino?
Avrei
dovuto dirgli di no.
Avrei
dovuto in quel momento esatto recidere il filo invisibile che ci teneva
legati
e dirgli che “no, non lo avrei fatto, perché a me
non interessava”.
Chissà?
se avessi saputo prima come le cose sarebbero andate, magari lo avrei
fatto. Ma
penso di no.
Soffio
piano il fiato ed il fumo. La sigaretta si è consumata, la
pazienza della donna
seduta davanti a me anche. La osservo mentre fingo di studiare il
mucchietto di
cenere che ristagna sopra il filtro, poi mi volto guardandomi attorno e
qualcuno degli assistenti che la nostra etichetta ci paga accorre
rapidamente
con un posacenere pulito. Ci schiaccio il mozzicone, realizzando che
questa è
la prima sigaretta che fumo oggi…
-Avevo
diciassette anni.- inizio piano, lentamente. Lei si scuote come se si
fosse
appena svegliata, spalanca gli occhi e solleva automaticamente il
taccuino
mentre si rimette dritta sulla sedia – Mi ero appena
trasferito a Londra e
m’innamorai di uno studente del terzo anno di recitazione.-
La penna fa un
rumore infernale mentre appunta la mia vita – Penso che lui,
invece, fosse più
innamorato dell’idea di…fottermi
–
decido alla fine ridacchiando; lei alza la testa di scatto e quella
dannata
penna smette di stridere sul foglio ancora vuoto- di quanto non fosse
realmente
innamorato di me.
Era
stato un finale alquanto banale in realtà.
Un
grazioso “Lisandro”, in odore di immatricolazione
proprio come me qualche mese prima,
arrivò a rovinare l’idillio mai nato. Lo vidi
sorridere estasiato ad un Tristan
dallo sguardo rapace. Lo vidi accettare divertito le avances boriose e
disinibite del mio vecchio amante ed osservai tutto da lontano, con lo
sguardo
disilluso e distante di chi sa di aver perso in partenza.
Oh,
imparai davvero tanto da quell’occasione.
Imparai
che l’amore si prova in tutto una o due volte nella vita.
Imparai
che questo è un bene, perché tanto finisce e
quando finisce lascia talmente
tanti disastri che preferiresti non fosse mai accaduto.
Imparai
che comunque si sopravvive e si rimettono assieme i pezzi e che, quando
si è
finito, si è più forti di prima o si è
morti.
Io
non ero morto.
Guardai
Tristan e pensai che era un nome coglione e che avrei dovuto pensarci
da subito
che sarebbe stata una tragedia.
Il
resto l’ho imparato con calma.
A
cominciare dal fatto che gli addii nella vita reale non esistono mai.
Tristan
non venne mai a dirmi che era finita, né io né
lui avevamo bisogno di quel
chiarimento in ogni caso.
E
poi che mentire è immensamente più facile di
quello che pensavo all’inizio. Io
sono diventato un maestro in questo.
E
mentre la penna scrive rapida parole vuote e stupide sulla
bisessualità che è
il futuro del mondo, a me in realtà viene da ridere e penso
che quando questa
intervista finirà uscirò da qui, andrò
a fumarmi una sigaretta decentemente e
chiamerò Helena.
Perché
sono curioso di sapere cosa sta facendo…
“Centrefolds”
MEM
2008
***
Nota
di fine capitolo
della Nai:
Anzitutto
una nota
doverosa: il concetto espresso da Brian quando dice che
l’amore si prova una o
due volte nella vita ed inevitabilmente finisce e che quando succede
è un
disastro è un’idea ispiratami da un concetto
analogo, esposto in una storia di
Lisachan, che potete trovare sul suo archivio personale.
Ciò
detto.
E’
ridicolo. Ho cercato
il titolo di questa storia per settimane ed è stato
così traumaticamente
evidente: mi è bastato dirmi che avevo voglia di risentire i
Placebo – più
correttamente, dirmi che avevo voglia di risentire la voce di Brian
– per
ascoltare distrattamente questa canzone ed avere
un’illuminazione.
Di
fatto, questa storia
ha cominciato a girarmi in testa quando Liz mi ha parlato di
un’intervista in
cui Brian avrebbe parlato della sua prima relazione con un uomo.
Dell’intervista
suddetta, ho scoperto poi, conoscevo una parte – quella in
cui Brian confessa
di aver avuto pochissime relazioni omosessuali – ma mi
mancava il pezzettino
microscopico che sta all’inizio e che ha fatto nascere
Tristan e questo
racconto.
Povera
Liz, l’ho fatta
impazzire per cercarmi quell’intervista. Non volevo buttare
giù un rigo senza
averla letta e non facevo comunque altro che fremere
nell’attesa di scrivere
quella che sarebbe diventata “Centrefolds”.
Per
questi stessi motivi
e per la pazienza infinita di Lizzie, dedico la storia a lei ^_^ un
piccolissimo ringraziamento per tutto l’aiuto che mi da e per
tutti gli
sbattimenti che le do io.
Da
un’altra parte la
dedico a Brian. Perché con questa storia ho riscoperto
quello che “di lui” amo,
quello che mi porta ad averne il rispetto che ho e quello che mi fa
tristemente
pensare che sia la più bella invenzione che la mia mente
abbia mai partorito.
Vorrei
illudermi che sia
così anche il vero Brian, ma non lo so e non lo
saprò mai. E, credetemi,
siccome i sogni da svegli sono decisamente più deludenti, mi
sta bene così in
fondo in fondo.
|