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SPOILER FINO AL CAP. 815!
Questa fanfiction si ispira all'immagine qui a fianco e a dire il vero
è parecchio surreale, ma se credete nella SaNami allora
tutto è possibile :D ho cercato di dare un po' di spazio al
passato di Sanji, basandomi sulle poche informazioni che abbiamo e
mantenendomi sul vago, spero che il tutto vi sembri plausibile e
soprattutto che i personaggi non risultino OOC perché ho
questa vaga preoccupazione.
Buona lettura e che
la SaNami sia con tutti voi! Grazie a chi
leggerà e avrà voglia di recensire ♥
A
metà
strada dello
stesso
sogno
La prima cosa che pensò Sanji nell’aprire gli
occhi e ritrovarsi immerso in una distesa di bianco così
infinita e omogenea, priva di qualsiasi dimensione e volume, fu che
quello doveva essere per forza un sogno.
Guardandosi le mani, ne ebbe la conferma. Non erano mani da uomo, mani
di cuoco e di pirata, ma mani piccole e rosee, abituate solo al gioco.
Mani di bambino, del bambino che era stato. Lo stesso valeva per i
piedi. Al posto delle solite scarpe nere abbinate alle camicie dai
colori accesi e ai completi scuri ed eleganti, indossava un paio di
scarpette marroni e lucide, con tanto di calzettoni che gli fasciavano
le gambe corte e magre. Addosso aveva una camicetta bianca da marinaio
e un paio di pantaloncini neri.
Era basso. Basso e smilzo come solo un bambino di otto anni poteva
esserlo. Si portò due dita al mento e non si
stupì di aver perso anche il pizzetto che si era lasciato
crescere nei due anni a Kamabakka, come a voler sottolineare la propria
virilità in mezzo a tutti quegli uomini vestiti e truccati
in modo a dir poco imbarazzante. Il solo ricordo gli faceva accapponare
la pelle. Non ebbe bisogno di toccarsi anche i capelli per sapere che
erano l’unica cosa rimasta invariata. Lisci e biondi, gli
coprivano solo metà di quel viso paffuto e infantile.
Era successo: il passato che aveva faticosamente cercato di nascondere
per proteggere i suoi compagni era tornato a fargli visita, non solo
nei suoi sogni ma anche nella realtà, mettendo in serio
pericolo – ironia della sorte – proprio loro, a cui
teneva di più al mondo.
In un gesto ormai automatico, come faceva spesso quando era agitato o
nervoso, si portò una mano in tasca alla ricerca del
pacchetto di sigarette, ma non trovò nulla.
Oh, già. A
otto anni Sanji, terzo membro della famiglia Vinsmoke, non aveva ancora
preso il vizio di fumare; a otto anni sua madre lo lasciava scorrazzare
per i corridoi della casa facendo finta che il marito, di cui Sanji
sapeva poco quanto niente, fosse costantemente via per lavoro, ma che
sarebbe tornato presto, e così sarebbero stati una famiglia
felice, normale.
Ma non era stato così. La verità era venuta a
galla nel peggiore dei modi − i Vinsmoke non erano altro che
assassini, sporchi
assassini − e Sanji si era ritrovato sballottolato su una
nave come aiuto-cuoco, finché non aveva incontrato Zeff e
aveva visto in lui il padre burbero e severo, ma pur sempre presente, che non
aveva mai avuto, e che gli avrebbe insegnato ad usare le mani per sfamare la gente,
non per ucciderla.
«Ehi, ragazzino, sai per caso dove ci troviamo?».
Perso nei ricordi, Sanji sobbalzò dalla sorpresa
nell’udire la voce di Nami alle proprie spalle.
Be’, non che fosse la prima volta: nel corso di quegli anni
trascorsi insieme, l’aveva sognata nei più
svariati contesti, da quello più dolce a quello meno casto,
ma mai avrebbe pensato di ritrovarsela in un sogno legato ai suoi
ricordi d’infanzia.
Cosa poteva c’entrare Nami, così bella,
così pulita,
con il suo orribile passato?
Si voltò a guardarla e la sua figura gli sembrò
talmente luminosa che dovette socchiudere gli occhi e portare una mano
a coprire il viso per non rimanerne accecato. Quando si fu abituato,
tornò a guardarla: indossava lo stesso abito nero e gli
stessi gioielli di perle che le aveva visto addosso l’ultima
volta − più
bella di una dea, aveva pensato in
quell’occasione − e sembrava piuttosto
disorientata. Continuava a guardarsi intorno con aria agitata alla
ricerca di chissà cosa; i lunghi capelli rossi frusciavano
ad ogni movimento della testa, accarezzandole le spalle nude.
«Nami-san», disse Sanji, e la voce gli venne fuori
particolarmente acuta e infantile.
Nami portò lo sguardo su di lui, le sopracciglia inarcate
per lo stupore. «Ci conosciamo?».
Sanji si diede mentalmente dello stupido. Era tornato bambino, era
ovvio che lei non lo riconoscesse.
«Sono io». Si sollevò sulle punte dei
piedi, come per raggiungerla. Nami gli sembrava così alta,
così irraggiungibile
da quella prospettiva. «Sono Sanji».
«Sanji-kun?», chiese Nami incerta. Sanji aveva
sempre adorato il fatto di essere l’unico a cui Nami
riservasse il –kun,
un po’ come faceva lui che utilizzava il –chan per
tutte le donne, ma il –san
solo per lei, per lei che era diversa dalle altre, speciale.
Nami assottigliò gli occhi, scrutandolo dalla testa ai piedi
con fare circospetto, poi gli puntò addosso
l’indice in maniera accusatoria.
«Cosa mi hai offerto la prima volta sul Baratie?».
Sanji aggrottò la fronte, perplesso. «Nami-san,
cosa c’entra ora...?»
«Rispondi!», si impuntò lei.
Quel momento era ben impresso nella mente di Sanji. Non poteva dire di
essersi innamorato di Nami al loro primo incontro − il colpo
di fulmine era una fantasia allettante ma poco credibile anche per uno
come lui − tuttavia poteva affermare che la risata forte e
spontanea di Nami, i suoi modi sensuali, la sua forte
personalità, lo avevano colpito fin da subito.
«Una rosa, ti ho offerto una rosa rossa».
Gli occhi di Nami si accesero all’improvviso.
«Sanji-kun!», esclamò piegandosi sulle
ginocchia fino a raggiungere la sua altezza.
Sanji assistette inerme al repentino cambio d’umore della
ragazza e gli venne da sorridere. Lo sapeva, quello era solo un sogno,
ma la sua mente gli stava fornendo un’immagine
particolarmente realistica della sua Nami, il che era la dimostrazione
che la conosceva abbastanza bene e che... be’, sì, un
po’ la amava. Decisamente più di un po’.
«Sanji-kun, cosa ci fai nel mio sogno?».
Ora Nami lo guardava con sguardo curioso, un po’ come si
guardano i bambini piccoli. Il che lo fece sentire ancora
più piccolo. E lui non voleva che Nami lo guardasse in quel
modo. Voleva che lo considerasse un vero uomo, sicuro di sé,
affidabile, un uomo che avrebbe potuto restarle accanto per tutta la
vita e proteggerla e amarla come meritava, un uomo con cui costruirsi
una famiglia.
«Nami-san, potrei farti la stessa domanda. Io pensavo che
questo fosse il mio
sogno». Un pensiero assurdo gli attraversò la
mente e non esitò un secondo a palesarlo. «Forse
stiamo facendo lo stesso sogno, forse... le nostre menti... i nostri cuori sono
collegati! Oh,
è così romantico,
Nami-swan~♥!».
«Non credo proprio».
Dal canto suo, nemmeno Nami esitò un secondo. Di fronte a
quegli occhietti a cuore, la prima cosa che le venne in mente
fu rifilare un bel pugno sulla testa bionda di Sanji e metterlo a
tacere. Perché, immaginario o no, bambino o meno, quello
che le stava davanti era pur sempre Sanji. E non poteva
permettergli di viaggiare in quel modo con la sua dannatissima
fantasia perversa, nemmeno nei suoi sogni.
Tuttavia, nell’osservarlo massaggiarsi il bernoccolo con gli
occhi lucidi di lacrime, il suo faccino gli fece tanta tenerezza che
quasi si pentì di averlo colpito così forte.
«Né, Sanji-kun», disse allora, con il
tono affettuoso di una mamma rivolta al figlio,
«perché ti vedo così
piccolo?».
«Per il matrimonio e tutto il resto, credo».
Nami annuì. Ora il centro dei suoi pensieri era salvare
Sanji dal fardello del suo passato, era abbastanza plausibile
ritrovarselo in sogno nelle fattezze di un bambino, no? Quale altro motivo poteva
esserci, in fondo?
«Hai intenzione di sposarla davvero, questa
Pudding?», gli chiese, come se quello di fronte a lei fosse
il vero Sanji.
Entrambi stavano ormai perdendo la cognizione che si trattava solo di
un sogno.
Il bambino le sorrise di sbieco. «Sei gelosa,
Nami-san?~♥».
«No, idiota», lo rimproverò lei,
colpendolo lievemente ad una spalla.
Sanji ridacchiò. Nami era bella quando si arrabbiava. Era
bella sempre, in realtà.
«Voglio solo sapere se continuerai il viaggio insieme a
noi», specificò allora la navigatrice.
Sanji sospirò, infilando le mani nelle tasche, e nonostante
fosse fisicamente bambino, Nami rivide l’uomo che era in
realtà. Gli mancava solo la sigaretta stretta tra le labbra.
Per un momento Sanji fu tentato di risponderle che no, non avrebbe mai
sposato Pudding perché non era lei la donna che amava,
bensì quella che gli stava di fronte.
«Ci sono delle questioni importanti che devo sbrigare,
Nami-san. Questioni che riguardano me e la mia famiglia, ma ti prometto
che tornerò. Altrimenti chi lo sente Rufy?!».
Cercò di sdrammatizzare ma non ottenne l’effetto
sperato. Nami sembrava avercela un po’ con lui.
«Quello che non capisco, Sanji-kun, è perché
ci hai tenuto nascosto il tuo passato. Non ti fidi di noi?».
Attese qualche secondo, incerta se continuare o meno. «Non ti
fidi... di me?».
Sanji abbassò la testa, mortificato. «Certo che mi
fido di tutti
voi, ma me ne vergognavo, Nami-san. Pensavo che non mi avreste
accettato, pensavo che voi... che tu,
più di tutti...», si corresse, fissandola intensamente, «...mi avresti guardato con occhi
diversi».
Nami assunse un’espressione incredula.
«Perché avrei dovuto?».
«La mia famiglia faceva delle cose orribili, cose che nemmeno
ti immagini».
«Erano assassini, lo so».
Sanji spalancò gli occhi. «Come l’hai
saputo?».
«Lo sappiamo tutti, a dire il vero, e francamente non ce ne
importa un accidenti. Tu
non sei un assassino». Gli sorrise dolcemente, portando una
mano sulla sua testa. «Tu sei un cuoco eccezionale, un
coraggioso pirata, un ottimo amico e il prode cavaliere di ogni
principessa di questo mondo».
Sanji avrebbe voluto aggiungere che sarebbe stato il suo cavaliere, suo
e di nessun altro, se solo lei glielo avesse permesso, ma Nami non gli
diede il tempo di rispondere.
«Tu
non sei la tua famiglia,
Sanji-kun».
Nami lo aveva detto con una tale convinzione che Sanji sentì
gli occhi inondarsi di lacrime.
«Grazie», sussurrò mordendosi le labbra
per non scoppiare a piangere come un bambino, il bambino che era in
quel momento.
Nami scese con la mano ad accarezzargli una guancia, intenerita.
«Sanji-kun...?».
«N-non sto piangendo. È solo colpa di questo
stupido corpo da bambino... troppo, troppo sensibile».
«Oh, avanti, non fare l’orgoglioso. Vieni
qui».
Nami lo attirò a sé per le spalle esili e se lo
strinse addosso, premendogli una mano sulla nuca per fargli poggiare la
testa sulla sua spalla. Lo abbracciò stretto e Sanji,
inizialmente rigido a causa dello stupore, impiegò qualche
secondo per cingerle il collo con le braccia sottili e sfogare le
lacrime che aveva represso durante la sua infanzia. Non gli capitava
spesso di abbracciare la sua Nami-san, era un’occasione
più unica che rara, imperdibile.
«Somigli tanto alla mia mamma, Nami-san», si
lasciò sfuggire con aria nostalgica.
Nami immaginò una donna, alta, bionda e snella.
«Come mai?».
«Quando ne combinavo una, mi prendeva a sberle».
«Ehi!». Nami gli diede un buffetto sulla testa.
Sanji rise, reprimendo un singhiozzo. «Ma soprattutto era
bella, bella come te. E aveva il tuo stesso profumo».
Nami socchiuse gli occhi, le labbra piegate in un sorriso. Stentava a
credere che tutto quello fosse solo frutto della sua immaginazione, non
era da Nami
credere a stupidaggini del genere, ma forse lei e Sanji si erano
davvero incontrati a
metà strada dello stesso sogno. Non trovava
altre spiegazioni a quel calore che sentiva nello stringere il corpo
minuto di Sanji, a quella sensazione di completezza e sollievo. In
qualche modo, in quell’occasione Sanji aveva deciso di
aprirsi a lei, di mostrarle le sue debolezze, le sue paure, e ora
sì che Nami lo avrebbe guardato con occhi diversi, da una
prospettiva migliore.
Perché si era resa conto che in fondo lei e Sanji avevano
entrambi lottato per lo stesso sogno: riscattarsi dal proprio passato
ed essere persone migliori.
E chissà quanti
e quali
altri sogni avrebbero condiviso, in futuro, insieme.
«Promettimi che non verrete a cercarmi, Nami-san».
«Sai che Rufy non se ne resterà mai con le mani in
mano. Per una volta dovrai impersonare il ruolo della donzella in
pericolo».
«Ma io...».
«Troppo tardi,
Sanji-kun».
Sanji, a malincuore, sorrise. Be’, avrebbe dovuto
immaginarselo. Quelli erano pur sempre i suoi stupidi, scalmanati, preziosi nakama.
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