Pan Valentino
1
Dopo un viaggio durato fino a notte, l’aria nel carro era divenuta
quasi irrespirabile. L’odore era quello acre, umido e caldo della
paura. Le ragazze erano tutte sedute sul fondo, ma, ad ogni scossone
delle grandi ruote di legno, cadevano malamente l’una sull’altra.
Eppure nessuna protestava. Nessuna osava parlare. Una di loro le aveva
afferrato la mano non appena si erano sedute, e la stringeva da allora,
nel buio soffocante. Quando il cocchiere gridò per arrestare il carro,
Ninfea sentì le dita dell’altra serrarsi ancor più forte intorno alle
proprie. Ricambiò la stretta, per infondere coraggio alla compagna
sconosciuta. Per infonderlo a se stessa.
Erano fuori dai Cancelli, nella Selva. Presto sarebbero andate in cerca
del Pan.
La porta posteriore del carro si aprì, e il cocchiere afferrò una gamba
della ragazza seduta in fondo, per farla scendere il più in fretta
possibile. L’aria che arrivava da fuori era tinta d’argento, come la
luna, e terribilmente gelida. La notte del Pan cadeva in pieno Verno.
In pochi attimi furono tutte fuori, a rabbrividire per il contrasto col
calore in cui erano state immerse fino a un momento prima; il respiro
che si condensava, gli occhi che vagavano fra gli alberi ricoperti di
gelo e neve; pronte a fuggire all’istante, se una delle tante, orrende
creature che abitavano l’Esterno si fosse mostrata.
Il cocchiere non le degnò nemmeno di un ultimo sguardo. Montò a
cassetta, chiudendo la gabbia di protezione, e girò il carro, frustando
gli ippoqui, per riprendere la via di casa. La Selva e il buio lo
inghiottirono, i cigolii delle ruote si fusero col silenzio.
Le ragazze si guardarono l’un l’altra, ad occhi spalancati, prendendo
coscienza a poco a poco di essere appena divenute rivali.
Una, una soltanto,
pensò Ninfea fissando i grandi occhi chiari della compagna che le aveva
tenuto la mano durante il viaggio. Vide una smorfia di rammarico
attraversare il volto della ragazza. Probabilmente avevano condiviso lo
stesso pensiero.
- Buona Fort… - cominciò a dire, quando un grido inumano, potente e
sonoro la interruppe, facendola trasalire; scatenando in lei un terrore
profondo e viscerale, lo stesso da cui sia sua madre, sia sua nonna
avevano tentato di metterla in guardia.
Timor Panico.
L’effetto dell’urlo del Pan.
Alcune gridarono di riflesso, e presero a correre in ogni direzione,
sparendo fra gli alberi. Altre caddero in ginocchio, tenendosi le mani
sulle orecchie, scuotendo la testa e gemendo piano.
Eppure, di tutto ciò che
abita la Selva, lui è il solo che non dobbiamo temere,
rifletté Ninfea alzando gli occhi al cielo. Sembrava che anche la Luna
stesse rabbrividendo, negli ultimi echi del richiamo.
Ma sono io che tremo.
Indossava una corta tunica di pelle che le lasciava braccia e gambe
scoperte, stivali foderati di pelo e sulle spalle portava una sacca
leggera. Conteneva il Dono per il Pan. Una preziosa reliquia dell’Ante.
Ninfea si sfilò la sacca e l’aprì. Il Dono era al sicuro, avvolto nella
stoffa.
La radura, ormai, era deserta. La ragazza si guardò intorno, posando
una mano sulla fionda appesa alla cintura, l’unica arma che avrebbe
avuto a disposizione per difendersi e attaccare. Chiuse gli occhi, per
sentire il vento e capire da che direzione fosse arrivato il grido. Si
stava esponendo, ma… stava anche raccogliendo le forze.
2
Fu l’odore ad avvertirla. Secco e polveroso, invadente al punto da
serrarle la gola all’istante, insieme a un fruscio greve, come lo
strusciare di un abito da cerimonia su un pavimento cosparso di sabbia.
Ninfea s’immobilizzò un attimo prima di uscire allo scoperto,
aggrappandosi alla corteccia di un albero abbastanza grande da offrirle
un riparo, e fissò, da là dietro, la cosa che stava emergendo dal buio.
Aveva occhi piccoli e argentati, come minuscole lune ardenti. Una bocca
enorme, piena di zanne, già macchiate di sangue. Quattro zampe
artigliate e robuste, coperte in parte di pelo, in parte da piume
grigie. E due grandi ali appena scostate dal corpo, che fregavano sul
terreno che là, nel folto della Selva, era quasi del tutto sgombro
dalla neve. L’origine del fruscio. La bestia se le trascinava dietro,
avanzando fra gli alberi quasi a forza.
Ninfea staccò la fionda dai fianchi e la impugnò con la mano sinistra.
La destra frugò nel sacchetto delle munizioni, in cerca di una sfera.
Era liscia e fredda, fra le sue dita. E non sembrava possibile che
potesse arrecare un qualunque danno al mostro.
Non mi vedrà, non mi
vedrà, non mi vedrà… pregava intanto.
Ma non fu necessario. La bestia la
fiutò.
Il ruggito fu quasi più spaventoso dell’urlo del Pan. Era… legnoso,
come se nascesse da una gola rivestita di placche ossee. La spinse a
reagire d’istinto, a lasciare il riparo per tuffarsi subito fra gli
alberi, su un nuovo sentiero. Un attimo e la cosa le fu dietro, la
sentì ansimare dietro di sé, spezzare rami e farsi strada producendo
qualcosa di simile a un cataclisma.
“Qualunque cosa accada,
torna viva,” le ripeté la voce di sua madre, nella mente.
Ma i tonfi di quelle zampe massicce erano ormai proprio dietro di lei.
La bestia le artigliò la schiena e strappò. Ninfea sentì le cinghie
della sacca che si spezzavano, e un bruciore intenso in mezzo alle
scapole. Più gelido del terreno su cui cadde. Si voltò, si mise a
sedere. Il mostro le stava sopra, ammorbandola con l’alito colmo dei
miasmi del rivolo di scarico di un macello.
Non devo morire, non
devo morire, pensò armando la fionda. La tese portando
indietro la mano destra, a sfiorarsi l’orecchio, e tendendo la sinistra
fino a tremare. Puntò dritto in uno degli occhi fosforescenti del
mostro.
Il suono fu viscido, umido, rivoltante; il grido della bestia tanto
orrendo da mozzarle il respiro. La ragazza s’infilò sotto la testa del
mostro, che la sbatteva da un lato all’altro per scacciare il dolore;
recuperò la sacca, (Mai,
mai, mai perdere il Dono!), capriolò fra le sue zampe
artigliate e corse via, ansimando di terrore ed eccitazione insieme,
senza mai voltarsi indietro.
L’urlo si levò di nuovo, nel buio, percorrendo la Selva come un brivido.
Il Pan era impaziente.
3
La Torre, la dimora del Pan, era tanto alta da intimidirla. Era di
pietra, ma ferita in molti punti da rami appuntiti che disegnavano una
sorta di cresta a spirale, che la percorreva per intero sul ciglio del
sentiero esterno che conduceva in cima. Ninfea sollevò lo sguardo senza
fretta, percorrendolo con la mente, preparandosi ad uscire allo
scoperto, nella radura bagnata dalla luce della luna, e a risalirlo con
un ultimo atto di coraggio. La distesa di neve, perfettamente intatta,
rivelava che nessuna delle altre, ancora, aveva raggiunto la Torre.
Sono la prima…
pensò la ragazza, voltandosi un attimo indietro ad immergere gli occhi
nell’oscurità della Selva. Aveva sentito… grida di dolore e ululati di
paura, quasi sempre interrotti di colpo. L’avevano guidata nel suo
percorso, come consigli utili ma orribilmente odiosi; insieme all’odore
dei predatori che aveva imparato così presto a riconoscere.
Sollevò una mano a sfiorare le cinghie della sacca che si era appesa al
collo, con un nodo di fortuna, e camminò in piena vista, gli occhi
fissi sulla cima della Torre, contornata da una fine nebbia
di stelle.
L’urlo del Pan si levò un’ultima volta, nel silenzio.
Deve avermi vista…
pensò Ninfea guardandosi intorno, rendendosi conto di essere l’unica
macchia scura sul biancore della neve. L’urlo… stavolta era stato
diverso; un richiamo terribile, un grido di trionfo, sì, ma… sporcato,
alla fine, dall’eco di un sospiro di sollievo.
Il Pan si scostò dal vecchio marchingegno puntato sulla Selva, che gli
potenziava la voce, voltandosi a guardare verso l’alcova al centro
della stanza, e tornando, con questo, ad essere quello che era
realmente. Soltanto un ragazzo.
Fra poco lei sarebbe apparsa, sulla soglia affacciata sulla notte, e
l’avrebbe visto. Colpito da un’improvvisa incertezza, abbassò gli occhi
per guardarsi, ispezionandosi. Era seminudo e pertanto coperto di
brividi. Pensò di accendere il fuoco, ma non era ancora il momento.
Allora, mentre attendeva sentendo il cuore battere sempre più forte,
percorse con la punta delle dita le ferite che si era procurato nelle
prove che aveva affrontato con gli altri, per diventare il Pan;
premette i punti ancora dolenti per sostituire la paura con una
sensazione più semplice da provare. Meno… disorientante.
L’arrivo di uno stormo immenso, poco prima dell’inizio del torneo,
aveva reso le prove nella Selva difficili e cruente come mai prima.
È sopravvissuta…
pensò il ragazzo sentendo gli occhi, ancora fissi sulla soglia, quasi
bruciare. Tanta era la voglia di vederla, che dimenticava di battere le
palpebre. Si chiese se sarebbe accaduto come gli avevano detto, se in
quella notte avrebbero davvero cominciato ad amarsi, e, con sconcerto
ancora più profondo, si chiese se lei, dopo, avrebbe accettato di
accompagnarlo nel viaggio che li attendeva.
“È tuo dovere,”
avevano detto. “Hai
sconfitto la Selva infestata da uno stormo… davvero smisurato. Sei il
primo Pan a sopravvivere a prove così dure, da molto, molto tempo. Se
una compagna riuscirà a raggiungerti, sarà vostro compito andare in
avanscoperta all’Esterno, in cerca di un luogo in cui fondare un nuovo
vill…”
Ma dimenticò tutto, all’istante. Lei era lì, finalmente. E lo guardava
con gli occhi spalancati, la bocca socchiusa, il respiro interrotto.
Sospesa sul passo con cui avrebbe oltrepassato la soglia. Con cui lo
avrebbe accettato.
È… pensò
Ninfea, è… ma
non trovò parole per descriverlo. Lo fissò, accorgendosi, alla luce del
raggio di luna in cui era immerso, che lo sguardo dei suoi occhi era
bruciante come una fiamma viva.
E trema, riconobbe, guardando il resto di lui e sentendosi
stringere la gola, nel farlo. Trema
quasi più di me.
Nell’attimo più importante di tutta la sua vita avrebbe dovuto restare
seria, lo sapeva.
Invece sorrise e varcò la soglia.
È dentro,
pensò lui, colmando in un attimo la distanza che li separava.
Si fermò… a meno di un passo. “Sei arrivata,” disse serrando i pugni,
per impedirsi di toccarla. Ma la vide tremare e si arrese. Le passò le
braccia intorno, rabbrividendo, posandole una mano sulla nuca, l’altra
sulla schiena, sotto la sacca, sentendo una sensazione strana, come…
“Sei ferita,” riconobbe, chiedendosi perché il solo pensarlo lo
sconvolgesse così.
Ma lei sussurrò: “Non è niente, ma ho freddo. Accetta il Dono, per
favore. Almeno potrai accendere il fuoco.”
Il Dono… il cucciolo che lei aveva protetto facendogli scudo con la
propria vita. Era… solo una rappresentazione, naturalmente; di un
animale vissuto nell’Ante, e adesso estinto. Il ragazzo si scostò
appena perché lei potesse aprire la sacca, toglierlo dall’involto e
porgerglielo. Era sciupato dallo scorrere del tempo, ma trasmetteva
ancora, a dispetto di tutto, un’idea di tenerezza. Lui lo guardò negli
occhi neri, di un materiale duro, liscio e sconosciuto; lesse la
formula sul petalo rosso e morbido che il cucciolo stringeva fra le
zampe e attese che lei la pronunciasse.
“Iloveyou”
recitò Ninfea, in un sussurro quasi inavvertibile. Si chiese se fosse
vero, se pronunciarla l’avrebbe spinta ad amarlo. Teneva gli occhi
bassi. Quando le mani di lui le tolsero il Dono dalle mani, posandosi
per un attimo sulle sue, la ragazza sollevò lo sguardo e non ebbe più
alcun dubbio.
FINE
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