“I
overheard the man
whisper
“I
am a lover
not
a fighter,”
and
to myself
I
thought
I,
am
in fact,
both.
For
is it love
at
all
if
it's not worth
fighting
for?”
(Tyler
Knott Gregson)
All
You Never Say
Capitolo
I: What Kind Of Man
8
novembre 2014
“I
was alone, falling free,
trying
my best not to forget
what
happened to us, what happened to me,
what
happened as I let it slip.”
Harry
si allunga, prende il cellulare dal comodino e spegne la sveglia. Si
lascia cadere di nuovo tra le lenzuola, gli occhi chiusi, le labbra
secche, la mente offuscata. Lentamente, lascia che le sue dita
danzino nello spazio vuoto al suo fianco – sente che le
lenzuola
sono fredde.
È
quasi confuso, prima di ricordare.
Sospira.
Harry
si veste lentamente, il corpo ancora intorpidito dal sonno, quando
sente il suo cellulare vibrare sul letto – eccolo, il primo
messaggio del mattino. Non lo leggerà, questa volta. Non lo
leggerà,
perché oggi si sente forte.
Prende
un paio di pillole dal comodino. Le manda giù senza acqua.
Il
cellulare vibra di nuovo, ma Harry lo ignora, mentre va a fare
colazione.
“Buongiorno,
Haz.”
Harry
si siede di fronte al suo migliore amico, inizia a versare i cereali
nella sua tazza.
“Buongiorno,
Ni.”
Niall
sorride intorno al cucchiaio, fissandolo con quei suoi occhi gentili.
“Hai dormito bene, stanotte?”
“Sì,
grazie. Anche se avrei preferito rimanere a letto un altro
po'.”
Harry
mangia un cucchiaio di cereali, e storce le labbra.
Il
fatto è che ha sempre detestato i cereali. Quando era
piccolo, sua
madre si svegliava sempre prima di lui e di sua sorella Gemma per
preparare la colazione – a volte erano uova strapazzate,
altre
volte pancakes, altre ancora colazioni inglesi complete –
finché
questo compito non era toccato a Harry. E non gli era mai pesato,
davvero, lasciar riposare sua madre un po' e preparare la colazione
per le persone a cui teneva di più – amava
svegliarsi prima di
tutti gli altri, camminare nella casa silenziosa e svegliarsi con
l'odore del cibo mentre friggeva nella padella. Era uno dei suoi
momenti preferiti della giornata – un'abitudine che ha
mantenuto
fino ad ora. Fino a un anno prima, a dire la verità.
Per
qualche motivo, ora questo gesto gli costa troppa fatica –
così
mangia i suoi cereali in silenzio, senza farsi troppe domande.
“Oggi
è il grande giorno, eh?”
Harry
sorride. Si era quasi dimenticato – oggi il dottor Winston,
il suo
psicoanalista, presenterà un libro nella sua libreria.
È il primo
evento che organizza da solo, e si sente orgoglioso di sé
stesso.
Fino a pochi mesi fa non pensava che avrebbe mai più messo
un piede
fuori casa, e ora è lì, è vivo, e sta
realizzando delle cose -
delle belle cose - completamente da solo.
“Già.
Grazie per avermi fatto tornare l'ansia, comunque.” dice,
sorridendo per far capire a Niall che sta solo scherzando.
“Ansia
per l'evento o per il fatto che stai per diventare famoso?”
Harry
sospira. “Ni, è solo un trattato di psicologia. E
poi quante volte
ti ho detto che parla dei suoi pazienti in forma anonima? Non
comparirà il mio nome.”
“Comunque
c'è anche il tuo caso, lì dentro. Io sarei un po'
in ansia sapendo
che tutti possono leggere le mie turbe psicologiche in un
libro.”
Niall infila una mano tra i suoi capelli ossigenati e li spettina un
po', prima di borbottare un: senza offesa.
Harry
si mette a ridere, coprendosi la bocca con una mano. “Grazie,
mi
stai aiutando molto con il controllo dell'ansia.” dice,
alzandosi,
mettendo la sua tazza dentro al lavello.
Niall
spalanca gli occhi, rendendosi conto di quello che ha appena detto.
“Oh, cazzo – scusami, Harry, non volevo peggiorare
la situazione.
Sono proprio un amico di merda.”
Harry
ride di nuovo, scrolla le spalle, mentre si appoggia con un fianco
alla tavola. “Non ti preoccupare, Ni, stavo solo
scherzando.”
All'inizio
il fatto che la sua storia, i suoi pensieri e le sue emozioni
sarebbero stati pubblicati in un libro non l'aveva entusiasmato molto
– non è fiero di come si sentisse, di quello che
si è lasciato
fare, e solo poche persone, nella sua vita, sanno cosa sia successo
in realtà, figuriamoci cosa abbia provato nel frattempo. Poi
aveva
saputo dell'anonimato, e il dottor Winston – o Ben, come si
fa
chiamare dai suoi pazienti – gli aveva spiegato che la sua
storia
avrebbe potuto aiutare altri psicoterapeuti ad affrontare persone con
i suoi stessi problemi – a quel punto non era stato difficile
scegliere.
“No,
mi dispiace davvero. Ogni tanto dovrei collegare il cervello alla
bocca e -”
Il
cellulare di Harry vibra sul tavolo per la terza volta, quella
mattina.
“Harry,
è -”
“Sì.”
Harry non lo lascia neanche finire, il senso di colpa che stringe il
suo stomaco in una morsa terribile.
“Lo
sai che dovresti -”
Harry
lo interrompe di nuovo. “Sì, lo so. Non dire
niente, per favore.
Ci sto provando.”
Niall
lo guarda negli occhi e annuisce, senza dire nient'altro.
Harry
prende il cellulare e cancella i messaggi prima di leggerli.
Harry
si lega i capelli, mentre osserva il suo respiro condensarsi
nell'aria davanti a lui. Poi inizia a correre, sperando di
riscaldarsi un po' – è ormai novembre, e la felpa
non riesce a
fermare l'aria gelida che corre giù per la sua schiena e lo
fa
rabbrividire.
Harry
odia correre, per davvero. Ha iniziato sperando che potesse essere
utile per scaricare un po' di tensione – per aiutarlo a
dormire,
alla sera, e renderlo un po' più rilassato durante la
giornata –
ma, ovviamente, non è servito a nulla. Ha anche provato a
smettere,
ma si è accorto come quasi gli mancasse sentire quel dolore
alle
gambe, il fiato corto, il sangue che pulsa in ogni angolo del corpo
–
quindi, alla fine, ha ricominciato. E sono le mattine come queste in
cui non si pente della sua decisione – il Sole è
ancora basso e si
rispecchia sulle strade coperte dal ghiaccio, il rumore delle sue
scarpe da ginnastica che colpiscono il cemento spezzano il silenzio
soffice che avvolge tutto – è come vivere in un
altro mondo, in
un'altra vita, almeno per un po'. Un momento in cui può
dimenticare
tutto – un momento in cui si può distaccare da
sé stesso e
prendere il volo, guardare tutto dall'alto e godersi la vista, per
una volta – un momento in cui la sua mente non è
più sua e la sua
storia non è più sua e la sua vita, anche per un
secondo, non fa
più male.
Forse
Harry, dopotutto, non odia correre.
Harry
rimane sotto la doccia più del necessario.
Sa
che dovrebbe sbrigarsi, che probabilmente sarà in ritardo
per
l'apertura della libreria – ma ha bisogno di stare fermo un
minuto
in più – ha bisogno di raccogliere i suoi
pensieri, ha bisogno di
guadagnare un po' di autocontrollo, perché oggi non si
prospetta una
bella giornata; le vibrazioni del suo cellulare sono troppo
frequenti, sta diventando già difficile ignorarle e sono
solo le
otto e mezza di mattina – Harry non vuole cedere, non oggi,
non
più.
Il
suo sguardo cade sul suo polso, dove le lettere EP stanno iniziando a
sbiadire – non sono più nere e grosse com'erano
fino all'anno
prima, ma sono ancora lì, a ricordargli qualcosa –
qualcuno
– che vorrebbe solo dimenticare.
Harry
pensa che, se potesse, si strapperebbe quel pezzo di pelle a morsi
–
se questo servisse a cancellare il passato, a distruggere quel legame
che lo costringe a vivere così, lo farebbe in un attimo. Ma
la firma
dell'Anima Gemella non funziona in questo modo.
È
curioso, è davvero curioso, perché Harry si
ricorda quanto fosse
felice, il giorno del suo quattordicesimo compleanno, quando si era
svegliato e aveva trovato quelle lettere sul polso. Si ricorda di
quanto ci avesse fantasticato sopra – si ricorda quanti libri
avesse letto sull'argomento, a soli dieci anni. Si ricorda di quando
aveva ascoltato per la prima volta il mito degli ermafroditi
– di
come, all'origine, l'uomo non avesse genere sessuale, come ogni
essere umano avesse quattro gambe, quattro braccia e due teste
–
come gli dei avessero deciso di punire l'umanità dividendo
ogni
persona in due parti con un fulmine, condannandoli a vagare per
l'eternità alla ricerca della loro parte mancante. Ricorda
di essere
stato grato e felice di avere la possibilità di ritrovare
l'altra
metà della sua anima grazie alle iniziali che sarebbero
comparse
sulla sua pelle solo nella notte del suo quattordicesimo compleanno
–
ricorda di aver trovato l'idea che la sua anima fosse legata per
l'eternità a un'altra estremamente romantica –
ricorda che non
stava nella pelle al pensiero di potersi ricongiungere con il suo
pezzo mancante. Ricorda di essere corso giù dalle scale, le
lacrime
agli occhi e un sorriso enorme sul viso, ricorda di aver ripetuto le
sue iniziali come un mantra, quasi per tutto il giorno – EP
–, ricorda di essere stato così sollevato
dal fatto di non
essere un Senza Legame, un'anima in pena che non avrebbe mai trovato
la sua completezza – ricorda le lacrime agli occhi di sua
madre e
le sue raccomandazioni, ricorda gli sguardi di tutti sul suo polso
scoperto – Harry voleva trovare la sua Anima Gemella,
disperatamente e subito.
Ricorda
la prima volta che aveva sentito quelle iniziali bruciare sulla
pelle, a sedici anni – ricorda perfettamente come il suo
sguardo
avesse iniziato a vagare tra i visi dei ragazzi radunati davanti alla
scuola, sperando di trovare un segno, un segno che dicesse: eccoti,
finalmente ci siamo trovati. Era talmente perso a cercare un
viso, che non si accorse neanche che stava camminando senza guardare
dove stesse andando; era talmente perso che neanche si rese conto,
quasi, di aver sbattuto contro qualcuno. Contro un ragazzo,
precisamente. Elijah Penlock, era il suo nome.
Harry
esce dalla doccia in fretta.
Oggi
non è il giorno giusto per ricordare.
Harry
è appoggiato con la schiena contro uno scaffale, lo sguardo
puntato
su Ben – sta parlando di un disturbo di cui non ricorda
neanche il
nome. Non è importante, comunque, visto che sta capendo due
parole
su cinque del suo discorso.
La
presentazione sta andando meglio del previsto – le sedie che
Harry
ha disposto davanti al tavolo di Ben sono quasi tutte piene, non ci
sono stati imprevisti, per ora, e il suo psicologo ha davvero la
capacità di incantare tutti, grazie alla sua presenza
– solo lui
potrebbe rendere interessante un trattato di psicologia, davvero.
È
in quel momento, mentre inizia a sentirsi meglio per la riuscita del
suo lavoro, che la sente.
Una
spinta, un'attrazione che nasce da un punto talmente profondo dentro
di sé che non riesce a capire dove sia, precisamente
– un secondo
in cui sente che tutto torna al suo posto, in cui il passato viene
cancellato e tutto quello che importa è quel secondo, quel
momento,
e i secondi e i momenti che seguiranno, perché niente,
niente ha
avuto importanza prima di questo istante. Niente può essere
paragonato a quella frazione di secondo, quando ogni cellula della
sua pelle brucia di un fuoco rassicurante e gentile, quando ogni cosa
al mondo sembra smussarsi, diventare più dolce,
più colorata –
più viva.
Poi
sparisce, all'improvviso.
Harry
è senza fiato.
Gli
sembra di essere in una bolla di silenzio bianco e vuoto.
Non
sa cosa sia successo, non sa perché tutto quello sia sparito
in meno
di due secondi – non sa nemmeno perché si senta
così, non ha idea
di cosa significhi, ma – forse quelli sono stati i due
secondi in
cui si è sentito più vivo nella sua vita. Si
sente sconvolto,
scombussolato – non aveva mai sentito niente del genere.
Neanche
quando aveva incontrato Elijah per la prima volta – neanche
quando
l'aveva lasciato. Ha sentito talmente tante emozioni, tutte insieme,
talmente forti e brillanti da riempire ogni centimetro del suo corpo
– talmente intense da far impallidire ogni cosa che ha
provato
finora – talmente splendenti che anche ora sente una scia
elettrica
increspare la sua pelle, dalla nuca ai polsi ai fianchi alle
ginocchia alle dita dei piedi, la polvere di un'emozione esplosa
dentro agli atomi del suo corpo – è sicuro che se
guardasse il suo
corpo sotto i vestiti troverebbe pennellate di luce che lo illuminano
come un cielo pieno di stelle.
Harry
ha quasi paura di sentirlo di nuovo.
“Tu
ci stai capendo qualcosa?”
Harry
sobbalza leggermente, riaffiorando dai suoi pensieri bruscamente, e
si volta verso la voce.
C'è
un ragazzo di fianco a lui. Chissà da quanto tempo
è lì.
“No.
Ho smesso di ascoltare più o meno venti minuti fa.”
Il
ragazzo ride, e Harry vede un guizzo di azzurro, nei suoi occhi,
prima che rivolga lo sguardo di nuovo verso Ben – bene,
mi sento
meno stupido, ora, sussurra. Harry si ritrova a fissarlo, e
non
sa neanche il perché – non ha posato il suo
sguardo su nessun
altro dopo Elijah, non potrebbe mai farlo, ma questo ragazzo ha
qualcosa di diverso – il suo viso è aguzzo e pieno
di spigoli, ma
il suo sorriso è quanto di più dolce Harry abbia
mai visto nella
sua vita – il modo in cui la pelle intorno ai suoi occhi si
increspa, la curva sulle sue labbra, l'azzurro dei suoi occhi che
assomiglia più al cielo limpido che al ghiaccio –
Harry non sa
perché, ma trova queste contraddizioni estremamente belle,
su di
lui. Questo ragazzo non è attraente, no. È
semplicemente bello, di
una bellezza intrinseca e non immediata, di una bellezza rara
–
guardarlo sorridere verso di lui gli toglie il fiato.
Harry
non si sente così da molto tempo. Forse è per
questo che non riesce
a dire niente.
“Io
sono Louis.” dice il ragazzo, porgendogli una mano. Harry
l'afferra, la stringe nella sua e si rende conto di quanto sia
più
piccola, ma piena di calli – vorrebbe già fargli
mille domande e
chiedergli come se li è procurati, ma si trattiene,
perché non è
questo che fanno le persone normali.
Sta
per dirgli il suo nome, ma il ragazzo – Louis –
continua a
parlare. “Sono il caso numero otto. Disturbo da stress
post-traumatico. E tu?”
Harry
si sente sprofondare. Come fa a essere così aperto su una
cosa del
genere? Come può dirgli che -
“Oh,
no, io non sono un paziente.” Harry lascia la sua mano,
mentre
sente il viso andare in fiamme per la bugia. “Sono solo
l'organizzatore dell'evento. Lavoro qui.”
“Oh.”
Louis rimane in silenzio per un momento, gli occhi spalancati
–
sono di un blu elettrico di cui Harry non riesce a definire la
sfumatura, che strano -, prima di portarsi una mano sul viso.
“Dio,
scusami. Non so perché ho pensato che tu –
scusami.”
Harry
lo guarda mentre si tira indietro i capelli e li spettina –
sono
lisci e sottili e lucenti e Harry si ritrova a immaginare la loro
consistenza tra le sue dita -, e afferra il braccio appoggiato di
fianco a lui sullo scaffale.
“Non
ti preoccupare, davvero. Io sono Harry, comunque.”
Louis
sorride, come per scusarsi. “Giuro che di solito non vado in
giro a
dire alla gente che sono un malato di mente. E di solito non presumo
che lo siano anche gli altri. Scusami.”
Harry
ride un poco, e si rende conto che questa è una delle rare
risate
sincere che rimbombano nel suo cuore. “Ti ho detto di non
preoccuparti. E non sei malato di mente – è solo
un trauma
psicologico.”
“Una
volta ho sentito il rumore di un aereo e mi sono buttato a terra in
mezzo a Picadilly Circus. Se questa tu non la chiami malattia
mentale...” dice Louis, e ride. Non fa ridere, non fa ridere
per
davvero, ma lui sta lì e lo dice con una leggerezza
disarmante, e
Harry non può fare a meno di invidiarlo un po'.
“Una
volta mi è quasi venuto un attacco di panico
perché la guardia di
un supermercato mi ha guardato male. Non vuol dire niente.”
dice
Harry, cercando di sorridere. Louis si mette a ridere ancora di
più,
e ha una risata così bella, una risata di quelle che
prendono tutto
il corpo, una di quelle che sembra che nascano dall'anima e non dalla
gola. Una risata che fa tremare il mondo.
“A
me è capitato addormentarmi in treno, una volta, e quando ho
aperto
gli occhi stavo per strangolare il mio vicino. Lo so, lo so, non fa
ridere – ma dovevi vedere la sua faccia, Harry – la
sua faccia!
Era un energumeno alto il doppio di me e largo il triplo –
avrebbe
potuto buttarmi a terra in un batter d'occhio – invece stava
lì
come se lo avesse assalito una specie di Hulk, capisci?”,
continua
a ridere, mentre si indica: “Insomma, mi hai visto? Non
arrivo
neanche allo scaffale più alto della mia cucina!”
Allora
Harry ride. Non sa perché – Louis ha ragione, non
dovrebbe far
ridere – ma il suo petto continua a tremare e inizia a fare
quei
suoni imbarazzanti – Elijah gli ha sempre detto di ridere in
silenzio, perché pensava quegli ha!
scalmanati fossero
patetici – e dagli occhi di Louis scappa una lacrima da
quanto sta
ridendo e la gente sta iniziando a girarsi e guardarli male
perché
stanno ridendo rumorosamente e Harry non sa da quanto questo non
succedesse, da quanto non ridesse così di pancia senza un
motivo,
una spiegazione logica. È stupido, ma bello.
Quando
riescono a fermarsi, Louis lo guarda con un sorriso dipinto sulle
labbra, le guance rosse e gli occhi lucidi – l'azzurro che
galleggia tra quelle lacrime è caldo e rassicurante
– come può
essere l'azzurro un colore caldo? Harry non lo sa, ma è
torpore
quello che sente fino alla punta delle dita, calore e
serenità, per
una volta.
“Non
so perché io ti abbia detto queste cose dopo aver scambiato
solo due
frasi. E non so perché io abbia riso. Ma è stato
liberatorio.”
dice, senza mai staccare lo guardo dal suo viso.
“E
io non so perché abbia riso con te. Non era
divertente.” Harry si
asciuga le lacrime, cercando di togliersi quel sorriso dalle labbra.
“Non posso neanche immaginare che cosa tu abbia passato per
tentare
di strangolare la gente sui treni.”
“Sono
– ero – un soldato.”
Louis si passa una mano tra i
capelli, di nuovo, spettinandoli ancora di più.
“Sono stato
congedato con onore un anno fa.”
“Oh.”
dice Harry, e vorrebbe tornare serio, davvero, ma Louis lo sta
guardando leggerezza negli occhi e non riesce a fermarsi.
“Immagino
sia stata un'esperienza particolarmente divertente, da quello che
racconti.”
Louis
è piacevolmente stupito, si lascia scappare una risata
incredula, ma
i suoi occhi sono gentili, mentre dice: “Molto divertente.
Non puoi
capire che risate mi sia fatto in Afghanistan, guarda.”
Harry
appoggia una mano sul suo giubbotto di jeans, mentre lo guarda negli
occhi. “Mi dispiace.” Poi, prima che l'argomento
diventi troppo
pesante, cerca di cambiare discorso. “Non è un po'
freddo per
portare solo una giacca di jeans? Hai anche istinti suicidi,
soldato?”
Louis
alza le spalle e sorride. “Istinti suicidi – non
esageriamo.
Magari sono solo un impavido soldato senza paura.”
“O
magari sei solo un po' stupido. La tua Anima Gemella dovrà
prendersi
cura di te.”
Il
sorriso nei suoi occhi si spegne. Harry sta per dire che stava solo
scherzando, ma Louis lo precede. “Sono un Senza
Legame.”
Harry
spalanca gli occhi – come è possibile che questo
ragazzo non sia
destinato ad amare ed essere amato per l'eternità? Come
è possibile
che chiunque, al mondo, si meriti di restare solo per sempre?
Questa
storia delle Anime Gemelle gli piace sempre meno.
“Mi
dispiace, Louis.”
Louis
alza le spalle, di nuovo, uno sguardo un po' triste negli occhi.
“Non
ti preoccupare. Significa che non dovrò perseguitare una
povera
anima per l'eternità, giusto?”
Harry
sta per rispondere, ma Louis lo ferma. “Credo che Ben abbia
finito.”
Harry
distoglie lo sguardo da quel ragazzo e vede che il pubblico si
è
disperso - Ben sta stringendo alcune mani, e Harry non se n'era
neanche accorto – che diavolo gli succede?
Quando
si volta per dire qualcosa a Louis, questo è già
alla porta – gli
regala un sorriso e un piccolo saluto, prima di sparire in mezzo alla
folla fuori dal negozio.
Harry
non sa cosa pensare.
Solo
più tardi controlla il cellulare – cinque nuovi
messaggi.
Si
rende conto che non ha pensato a Elijah per almeno una mattinata.
Sono
passi avanti.
9
novembre 2014
Ore
1:56
Mi
sono appena svegliato.
L'ho
sognato. Anche stanotte, l'ho sognato.
Il
suo volto non era proprio il suo, ma era offuscato, fuori fuoco, ma
chi altro poteva essere, se non lui?
L'ho
sognato, e c'ero anche io nel sogno. Eravamo stesi sotto il cielo
illuminato dalla Luna, le sue dita tra i miei capelli, e mi sentivo
come se ci fossimo solo noi al mondo – ma poi ho visto la
Luna
ridere e le stelle sorridere di rimando, i lupi ululare una canzone
d'amore solo per noi.
L'ho
sognato, ed ero tra le sue braccia, e nulla poteva farmi del male;
ero al sicuro e potevo sentire il suo battito cardiaco sotto le dita.
E
lui mi diceva ti
amo,
e io ho scelto quel momento per svegliarmi.
Ma
era solo un sogno, ecco cos'era. Un sogno.
Perché
ora so che stare con qualcuno non significa appartenergli, non
significa perdere sè stessi per lasciare lo spazio
necessario per
l'ego dell'altro. Ora so che non bisogna affidare la propria
felicità
solo nelle mani dell'altra persona, perché le persone sono
inaffidabili, e basta uno schiocco di dita per trasformare
felicità
in dolore. In sofferenza.
Ora
so che l'amavo troppo, e amare troppo vuol dire amare male. Vuol dire
non amarsi abbastanza per restare in piedi con i propri piedi.
Ora
so che la dipendenza può essere così forte da
spezzarti. Da
renderti cieco e sordo. La dipendenza è subdola –
si insinua nei
tuoi pensieri e senza neanche rendertene conto, ti convince di stare
meglio con qualcuno al tuo fianco, che senza quella persona ti
verrà
portata via anche una parte di te – che non sei mai stato
completo,
senza di lei.
La
verità è che sono qui, sono sempre stato qui, e
sono intero. Sono
piegato, ma non spezzato. Sopravviverò.
Ma
so anche che posso scrivere la storia più triste del mondo,
stasera.
Io
lo amavo, e a volte
mi
amava anche lui.
Ciao
a tutti!
Eccomi
con una nuova storia.
Scusatemi
per la prolungata assenza - è un periodo un po' difficile,
in generale, e non trovo mai la motivazione per continuare a scrivere.
Questa storia mi è uscita così - ho pensato di
aver bisogno di parlare anche di questa questione, vediamo cosa ne esce.
Come
sempre, è molto personale e sentita - spero che vi piaccia,
davvero.
Il
titolo del capitolo è preso da What Kind Of Man di Florence
+ The Machine.
Grazie
in anticipo a chi leggerà.
Un
bacio,
Giulia
|