La strada è come le sue scarpe
la ricordano.
Terra battuta, pietrisco
sottile; qualche pietre sporadica che il vento si è portato dietro da chissà
dove. Vento che s'infila tra le foglie dei pini e degli ulivi, che passa la mano
sul manto d'erba che si srotola a perdita d'occhio, chiazzato dove capita di
terra smossa di recente. Nell'aria c'è il profumo delle cose perdute e
ritrovate. Il cielo non è mai stato così azzurro.
Mette insieme i passi, uno alla
volta; un singolo albero di mandorlo fa sfoggio dei suoi primi fiori di stagione
- belli, grandi, bianchi, vagamente profumati. Eugenio resta sospeso in quel
singolo attimo di spazio-tempo per fissarlo, poi passa le dita sui petali di un
fiore, l'indice e il pollice che esitano, incerti se reciderlo o meno; per ogni
frutto perduto ne nasceranno altri venti, pensa. Ma quel singolo frutto, con
tutte le sue caratteristiche individuale, andrà irrimediabilmente perduto - e
mai più ritrovato.
Allontana la mano e prosegue.
Uno stormo di corvi dal petto nero carbone passano a volo radente su di lui,
puntando le prede che la terra smossa ha portato in superficie. Quando passano,
i suoi occhi intercettano dei bagliori bluastri, riflessi strappati dal sole che
picchia sulle loro ali. Per un attimo pensa ad Icaro, alle sue ali bruciate,
allo schianto - non è la caduta che ti uccide, non è mai la caduta; è
l'atterraggio - ma questi animali resteranno in quota, creati e nati per farlo.
Non ci saranno fiamme e fumo.
Le gambe lo fanno svoltare in
un sentiero sterrato, che serpeggia oscillando come un ubriaco, a destra e
sinistra, sopra e sotto, reggendosi alle due file d'alberi che lo sostengono e
lo aiutano ad interrompersi all'ombra di un enorme muraglia. Eugenio si sente
piccolo, piccolissimo, infreddolito dall'ombra che gli precipita addosso.
Rabbrividisce, ma non è solo per quello. È passato molto tempo da quando è stato
in questo posto e i cambiamenti sono lampanti. L'ultima volta, il muro di cinta
era instabile, traballante, approssimativo; gli arrivava appena alle spalle.
Fragile, ma non abbastanza da crollare. Chiaramente, nel corso degli anni altre
pietre sono state aggiunte, strati su strati, e si intuisce una cura sempre
maggiore, una perizia sempre più raffinata. Le pietre sono incastrate ad arte,
tenute insieme da rigagnoli di cemento impolverato che corre negli interstizi, e
si innalzano per parecchie decine di metri, al punto che i suoi occhi fanno
fatica a scorgerne la sommità; gli strati inferiori sono stati sistemati e
rinforzati.
È stato fatto un gran lavoro,
ed Eugenio non può che sentirsi sconcertato e ammirato in egual parte. Qualunque
cosa si aspettasse, tornando, non era certo quella.
Perfino la porta è diversa,
sostituita nel corso degli anni, rimpiazzata da una robusta, severa, ma
elegante. La spinge senza cautela e quella, nessuna esitazione, nessun cigolio,
ruota delicatamente sui cardini. Quello che cela gli spezza il respiro, gli fa
comprendere l'enormità di quello che ha fatto.
Si aspettava di trovare una
casupola modesta, non questo casale vecchio, ma non male in arnese, con le
piante sui davanzali e le tende alle finestre. Un cane gli corre incontro,
abbaia, scodinzola, gli lecca le mani. Non ha memoria di questo animale, ma
comunque si china su un tallone per grattarlo dietro alle orecchie.
"E tu? Chi sei, tu?"
Ma a rispondere non è il cane.
"Si chiama Atticus."
Quella voce. Quel suo modo un
po' strascicato di pronunciare la esse. Eugenio si rimette in piedi e guarda in
alto. Affacciato ad una finestra spalancata, c'è lui. E mentre tutto è cambiato,
lui è rimasto lo stesso: capelli biondi spettinati, occhi ambrati, spalle
strette, sorriso gentile e buono. Il ritratto di tutto ciò che si è lasciato
indietro. Eugenio fa per dirgli qualcosa, ma quello alza un dito, a mo' di
richiesta, e sparisce. Il suono di passi che si precipitano lungo le scale ne
anticipa la figura snella e scattante che avanza contro di lui, fermandosi però
ad un'opportuna distanza di sicurezza. Ci sono cose che ancora restano
incastrate tra loro, cose spigolose, i cui angoli graffiano ad ogni movimento.
"Ciao," si salutano nello
stesso momento e lui ride mentre Eugenio ride. Ridono più forte e le loro
braccia si stanno già cercando, trovando, chiudendo su una schiena che hanno
mandato a memoria secoli fa. Eugenio aveva dimenticato quella sensazione, il
calore vibrante e il desiderio di non staccarsi mai più da lui. No, non è che
l'aveva dimenticato; semplicemente, l'aveva mandata via, presa a calci e
maltrattata, come si fa con i cani fedeli per non farli tornare più. Saperla
lontana lo ha aiutato a sopravvivere al dolore del distacco. Ma eccola qui di
nuovo; l'ha ritrovato senza sforzo, forse perché, alla fine, non si è mai
allontanata veramente.
Si separano ed Eugenio gli fa
cenno di seguirlo fuori. L'altro è chiaramente sorpreso, aggrotta la fronte ed
esita, ma alla fine lo raggiunge e gli cammina accanto, guardandosi intorno con
eccitazione. È chiaro che non ha mai tentato di scavalcare la muraglia. Che vita
solitaria deve essere stata, la sua, perennemente rinchiuso nel suo bel casale,
nella sua bella gabbia comoda. Eugenio non può fare a meno di provare una fitta
di colpevolezza e, in un momento di impulsiva debolezza, tende la mano e
intreccia le dita alle sue, facendolo poi sedere su un largo masso, all'ombra di
un ulivo particolarmente imponente.
Restano per un po' così, in
silenzio, a fissare la campagna circostante. Il sole sta già iniziando a calare,
la sua luce si è fatta più tenue, più colorata. Ad occidente, il cielo inizia a
farsi più vivido. Non potrà trattenersi a lungo; sa che praticare quelle strade
desolate di notte non è una scelta saggia. Ciononostante, abbassa gli occhi
sulle loro dita
ancora intrecciate,
proprio come quando
erano bambini, e gli
sembrano calde e
affusolate allo
stesso modo.
Indugia, mantiene il
silenzio.
Poi: "Non sapevo se
fossi ancora qui.
Avevo la sensazione
che fossi...
altrove."
L'altro ride, ride
di cuore mentre gli
spettina i capelli -
tanto neri quanto i
suoi sono biondi - e
gli dà una piccola
spallata giocosa.
L'ilarità nelle
corde della sua voce
gli solleva un peso
dallo stomaco che
non sapeva di aver
avuto fino a quel
momento.
"Dove altro potrei
essere?" chiede,
però adesso c'è una
punta di amarezza
nella sua voce.
Eugenio si morde un
labbro. Sa che è una
domanda retorica che
non cerca una
risposta, ma si
sente ugualmente in
dovere di dargliela.
Ma per dirgli cosa?
Che l'ha richiuso là
dentro per il suo
bene? Che ha solo
cercato di
proteggerlo? Che
niente avrebbe
potuto spezzarlo,
quaggiù? Suonerebbe
così falso, così
ipocrita. L'ha
relegato in questo
posto tanto
rigoglioso quanto
remoto per
salvaguardare se
stesso, lo sanno
perfettamente
entrambi.
"Come sei stato, in
tutto questo tempo?"
chiede, perché ha
bisogno di sentirsi
dire che, alla fine,
è stato bene. Solo,
forse, e smanioso
ogni minuto del suo
tempo di varcare
quell'immensa
muraglia che gli è
stata costruita
intorno, ma in buona
salute.
Integro.
Perché ci sono stati
giorni in cui ha
temuto che potesse
essergli accaduto
qualcosa di
terribile, giorni
pervasi di ansia e
preoccupazione e
rimorso.
"Bene. Sì, insomma,
vivo. Ma a volte
penso che sia il
momento di farla
finita, Eugenio. Io
e te, tutta questa
cosa," e gesticola
verso le mura. La
loro ombra si
allunga e si
stiracchia,
sfiorando le loro
scarpe. Non resta
più molto tempo. Il
cielo a occidente è
livido, adesso; la
luce aranciata,
smorzata; le nuvole
quasi bruciano.
È lieto che abbia
toccato il punto,
lieto che ci sia
arrivato, lieto che
abbia capito il
motivo della sua
venuta.
Hanno amato, hanno
rischiato; sono
caduti, si sono
fatti male; sul suo
collo, sotto i
ciuffi biondi, c'è
ancora la forma
tremula di una
vecchia cicatrice.
Il dolore gli ha
riempito le braccia,
ha sistemato ogni
pietra che ha posato
intorno a lui,
burattinaio e
burattino. Poi ci ha
infilato una porta,
lo ha salutato con
una pacca e si è
assicurato di
chiudere bene la
porta dietro di sé,
doppia mandata,
così, per sicurezza.
Sono passati i
giorni, che si sono
fatti mesi e poi
anni. Il dolore è
passato come era
venuto: di colpo,
senza sfumature.
Come un temporale il
trentuno di luglio -
rumore, fulmini,
pioggia, fine.
Non è che si sia
scordato di lui, in
tutto quel tempo -
non l'ha fatto. Ha
sempre gironzolato
da quelle parti, lo
ha sempre tenuto
d'occhio da una
crepa tra le pietre,
solo per accertarsi
che fosse ancora
vivo, che il suo
sangue si fosse
rappreso e la ferita
infine guarita. E
poi, un giorno, che
agosto si stava
facendo da parte,
semplicemente non è
tornato. Le sue
scarpe non hanno più
battuto quei
sentieri, l'orlo dei
suoi jeans non si
sono più impolverati
di terra rossa.
Non è più tornato.
Fino ad oggi.
La prima stella
inizia ad ammiccare,
rammentandogli che è
tempo di andare.
Tempo di congedarsi
da lui. Tempo di
abbattere i muri,
sfasciare le porte.
Eugenio infila una
mano oltre il
colletto della
camicia e ne tira
fuori una catenella
d'argento macchiato
dal tempo, a cui è
appesa una piccola
chiave chiazzata di
ruggine. La
strattona con un
gesto secco, si
sbriciola contro la
pelle - ma non fa
male. E poi,
facendola penzolare
un po', gliela
porge.
Vede i suoi occhi
ambrati allargarsi,
muoversi dalla
chiave a lui e
viceversa, andata e
ritorno, ritorno e
andata.
"Perché adesso?"
"Le cose non sono
fatte per durare per
sempre," dice
Eugenio
semplicemente e gli
posa la chiave nel
palmo morbido,
districando le dita
dalle sue. Si alza
in piedi. La luce è
misera, adesso. Lo
guarda per un attimo
lunghissimo, un
singolo secondo
pieno di anni di
cose non dette, non
fatte, negate,
desiderate ma mai
avute.
"Buona fortuna," gli
dice e, per la
seconda volta,
andando via non si
guarda indietro.
Sente il suo sguardo
appiccicato alla
pelle, che cerca
quasi di penetrarlo,
ma non si volterà.
Deve trovare la sua
strada, e deve farlo
da solo. È un suo
diritto, più che un
dovere.
È il premio della
libertà.
Eugenio calcia via
una piccola pietra,
infila le mani in
tasca e sorride,
replicando il
profilo della luna
calante che si
arrampica lungo la
linea
dell'orizzonte.
Hello, my old heart how have you been? How is it, to be
locked away? Well, don't you
worry, in there you're safe. And it's true, you'll
never beat but you'll never
break.
"Eugenio? Eugenio,
ti sbrighi?! Guarda
che il matrimonio di
tua sorella inizia
fra due ore, eh!"
"Fede."
"Eh, io. Dai, forza.
Dai--- che c'è?"
"Io ti amo."
Nothing last
forever, some things aren't
meant to be. But you'll never
find the answer until you'll set
your old heart free.
(x)
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