The Quest.
“What
Im gonna live for
What Im gonna die for
Who you gonna fight for
I cant
answer that”
Makoto sa fin troppo bene quanto
poco espressivo sia il suo compagno, tuttavia col passare del tempo ha maturato
l’esperienza necessaria da poter avere la certezza assoluta che, sotto a questo
sguardo inespressivo, Tetsuya muore dalla voglia di dirgli qualcosa.
“Potrebbe parlare e basta, aspetta un cavolo di invito scritto?”
pensa con un sospiro, per poi rispondersi che forse è davvero così. “La principessina vuole accertarsi che io sia ancora capace di indovinare cosa gli passa
per quella mente contorta”.
Dà un morso al proprio panino,
approfittandone per sbirciare l’altro da sopra l’incarto colorato; Kuroko è
così concentrato nel bere il proprio frappè che per un secondo Hanamiya prende
in considerazione l’ipotesi di potersi essere sbagliato.
“Magari non vuole parlarne in un fast food e
preferisce aspettare che torniamo a casa” si dice, per poi arrivare alla
conclusione che ormai Tetsuya gli ha messo addosso un quantitativo non
indifferente di curiosità ed è solo e soltanto colpa sua, quindi se davvero era
sua intenzione aspettare, avrebbe dovuto fare in modo di essere più discreto del
solito.
«Avanti, cosa c’è?» sbuffa
simulando un’aria scocciata, perché non può ammettere di essere curioso, la
curiosità è per le oche pettegole.
Kuroko prima di rispondere si
concede un altro lungo sorso alla propria bibita e Makoto non sa decidere se dev’essere
perché ormai per il compagno quella roba dolciastra
è una vera e propria droga o perché si diverte come un matto a tenerlo sulle
spine.
“Propendo per la seconda. Dannato”.
«Pubblicheranno il mio libro», se
ne esce Tetsuya con una noncuranza tale da lasciare l’altro perplesso per
qualche istante.
«Vedo che la cosa ti entusiasma,
eh?» lo sbeffeggia Makoto, dopo essersi ripreso.
«Credo che ciò che dovresti dire
sia “congratulazioni” o qualcosa del genere».
«Non se lo dici con lo stesso
tono che useresti per annunciare che ti è morto il cane» Tetsuya sta per dire
qualcosa e, dalla sottile increspatura sulla sua fronte, dev’essere qualcosa sul
fatto che non gli piaccia la piega presa dalla conversazione, ma Makoto lo
precede; gli punta contro l’indice, anche se l’aria minacciosa è ampiamente
guastata da una macchiolina di maionese al lato sinistro del viso, «ascoltami
bene» gli dice con un tono che è uno strano miscuglio di esasperazione e
incoraggiamento, «Sono quasi due anni che rompi le palle con questo cazzo di
libro. Adesso che finalmente vogliono pubblicartelo si può sapere dov’è il
problema?»
“Fortuna che non lo amo per
l’empatia” pensa Kuroko, rendendosi conto di non sapere se in modo ironico o
meno.
«Hanno posto come condizione che
il libro abbia un seguito e che sia pronto per essere pubblicato tra un anno»
spiega, paziente.
Makoto non può credere che il
problema sia solo questo, quindi aspetta in silenzio che il compagno finisca di
parlare. Gli occorrono quasi due minuti per arrendersi al fatto che, no,
Tetsuya non ha davvero altro da aggiungere.
«Tu hai seri problemi. Fatti
curare da uno bravo».
«Lo stesso da cui ti sei fatto
curare tu pensi che possa andare bene?» domanda l’altro con un candore tale da
far perdere ad Hanamiya qualsiasi istinto omicida gli sia balenato in mente.
Accenna una risata sarcastica e
poi torna serio, «Davvero, non capisco dove sia il problema, ci hai messo tanto
a scrivere il primo e lo stesso varrà anche per il secondo, no?» cerca di farlo
ragionare mentre lo osserva rimestare con la cannuccia il suo Vanilla Shake.
«Può essere» gli concede, «Ma io
non ho idee e in genere i sequel non sono mai all’altezza del primo libro».
«“In genere” un sacco di cose»
sbotta Makoto e non sa neanche lui se per convinzione o perché non sopporta
quella vacua espressione di rassegnazione in occhi come quelli di Tetsuya, «Tu
non sei una persona ordinaria e quindi farai un lavoro fuori dall’ordinario»
decreta.
«Sei gentile… credo».
«Non farci l’abitudine» motteggia
Hanamiya, convinto di aver finalmente chiuso la questione. La suddetta
convinzione muore tragicamente nel constatare che Kuroko sta ancora mescolando
la propria bibita con aria fin troppo assorta. Si lascia sfuggire un sospiro di
sottile rassegnazione, «Allora, che altro c’è?»
«Mi hanno detto che per essere in
grado di finire il sequel entro l’anno, molto probabilmente dovrò lasciare il
mio lavoro» gli risponde, stringendosi appena nelle spalle.
Il volto di Makoto si contrae in
una lievissima smorfia, ancora non capisce dove sia il problema, sembra quasi
che Tetsuya la stia tirando per le lunghe di proposito, ma sa benissimo che se
vuole sapere dove il compagno vuole andare a parare non gli resta che dargli
corda, «Be’, immagino che i tuoi marmocchi dell’asilo saranno tristissimi per i
primi tre giorni. C’è altro».
Tetsuya esita qualche rapido
istante e Makoto sa che finalmente stanno arrivando al vero punto della
discussione, «Kise-kun lavora per la casa editrice e dovrò passare parecchio
tempo con lui per la revisione del primo e del secondo libro» rivela infine,
forse un po’ troppo velocemente per non nascondere una lieve punta d’ansia.
“L’ex ragazzo, ecco qua il punto. Lo sapevo che avrei dovuto annegarlo
in un fiume quando ne ho avuta l’occasione” pensa, rendendosi conto per
l’ennesima volta di quanto il suo compagno, sotto il visino angelico, sia un
piccolo stronzo manipolatore. Sa bene che l’ordine con cui sono stati esposti i
fatti non è stato affatto casuale ma ben ponderato; dopo aver dato il suo
benestare per quanto riguarda gli altri punti, avrebbe fatto la parte del
cattivo nell’avere da ridire per la pubblicazione del libro solo perché nella
casa editrice ci lavora una certa petulante e bionda oca giuliva.
“Ricordati che si suppone che ora tu sia supportivo” si dice, nonostante
stia impegnando praticamente tutto il suo autocontrollo per non piantare
Tetsuya al tavolo del fast food, per poi andare a
cercare Kise e fargli provare l’ebrezza del paracadutismo. Senza paracadute.
Sopra ad una strada molto trafficata, possibilmente.
«Makoto?»
«Va bene», sbuffa, infine, «Ma
ricorda a quel gigolò mancato che sono un chirurgo piuttosto bravo e potrei trasformarlo
da “Ryouta” a “Ryoumi” schioccando le dita» borbotta,
sfogando la propria frustrazione addentando il panino, cercando di ignorare il
lieve sorrisetto sollevato di Tetsuya.
[…]
Imayoshi Shoichi adora definirsi
il migliore amico di Makoto, anche se quest’ultimo probabilmente preferirebbe
ingoiare un intero cactus al posto di ammettere che forse Shoichi abbia dei più
che validi motivi per definirsi tale.
“Ma questi sono stupidi dettagli” pensa Shoichi, mentre i suoi
sensori da super-amico si attivano, individuando Hanamiya al bancone del pronto
soccorso, intento a compilare cartelle. Subito nella sua testa suona un
campanello d’allarme fatto di carta, inchiostro e malattie dai nomi fantasiosi,
non gli rimane che avvicinarsi per sondare un po’ il terreno.
«Io non ho di meglio da fare,
qual è la tua scusa, Mako-chan?» domanda
candidamente, sfilandogli la cartella da sotto il naso, per poi consultarla con
una considerevole dose di puro menefreghismo.
«Chiamami ancora “Mako-chan” e sul prossimo ricovero ci sarà il tuo nome»
borbotta il più piccolo, riappropriandosi della cartella con uno strattone
degno di una rissa da bar, «Comunque, cosa intendi?»
«Noi grandi chirurghi si sta in
pronto soccorso quando non abbiamo di meglio da fare o quando non abbiamo
voglia di pensare. Qualcosa mi dice che il tuo grazioso e ingombrante
cervellino propende per la seconda opzione».
Makoto si impone di contare
mentalmente fino a dieci, prima di decidere di correre in ortopedia e prendere
qualcosa di utile a spaccare tutte le ossa dell’altro nel modo più doloroso
possibile, «Tu invece sei qui perché non rientri nella categoria “grandi
chirurghi”, immagino» si limita, invece, a cinguettare con il suo tono più
velenosamente dolce.
Shoichi gli concede una risata
condiscendente e alza le mani in segno di resa, «Lo so che sei un fan della
sagra della salsiccia, ma non dovresti criticare ostetricia per i tuoi gusti
personali, Mako-chan».
«Come no, torna al tuo club della
vagina, idiota» sbuffa Makoto, così infastidito dalla sola presenza dell’altro
da glissare sul nomignolo pur di levarselo presto dai piedi. Agita una mano come
se volesse scacciare una mosca particolarmente fastidiosa, ma l’altro non
accenna a muoversi neanche di un centimetro.
«L’unico modo che hai per
liberarti della mia meravigliosa presenza è dirmi cosa ti turba» Motteggia
Imayoshi, con l’aria di chi sa già che otterrà ciò che vuole.
Hanamiya lo fissa per qualche
secondo con astio, poi finalmente si concede un sospiro e le sue spalle tese si
ammorbidiscono. «Pubblicheranno il libro di Tetsuya…»
«Quindi sei uno di quegli uomini
intimiditi dal fatto che il partner possa fare carriera, non l’avrei mai
detto».
La cartella dell’ultimo paziente
ricoverato – una
lieve distorsione – si abbatte con forza
sulla nuca di Imayoshi, prima che lui possa fare qualcosa per proteggersi
dall’impatto, nonostante la reazioni di Makoto fosse stata piuttosto prevedibile.
«Credi di essere abbastanza fuori
da cretinolandia per potermi far finire di parlare,
cretino?»
«Non sarà un po’ ridondante come
frase?»
«Tu vuoi morire oggi?»
Per la seconda volta, Shoichi
alza le mani e gli fa cenno di continuare.
«Dovrà passare molto tempo con
Ryouta l’idiota per la revisione» si limita a dire, stringendosi appena nelle
spalle, come se dopotutto la cosa non gli importasse.
«Hai paura che si allontani da
te» dice Shoichi, annuendo appena. Non si è trattato di una domanda, quindi
Makoto non si prende neanche la briga di rispondere qualcosa, non nega neanche,
perché suo malgrado sa bene che l’altro scoprirebbe subito la bugia.
«Immagino che adesso dovrei dire
qualcosa di rassicurante» esordisce Imayoshi, mettendosi le mani nelle tasche
del camice e assumendo un’espressione seria che l’amico gli ha visto in volto
davvero poche altre volte, «Purtroppo non c’è nulla che io possa dire, se non
che dovresti avere fiducia in lui; siete compagni, la fiducia è fondamentale».
“Lo so” pensa Makoto, “lo so
davvero, ma questa brutta sensazione non se ne va”.
Il telefono squilla e lui
intuisce il testo del messaggio prima ancora di leggerlo.
“From: Tetsuya.
Text: Scusa, ma devo trattenermi in redazione fino a tardi, non aspettarmi,
per favore.”
[…]
Tetsuya fissa il cellulare con un
velo di astio; è troppo onesto con se stesso per non ammettere di odiarsi
almeno un po’ nell’osservare i molteplici messaggi tutti uguali –
tutti inizianti con “Scusa, ma” – che ha inviato a Makoto negli ultimi due
mesi.
Il suo sospiro è tanto lieve da
non essere udibile, alza appena lo sguardo su Kise e intimamente si sente
ancora peggio.
Nella sua mente sta per
formularsi un pensiero simile a: “È solo
lavoro”, ma sa fin troppo bene che non è davvero così, non vuole arrivare a
prendere in giro anche se stesso. Non è solo lavoro perché lui dopotutto vuole
stare lì.
Ha riscoperto quanto gli piaccia
la compagnia di Ryouta, preferisce l’allegro chiacchiericcio al freddo sarcasmo
di Makoto, preferisce l’affetto evidente all’amore mascherato da menefreghismo.
Preferisce la luce, perché da ombra e ombra nasce solo oscurità, preferisce la
compagnia di Kise a quella di Makoto ed ogni volta che arriva a questa
conclusione, sente un pezzo di sé morire.
Per quanto ormai gli vada
stretta, ama la sua oscurità; sa che ha bisogno di luce e di calore, ma
altrettanto bene sa che non abbandonerà la sua ombra di ossidiana, per quanto
questa possa essere sempre più soffocante, per quanto si rifugi il più
possibile nell’ufficio di Kise solo per poter riprendere a respirare.
Non fanno altro che lavorare
tutto il giorno, ma Tetsuya non riesce a non sentirsi in colpa almeno un po’.
La verità dei fatti è che se due mesi prima erano seduti ai poli opposti del
lungo tavolo, giorno dopo giorno Ryouta si è avvicinato un po’ di più a lui.
“Non ho fatto niente” si dice, ma quella che dovrebbe suonare come
una giustificazione, prende subito il sapore amaro di un’accusa, “Non ho fatto nulla. Non ho fatto nulla per
impedirgli di avvicinarsi”.
Sono solo due sedie, ormai una
strettamente accanto all’altra, ma non riesce a capire per quale motivo si
senta quindi così in colpa.
Si sente un traditore anche solo
guardando le mani ben curate di Kise, chiedendosi se sono ancora calde come le
ricorda; si sente meschino nel provare una dolorosa fitta all’addome ogni volta
che esce da quell’ufficio per tornare a casa, perché Makoto dopotutto non se lo
merita, lo ama.
Deve ricorrere davvero a tutta la
sua forza di volontà per allontanare quei pensieri, fa appena in tempo ad
abbassare lo sguardo, prima che siano gli occhi di Kise a posarsi su di lui,
insistenti.
«Kurokocchi, andiamo a prendere
qualcosa da mangiare?» domanda, allegramente.
È una richiesta così innocente
che Tetsuya non riesce a reprimere un sospiro di sollievo, che va subito a
morire nel momento in cui, incontrati gli occhi dell’altro, si rende conto che
qualcosa stona.
Il sorriso e brillante come
sempre, ma è negli occhi che nota quel qualcosa che non dovrebbe esserci, un
particolare luccichio già visto anni prima, qualcosa che gli fa pensare che
Ryouta non voglia affatto andare a prendere da mangiare.
«Hai mangiato mezz’ora fa,
ingrasserai» si limita a tagliare corto, conscio della piccola ossessione
dell’altro per la forma fisica. Torna a concentrarsi sullo schermo del
computer, ma non abbastanza in fretta per non vedere l’angolo sinistro delle
labbra di Kise piegarsi verso l’alto, sfociando in un piccolo ghigno.
Makoto è sempre più convinto che
Shoichi sia un completo idiota, un po’ perché lo ha accusato di essere isterico
– solo perché ha quasi ucciso uno
specializzando che ha tolto un drenaggio senza chiedere a lui – un po’ perché
gli ha consigliato – ordinato – di
andare da Tetsuya se la sua mancanza gli causa questi “scompensi”, come l’idiota
li ha definiti.
Si trova quindi davanti agli
uffici della casa editrice, con in mano confezioni di cibo di asporto e
sottopelle un presentimento non troppo bello, a cui darebbe ascolto se solo
credesse ai presentimenti e cavolate simili.
Sbuffa e cerca l’ufficio di
Ryouta l’idiota all’interno di questa specie di labirinto.
“E non c’è nessuno a cui chiedere, a parte il tipo della reception al
primo piano. Ma in ogni caso, io non mi abbasso a chiedere indicazioni” si
dice, svoltando l’ennesimo corridoio dall’asettico colore bianco. “Sul serio, è più allegro l’ospedale”.
Finalmente trova una porta con il
nome del cretino stampato sopra. Non lo sfiora neanche per un secondo il
pensiero di bussare prima di spalancare la porta.
Grosso errore.
Tetsuya cerca di ignorare il
ghigno che ha intravisto fiorire sul volto di Kise, ma questo, impietoso,
riprende a parlare.
«Se mangiassi te, non ingrasserei».
«Kise-kun, ti presento il
mobbing. Mobbing, questo è Kise-kun» risponde Kuroko, alzando lo sguardo per
affrontarlo e permettendo a un po’ di esasperazione di trasparire dal suo viso.
Ryouta non ne sembra per nulla
scalfito, perché il suo sorriso si amplia, divertito, «Kurokocchi, sei cattivo,
questo non è mobbing» cantilena allegro, avvicinandosi un po’ di più a lui. Se
solo avesse voluto, Tetsuya sarebbe stato in grado di contare una per una le
lunghe ciglia dell’altro. «Non è mobbing se la cosa non ti disturba» aggiunge
Ryouta, poggiando con leggerezza le labbra su quelle dell’altro. Un contatto
tanto leggero e casto da sembrare quasi irreale, eppure basta a sentire il
suono di una porta che viene sbattuta con violenza.
A Kuroko occorre meno di un
secondo per rendersi conto di cosa dev’essere successo ed è subito fuori
dall’ufficio a rincorrere la schiena di Makoto che si allontana sempre di più
da lui.
Non ha la più pallida idea del
come, ma alla fine riesce a raggiungerlo e ad afferrarlo per un braccio,
costringendolo a fermarsi.
«Stai per dirmi che non è come
sembra?» lo aggredisce Makoto, feroce.
Tetsuya riesce a reggere lo
sguardo dell’altro, nonostante intimamente non voglia far altro che abbassare
gli occhi per la prima volta nella sua vita. «Non è affatto come sembra. Lui mi
ha baciato ed io non ho neanche fatto in tempo a rendermi conto di cosa stesse succedendo»
replica, nella vana speranza che Hanamiya si faccia bastare questa spiegazione.
Inaspettatamente Makoto sorride,
tuttavia è un sorriso quasi crudele, nessuna pietà, nessuna scusa abbastanza
valida.
“Non me lo chiedere, non me lo chiedere!”
«Quindi immagino che la cosa ti
abbia enormemente infastidito, vero?»
Ancora una volta, Tetsuya deve
usare tutto il proprio autocontrollo per non abbassare lo sguardo, ce la fa a
malapena e sa benissimo che questa sarà la sua condanna. Non può mentirgli, con
quegli occhi inchiodati nei suoi non ha la minima possibilità di negare la
sensazione piacevole delle labbra di Ryouta, anche con tutto lo sforzo del
mondo non potrebbe dimenticare quanto fossero morbide e calde.
«No. Mi dispiace» sussurra,
quindi, percependo chiaramente l’abbandono prima ancora di vedere Makoto
scuotere impercettibilmente la testa, per poi voltarsi e uscire dalla casa
editrice. Dalla sua vita.
“Live for…
Die for…
Fight for…”
– Bryn
Christopher, The Quest–