So far away
( 1.188
parole, one-shot).
«
Desidero che mai questi giorni possano finire », mi
aveva detto sorridendomi.
Eppure
– ricordo – il suo tono era consapevole.
Gli ultimi
giorni che avremmo dovuto trascorrere a Mieza
passavano veloci; per conseguenza i rumori della guerra si facevano
sempre più
incombenti, vicini.
La bella
estate di ogni fanciullo non dura mai abbastanza
da lasciare un ricordo vivo, nell’esistenza.
Un giorno
dimenticherò quel periodo, me lo lascerò alle
spalle per vivere ciò che mi viene offerto dagli
dèi; ma scordare il suo viso –
all’epoca giovane, e bello, e privo degli sfregi del tempo e
della guerra - mi
è inconcepibile.
Alle volte mi
pare di scorgere, nei suoi occhi, quel
luccichio che li animava tempo addietro. Era semplicità,
l’accontentarsi di
cose ordinarie, mediocri forse, come quando il maestro sorrideva
annuendo per confermare
una risposta, ed io sentivo crescere in lui un senso di appagamento
celato
dalla modestia del suo portamento.
Svanisce
subito, tuttavia, demolito dalla pesantezza delle
palpebre calcate dal torpore, offuscato dall’aria greve di
incensi e vapori.
«
Ho timore ».
Le sue
fattezze – rammento – avevano un che di puro,
incorrotto: mi guardava, e tutto quel che scorgevo nella
profondità delle sue
iridi eterocrome era genuinità. Il suo essere
così naturale e spontaneo
rilassava pertanto anche me. Era al suo fianco che trovavo il mio
effettivo
posto nel creato, sentendomi al contempo completo e, ciò
nonostante, manchevole.
Già al tempo, sin dalla giovinezza, la forza
d’animo che la figura di
Alessandro emanava, sembrava essere troppo. Troppo.
Troppo
persino per coloro che l’amavano e godevano della
sua presenza, troppo persino per me.
La sensazione
che, per quanto fossi riuscito a fare, per
tutto ciò che avrei potuto sacrificare, la mia ombra non era
destinata a
raggiungere la sua stessa immensità –
compensandola, affiancandola – mi
opprimeva e mi rabbuiava. Lui, allora, quasi intuendo le mie emozioni,
mi
posava una mano sul viso e mi scrutava, e sentivo ogni difesa crollare
e
disfarsi, nella stessa maniera in cui abbiamo visto crollare le
fortezze
assalite negli anni delle campagne di conquista.
«
Efestione? ».
«
Sì? ».
«
Tu… non hai timore? ».
Lo avevo
guardato, senza far trapelare emozione alcuna, tentando
di imitare la sua elegante naturalezza. «
Cos’è che ti turba? ».
«
Il vuoto, Efestione, il vuoto », mi aveva spiegato, ma
non riuscii a comprendere. Il contegno della sua figura non lasciava
che nulla
si rivelasse, nulla di quel che disturbava il suo animo. Eppure, io lo
vedevo:
erano le impercettibili rughe che increspavano gli angoli della sua
bella
bocca, il taglio degli occhi aguzzato, la mandibola serrata. Era una
serpe che
gli annodava lo stomaco e gli troncava il respiro, scivolando viscida
nel suo
corpo.
«
Sento… non sento niente. Percepisco il nulla, e provo una
grande impressione di mancanza. Ti sei mai sentito così, tu?
Hai mai provato
una sensazione simile, come uno squarcio, enorme, troppo grande per
essere
riempito, in mezzo al petto? ».
Soltanto
adesso capisco, e vedo, lo vedo chiaramente.
«
Aristotele lo definirebbe un male passeggero, tipico
della nostra fanciullezza ».
«
Non lo è, non per me. Sin da quando ne ho memoria,
è qui
». Posò un dito sullo sterno. « E
cresce, Efestione, ogni anno, ogni minuto,
secondo che passa, lo sento crescere. Temo che un giorno mi
inghiottirà »,
disse e mi guardò, gli occhi offuscati da un sottile velo di
tristezza.
Ricordo che
non seppi come replicare alla sua ultima
affermazione. Indugiai, teso, a bocca schiusa, a rimirare i suoi occhi
che poi
si distaccarono posandosi sulle rive del fiume.
«
Alle volte credo che sia stata la volontà di mia madre
»,
continuò; la sua voce era fievole. « Non so se per
rivalsa nei confronti di mio
padre o… per motivi che mi sono oscuri ».
«
Tua madre ti ama », gli avevo risposto.
«
Troppo. Mi ama troppo, Efestione, ed arrivo spesso a stimare
il suo amore come morboso, ossessivo. Non è
l’amore di una semplice madre ».
Rimase a
lungo in silenzio, i lineamenti rilassati; ma
capivo che, sotto quell’apparente serenità, la sua
mente pensava e valutava
ogni singola ipotesi.
«
Cosa mediti? ».
«
Mi idolatra. Mi ha detto – l’ha sempre fatto
– che non
sono frutto dell’unione sua e di Filippo. Mi considera figlio
di Zeus Ammone. Mi
sussurrava, la notte, preghiere in una lingua che non conosco, e prima
di
spegnere i ceri mi baciava la bocca, sparendo oltre i veli del mio
giaciglio.
Lei, con la sua dedizione, contribuisce ad allargare il mio vuoto
».
«
Vorrei lenire il tuo dolore, Alessandro », gli avevo
confessato in un sussurro, per poi legargli le braccia attorno alle
spalle e
spingerlo contro di me.
Non avevo la
forza necessaria, non avevo la sua
forza. Era già allora lontano;
persino nella vicinanza dell’abbraccio, in quel contatto
così intimo, lo
sentivo distante. Le sue confessioni mi incutevano timore, chiudevo gli
occhi e
udivo dei sibili leggeri ed ostili risuonare nella mente. Che fosse il
dio? Che
Alessandro avesse in sé parte del divino sin dalla nascita?
Il tempo
della conquista d’Egitto è lontano; gli odori di
Babilonia me lo suggeriscono.
Sento ancora
riecheggiare, nelle orecchie, le parole del
sacerdote di Amon mentre dichiarava in un inchino Alessandro
– il re dei
Macedoni, il condottiero di Grecia – figlio di Zeus. Si era
lasciato alle
spalle tutto, dopo la morte di suo padre: la madre, il regno, e forse
anche me;
nel tentativo di eludere ciò che era il volere supremo,
abbandonando ogni
certezza per rincorrere l’ignoto, ignaro,
s’è gettato fra le braccia del fato.
Ed adesso la
sua anima è stata repressa dalla presenza
della divinità. Gli ha ingoiato le interiora e
l’ha tramutato in una creatura ultraterrena,
intrappolata in un misero involucro di pelle umana. E, insoddisfatta,
continua
ad incitarlo ad andare avanti. Quasi lo odo, l’essere dentro
di lui, quasi
percepisco i suoi sussurri. « Va’ avanti, figlio
del dio, va’ ». E lui
l’asseconda, dimentico della realtà, dimentico
delle fatiche umane.
L’ho
visto, solo, aprire le ali e spiccare il volo,
perdendosi nel rovente sole dell’Est. Il desiderio di
seguirlo mi ha
attanagliato il cuore e l’ha appesantito fino a ferirlo.
L’essere dentro
Alessandro – lo sentivo, lo sento,
lo
sento – rideva. « Non ti è
concesso », sibilava. « Ricettacolo…
Zeus… Amun…
vita e morte, bellezza ed angoscia… ». Era un
misto di parole insensate e
gemiti, pianto.
Ho udito
Alessandro piangere.
« Dov’è
finita la nostra aquila? [1]
», aveva detto.
Non poteva
sapere
cosa rappresentasse, quell’aquila. Non poteva capire che era lui.
S’è
smarrito fra luccichii dorati ed accecanti, ori dell’Oriente,
le ali che si confondevano col bagliore che lo attorniava.
E gli
occhi… gli occhi erano ormai ciechi.
I suoi occhi
inviolati non vedevano, sporchi di sangue di
bue, di incenso e polvere. Avanzava nel buio, squarciandolo da parte a
parte in
migliaia di frazioni d’arcobaleno, i cui contorni sapeva poi
far collimare. Ma io
l’ho notato: splendeva, splendeva come un astro, e riusciva a
muoversi senza
esitazioni.
Ma temo che
in quell’infinità, fatta di etere ed essenze
divine, sia morto.
E, ancora,
scordare
il suo viso – la sua beltà, la sua essenza
– mi è inconcepibile.
◊
[1].
Sicuramente ricorderete (per chi ha visto il
film di Stone) questa frase. Alessandro si rivolge a Tolomeo,
però, non ad
Efestione, durante il tentativo di valicare il cosiddetto
“tetto del mondo”.
Concedetemi questa sorta di licenza <3
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