Un ringraziamento speciale
a theuncommonreader,
che
ha betato il racconto, rendendolo migliore di quello che era.
---
Nota dell'autrice: questo racconto è
ispirato a fatti e
personaggi storici. La ricostruzione degli eventi e della cronologia,
così come
la caratterizzazione dei personaggi, è basata sulle relative
fonti storiche
accreditate. Nel delineare la figura di Alessandro di Macedonia e dei
suoi
contemporanei mi sono rifatta ad Arriano, Plutarco e Curzio Rufo. Nel
delineare
il personaggio di Efestione ho tenuto conto di alcune teorie che gli
attribuirebbero
probabili origini ateniesi, anziché macedoni. La
ricostruzione della sua vita
precedentemente all’incontro con Alessandro è
tuttavia di mia invenzione, dato
che Efestione appare nelle fonti solo successivamente.
Per i nomi propri
ho usato la
traslitterazione dal greco antico, in questa forma:
Alessandro: Aleksandros /
Al’skandros
Efestione: Hephaistion
Bagoa: Bagoas
Tolomeo: Ptolemaios
Achille: Akhilleus
Patroclo: Patroklos
Glauchia: Glaukias
Un
riparo dal freddo
Le
sette mura di Ecbatana sono dipinte di nero, imbrattate di lucida pece.
Un
tempo sfolgoravano nel sole, il bianco brillante della pietra e la
policromia
dei fregi e delle gemme a circondare la città, fiammeggiando
a perdita d’occhio
nella pianura.
Il
carro solare ha compiuto il suo percorso solo sette volte da allora, ma
sembra
una vita intera.
Questa
è la sensazione almeno – anche se il mondo non
può davvero essere mutato tanto
in così poche albe. O forse non è il mondo, ma
solo la parte che lo riguarda,
come se poi potesse fare differenza.
In
passato, Bagoas si sarebbe fatto maledire pur di condividere anche solo
la metà
delle attenzioni che il Grande Re Al’skandros aveva per
l’uomo che considerava
il suo amico più caro. Ora… ah, ora si
considererebbe benedetto nel riuscire a
vederlo, il suo Re – essere nella stessa stanza con lui,
respirare la sua aria.
Tutto
è cambiato.
È
strano come gli uomini siano portati a desiderare qualcosa tanto a
lungo e poi,
quando finalmente la ottengono, si rendano conto di non volerla
affatto.
Bagoas
non ha mai creduto che si sarebbe afflitto per la morte di Hephaistion.
Non è
stato un nemico per lui, questo è vero – eppure
gli ha comunque augurato la
fine, e in più di una occasione. Forse ha pensato che, una
volta sparito,
Al’skandros si sarebbe rivolto a lui per trovare
consolazione; si è addirittura
illuso che avrebbe potuto prendere il suo posto nel cuore del suo
Signore. Ora
la sa più lunga.
Ha
ottenuto quel che voleva e ha imparato la lezione.
Gli
elleni sono soliti dire: quando va male,
gli Dei ti favoriscono; quando va bene, ti ignorano. Sono
creature crudeli
e volubili, gli Dei occidentali – Bagoas è
arrivato a comprenderlo fin troppo tardi.
Quanto meglio sarebbe stato se l’avessero ignorato, con il
suo cuore stupido e
le sue meschine gelosie. Quanto meglio se Hephaistion fosse
sopravvissuto.
Senza di lui, Al’skandros sta andando in pezzi.
Non
si era mai reso conto di quanto gli occhi tranquilli e il sorriso
franco di
quell’uomo l’avessero tenuto insieme. Ha sempre
creduto che la forza di
Al’skandros gli venisse da dentro, non che la traesse da
qualcun altro. Non si
era mai interrogato sulla sua capacità di amare e di essere
amato, e su quel
bisogno che aveva di reclamare affetto da coloro che lo circondano. Per
lui,
Hephaistion era sempre stato soltanto un’ombra che schermava
il sole mentre
ora, senza di lui, il mondo sembra sprofondato nella tenebra
più cupa.
La
sua morte è stata improvvisa; l’aveva colto una
qualche febbre dopo il loro
arrivo a Ecbatana, ma era sembrato che si stesse riprendendo. Non
c’era ragione
perché non lo facesse: era giovane e forte, e aveva il
miglior medico del
contingente a prendersi cura di lui. Nessuna ragione – se non
gli oscuri e
segreti desideri del suo animo invidioso.
Qualche
divinità deve averli percepiti – ed esauditi
– e ora anche il suo cuore è in
frantumi.
Lo
è certamente quello di Al’skandros; alcuni
sussurrano che lo sia anche la sua
mente.
Avevano
cercato di tenerlo lontano, Ptolemaios e gli altri, quando era corso
via dallo
stadio, disertando i Giochi; Bagoas era giunto solo dopo aver sentito
la
confusione provenire dai quartieri privati di Hephaistion, e li aveva
visti:
aveva scorto Ptolemaios afferrare il Re per le spalle e tirarlo via,
sussurrandogli qualcosa.
Il
viso di Al’skandros era come marmo e i suoi occhi avevano per
un attimo
mostrato il bianco, nell’oscurità del corridoio.
La sua voce era risuonata
chiara, rimbombando tra le pareti – “No. Stai
mentendo. Non è possibile.” – e
Ptolemaios aveva parlato di nuovo, tentando di condurlo via.
Al’skandros gli
era passato accanto, spintonandolo – si era fatto strada tra
la selva di mani
che tentavano di agguantarlo, fino a raggiungere la soglia della
camera.
Uno
dei generali aveva fatto il gesto di andargli dietro ma Ptolemaios
l’aveva
fermato. Rammenta bene il dolore che gli aveva visto in volto, e quello
che
aveva detto: “Lasciatelo andare.” Il suo tono
vibrava di disperazione.
E
poi, dal ventre di quella camera in cui non aveva mai messo piede, era
filtrato
un lamento che risuonava come lo spezzarsi di un’anima
– acuto e affilato e
colmo di strazio, cocci di vetro conficcati nelle orecchie, a spillare
il
sangue – e allora aveva saputo che Hephaistion era morto.
Forse in quel momento,
nel profondo della sua oscurità, ne era persino stato lieto.
Adesso
non c’è più alcuna letizia in lui.
Al’skandros
era rimasto con i suoi amici, aggrappato al cadavere per tutto il
giorno mentre
si raffreddava e si irrigidiva – la pelle un tempo tiepida
che si faceva di
pietra. L’avevano trascinato via a forza alla fine, e lui si
era premurato di
non farsi vedere in quel momento.
Non
voleva essere ricordato come uno di quelli che l’avevano
strappato alle braccia
del suo amico. Già era sufficiente sapere che, in fondo al
cuore, gli aveva
augurato la morte; la peggior condanna sarebbe stata che
Al’skandros glielo
leggesse negli occhi.
Il
cordoglio del Re è qualcosa che lui non può
neanche sfiorare. Una fortezza – di
questo si tratta – e Al’skandros ne è al
centro, a gridare il suo tormento
contro il cielo indifferente.
Ha
fatto uccidere Glaukias: il medico è stato abbandonato a
marcire inchiodato a
una croce in cima alle mura della città, il cadavere nero
per i corvi, come
coperto da un drappo funebre.
Al’skandros
non riesce più a dormire, oppure dorme troppo. Non mangia
né beve, a meno che
qualcuno non lo obblighi. Si è tagliato la chioma bionda,
lasciando al suo
posto pochi ciuffi sparuti come fili d’erba intirizziti
dall’inverno, e gli
occhi sono rossi e infossati su un viso che sembra di cuoio. Quando li
ha
rivolti su di lui, quegli occhi, è certo che non
l’abbia riconosciuto.
C’è
una sorta di giustizia in tutto ciò, deve convenirne: lo
metterà da parte prima
o poi. Sarebbe una forma di sacrificio – e
Al’skandros ha fede in questo genere
di cose. Quell’uomo alto, con i suoi capelli scuri e la
risata sonora, sarà per
sempre il suo amante, glorificato e intoccabile. Nessun mortale
potrà mai
eguagliarlo – mai più. Nessuno dovrà
provarci.
Forse
gli causerà dolore allontanarlo dal suo talamo, ma
è certo che il Re lo farà,
in onore della memoria del suo compagno. Per la sua ombra, e
perché dolori di
questa portata non possono né debbono essere leniti da
piaceri tanto triviali.
Eppure,
deve uscirne. Per il suo bene, e per quello del suo impero. E, in tutta
verità,
anche per il bene di questo stupido eunuco persiano che si è
augurato cose che
non avrebbe mai dovuto desiderare. Gli Dei gli avevano già
mostrato grande
riguardo a concedergli la benevolenza di Al’skandros;
è stata una follia volere
di più. La sua cupidigia ha portato a questo – e
non c’è modo per rimediare,
ora.
Può
darsi che Ptolemaios possa aiutarlo. Conosce Al’skandros da
quando era un
bambino, ed è sempre stato gentile con chi ha saputo servire
bene il suo Re.
Non gli ci è voluto un grande coraggio per andare a
cercarlo, meno di quanto
avrebbe creduto in un primo momento. In ogni caso, è
più facile fronteggiare
Ptolemaios che incrociare di nuovo gli occhi vuoti e brucianti di
follia del
suo amato.
Lo
trova da solo, e di questo ringrazia la sua buona fortuna. Ptolemaios
si è
sempre dimostrato cordiale, ma non può dire lo stesso della
gran parte degli
uomini di Al’skandros. Molti di loro dedicherebbero
più volentieri del tempo a
un cane in fin di vita che non a un barbaro buono solo a danzare e a
riscaldare
il letto. A un cane darebbero cibo; per lui riserverebbero soltanto
calci e
ingiurie.
Sono
lupi, questi macedoni – alti, chiassosi e ruvidi, senza
alcuna inclinazione per
la gentilezza. E dopo tanti anni ha imparato chi è bene
evitare.
Ptolemaios
alza la testa quando lo raggiunge in una delle sale adibite alla
memoria di
Hephaistion, circondato dalle statuette votive con la sua effige che
Al’skandros ha fatto commissionare, e che i suoi generali
sono stati ansiosi di
donargli per mostrare il loro compianto. Il Re ha preso a trascorrere
sempre
più tempo tra quelle stanze – una volta
l’ha seguito ed è rimasto a spiarlo, al
di là di una tenda, sentendolo parlare a bassa voce con i
simulacri senza vita
né calore – come se davvero Hephaistion fosse
ancora lì e potesse rispondergli.
Stavolta,
però, Al’skandros non è presente
– c’è solo Ptolemaios, venuto forse
anche lui
per comprendere il segreto di questo legame che neanche la morte
è riuscita a
recidere ma che ha addirittura serrato più stretto, come un
nodo scorsoio
attorno alla gola del Re.
Gli
sorride persino, quando si fa avanti; non abbastanza da cancellare il
dolore
dai suoi occhi, ma quanto basta per dargli il coraggio di non scappare
via.
“Bagoas,”
lo saluta. “Mi sono chiesto spesso dove fossi finito. Ti
senti bene?”
Bagoas
sente che potrebbe piangere. Tuttavia non lo fa – i macedoni
non sono inclini neanche
alle lacrime, e men che meno quando qualcuno può vederli.
“Io…”
prova a rispondere, poi si morde la lingua. Cosa può dirgli,
in verità? Il suo
mondo è crollato e ha solo il suo desiderio scellerato da
biasimare, con il suo
dolce Sovrano a pagarne il prezzo.
“Mio
Signore,” ritenta, “ho timore per il Re. Il suo
cordoglio, intendo. È come
fosse pazzia.”
“Lo
credi davvero?” Ptolemaios non sembra sorpreso, solo appena
più triste. Si alza
dalla panca su cui era seduto, poggiando a terra il piccolo busto di
Hephaistion che teneva nel palmo. Il bronzo scintilla di fiochi
bagliori alla
luce dei bracieri e delle lampade d’argento.
“Bagoas, tu li conoscevi. Che cosa
potevi aspettarti?”
Le
sue parole lo colpiscono come uno schiaffo, facendolo vacillare.
Tu
li conoscevi.
Ah,
ma non li aveva conosciuti affatto, questa è la
verità; forse aveva saputo i
loro nomi, e alcune delle loro abitudini – quel modo che
avevano di ridere
insieme per scherzi che lui non poteva capire; quel vezzo di parlarsi
per mezze
frasi, come se davvero non necessitassero di parole per comprendersi;
aveva
persino saputo un poco di ciò che erano l’uno per
l’altro. Non era mai stato in
grado di capirlo fino in fondo – non è costume
persiano per un uomo darsi in
tal modo a un altro uomo – eppure era riuscito a vedere che
nessuno di loro lo
era meno, per questo. Non aveva mai capito, no – e non li
aveva mai davvero
conosciuti.
Così
lo dice, e lo fa a voce alta. “Non lo so. Ti prego,
spiegamelo.”
Ptolemaios
lo guarda a lungo, in silenzio. Si avvicina a uno dei tavoli ingombri
di busti
di bronzo e teste di marmo e sembra volerne sfiorare una, ma ritira le
dita un
attimo dopo. In un angolo sono abbandonati una coppa di ceramica e una
caraffa.
Si versa del vino e fa il gesto di offrirlo anche a lui.
Bagoas
scuote la testa. Non riesce più a guardarlo, il vino.
Hephaistion ne aveva
avuta una coppa accanto al letto, ma nessuno sembrava averlo notato. In
Persia,
avvelenare il vino è uno dei modi prediletti per eliminare
un ostacolo – un
congiunto, un sovrano.
Un
rivale.
Per
molti giorni aveva temuto che potessero incolparlo per quel calice
vuoto – più
di tutto aveva temuto che la voce potesse arrivare alle orecchie di
Al’skandros. Non avrebbe neanche potuto professare una
completa discolpa:
dopotutto, l’aveva voluto morto.
Ptolemaios
si stringe nelle spalle e lascia andare la caraffa.
“Hephaistion
arrivò a Pella quando Aleksandros era tredicenne. Erano
più o meno della stessa
età, li separavano due anni soltanto.” Sorride,
distendendo le labbra sul volto
indurito. “Non so che cosa li fece avvicinare, tutto lasciava
intendere che non
avrebbero mai potuto andare d’accordo.” Prende un
sorso di vino, poi storce la
bocca in una smorfia, riabbassando la coppa. “Hephaistion
veniva da Atene; a
vederlo sembrava che dovesse defecare margherite. Aleksandros era
più
selvatico, come tutti noi del resto.” Alza gli occhi,
puntando il lungo naso al
soffitto. “A ogni modo, furono amici dal primo momento.
Inseparabili.
Vent’anni, e nulla è cambiato. Fino a
ora.” Riabbassa la testa e si lascia
sfuggire un sospiro che potrebbe sembrare un risata in un altro
momento. Ora,
invece, è solo un rantolo straziato alle orecchie di Bagoas.
“Hanno
imparato a cacciare insieme,” continua Ptolemaios,
“hanno studiato insieme,
alla scuola del vecchio filosofo. È stato in quel periodo
che il legame tra
loro è stato forgiato. Tutti noi l’abbiamo visto
nascere, più saldo ogni
giorno, davanti agli occhi di uomini e Dei. Eravamo molto uniti, ma
loro erano…
diversi.” Si stringe di nuovo nelle spalle. “Noi
avremmo potuto esserci o meno,
e per loro non avrebbe fatto differenza.”
Bagoas
annuisce. Ricorda che Al’skandros gli ha accennato qualcosa
della scuola di
quel filosofo chiamato Aristoteles, e di un luogo caro alle ninfe che
porta il
nome di Mieza. Non gli ha detto molto in verità –
sa che i rapporti col suo
antico maestro si sono presto raffreddati dopo la partenza per
l’Asia – ma
abbastanza da comprendere la sacralità di quelle memorie.
“Hanno
vissuto insieme le prime campagne militari,” continua
Ptolemaios dopo una breve
pausa, “al fianco di Philippos, il padre di Aleksandros.
Hanno persino
complottato contro di lui.” Ride, nonostante
l’affermazione suoni oltraggiosa
alle orecchie di Bagoas.
“Oh,
Hephaistion ha tentato di dissuaderlo, è sempre stato quello
più assennato tra
i due, ma Aleksandros… non c’è nulla in
grado di fargli cambiare idea, una
volta deciso. Hephaistion non ha mai tentato di compiacerlo, non si
è mai
umiliato per ottenerne il favore. Per questo Aleksandros lo
rispettava.” Stringe
le dita attorno a una delle statuette e la solleva, rivoltandosela nel
palmo ed
esponendola alla luce flebile delle lampade.
Il
bagliore del bronzo sulla scultura ferisce gli occhi di Bagoas, che
tuttavia
non riesce a staccare lo sguardo dai lineamenti severi
dell’uomo di cui
rappresenta l’effige; ha odiato quel volto: ne ha detestato
la bellezza,
l’eleganza nei tratti, la profondità degli occhi,
la linea decisa delle labbra.
Ora, invece, vorrebbe bagnare il bronzo con le sue lacrime e col
sangue, per
riportarlo alla vita.
Ptolemaios
rimette a posto la statua, poi si volta di nuovo a guardarlo.
“Quando
arrivammo a Troia, fecero qualcosa che incise il loro legame nella
pietra
imperitura. Conosci la storia della Grande Guerra e dei suoi
eroi?”
Bagoas
annuisce in un gesto lento. Conosce la storia, sì
– il fulcro importante
quantomeno; L’Iliade è sempre stata la lettura
preferita di Al’skandros, dunque
si è sforzato di comprenderla. Gli è sembrata in
gran parte una storia di
sangue, morte e ira divina e questo l’ha lasciato interdetto.
Akhilleus
lo conosce, però – un antenato del suo Re,
guerriero feroce e indomabile, con
in sé l’icore immortale. Ptolemaios sta ancora
parlando e lui si sforza di
tornare ad ascoltarlo; sa cosa sta per arrivare ma gliel’ha
chiesto lui, e non
sarebbe onorevole fuggire via ora.
“Akhilleus
aveva un amico che gli era più caro della sua vita
stessa,” lo sente dire.
“Quando Patroklos gli fu strappato, il suo cordoglio fu pari
solo alla sua ira.
Volle infliggere la sua vendetta su colui che l’aveva ucciso,
anche se sapeva
che questo avrebbe significato la morte per lui.” Scuote la
testa, le palpebre
socchiuse come per un dolore improvviso.
“L’esistenza perde di significato
quando viene a mancare ciò che ti tiene in vita, suppongo. A
ogni modo,
Akhilleus ebbe la sua vendetta e morì com’era suo
destino. Quando attraversò lo
Stige, Patroklos era ad attenderlo dall’altra
parte.”
Ptolemaios
si allontana dal tavolo e si avvia verso le tende che schermano le
grandi
finestre squadrate. Le discosta appena, facendo filtrare una lama di
luce. Al
di là dei vetri, Bagoas riesce a scorgere le alte montagne
ammantate di bianco,
e il nero delle sette mura, stagliate come un incubo contro lo
sfolgorio del
cielo terso. Per un attimo gli occhi gli bruciano di lacrime, ma le
ricaccia in
gola senza emettere un gemito.
“A
Troia c’è un monumento che commemora i due
eroi,” continua Ptolemaios, le
palpebre socchiuse per schermarsi dalla luce. “Attraccammo
là, dopo aver
attraversato l’Ellesponto. Aleksandros
sembrava…” Si ferma a cercare parole che
paiono sfuggirgli. “Sembrava fuoco divino incarnato quando
saltò giù dalla nave
per reclamare il primo passo sul suolo dell’impero
ch’era venuto a prendersi.
Aveva in tutto e per tutto l’aspetto di un re.
Richiamò a sé Hephaistion,
davanti agli Dei e a tutto il maledetto esercito, e resero omaggio ad
Akhilleus
e a Patroklos.”
Bagoas
lo osserva richiudere la tenda; le ombre inghiottono di nuovo la sala
come un
drappo oscuro – solo le fiamme dei bracieri baluginano e
sfrigolano nel buio.
“Non
lo fecero perché erano eroi, né per il legame
ancestrale tra Akhilleus e
Aleksandros,” riprende Ptolemaios, sbattendo le palpebre.
“Lo fecero per
celebrare ciò che erano l’uno per
l’altro. Lo capisci, ragazzo? Videro un’eco
di loro stessi in quel luogo, e vollero riportare in vita la leggenda
per farla
propria.”
Ptolemaios
si volta verso di lui e lo osserva per qualche istante; sa come deve
apparirgli: una cosa piccola e debole, senza valore se non quello di un
corpo
mutilato e buono solo per affogare gli appetiti della carne. Sente di
nuovo il
groppo delle lacrime serrargli la gola, perché ora
può vedere il confronto –
riesce a figurarseli anche lui, sotto la luce sfolgorante di un ricordo
che non
gli appartiene: due purosangue forti e bellissimi che correvano
selvaggi
attorno alla piana, nella gloria del loro amore e nella perfezione del
corpo e
dell’anima.
“Questo
è ciò che erano, ragazzo,” dice
Ptolemaios, la voce severa. Non sa se lo stia
punendo, e in ogni caso è finalmente pronto a versare ogni
goccia di sangue.
“Certo,
il cordoglio di Aleksandros è profondo e sì,
può sembrare pazzia. Probabilmente
lo è. Ha perso la metà di se stesso e non
augurerei una tortura simile al mio
peggior nemico. Possiamo pregare che ne esca, per il bene di tutti noi,
ma… per
l’amore degli Dei, ragazzo, che cosa ti aspettavi
davvero?”
Bagoas
può solo restare immobile a scuotere la testa, le spalle
poggiate contro la
porta e le gambe che gli tremano, incapaci di reggerlo se non per quel
barlume
di dignità che gli rimane e che non è disposto a
lasciarsi strappare assieme al
sangue e alle lacrime.
Non
li ha mai conosciuti davvero, adesso lo sa. È stato vicino a
qualcosa di tanto
grande e non ha saputo capirlo. Invidia e amore l’hanno
accecato, ed è stato
fin troppo occupato a pensare a se stesso. Ora c’è
un prezzo da pagare e
intende onorare il suo debito fino in fondo.
Sente
la sua stessa voce fluire lieve tra le labbra, si sente dire a
Ptolemaios:
“Deve venirne fuori. Qualcuno lo deve aiutare.” Anche se non sarò io.
“Ti prego, dimmi che cosa può essere fatto,
qualunque cosa, mio Signore.”
“Ragazzo.”
La voce di Ptolemaios è un sospiro venato di tristezza e
indurito dal dolore.
“Bagoas. L’unico uomo che abbia mai potuto aiutarlo
era Hephaistion. E ora se
n’è andato. Cosa siamo noi, a confronto?”
Cosa
siamo,
pensa Bagoas mentre
volta le spalle e si allontana in silenzio nella penombra del
corridoio. Cosa siamo davvero.
Quando
le fiamme cominciano a salire, Aleksandros si avvicina alla pira; solo
e
immobile, la torcia ancora in mano e il cuore aperto e rovesciato sotto
il
cielo nero di Babilonia.
È
una sensazione strana: pensava che sarebbe stato un dolore crudo, come
ossa che
spuntano fuori dalla pelle, tutto angoli e spigoli e sangue rappreso. E
invece
non è così, non del tutto.
È
più come… cadere, e attendere di essere
afferrato, oppure di sfracellarsi sulle
rocce aguzze. Questo è il tormento – proprio qui,
proprio ora – non la caduta,
ma l’attesa. E lui le ha sempre odiate, le attese. Si
può essere una cosa o
un’altra, non galleggiare nel mezzo.
Il
buio antelucano è freddo e duro ma il fuoco lo tiene a bada;
è stato solo un bagliore
all’inizio, alto e chiaro, allungato nel cielo. E magnifico,
anche – oro e
vermiglio e bianco, attorcigliato su se stesso come un serpente.
Prometheos
l’ha rubato agli Dei, così vuole la leggenda.
Nessuno può biasimarlo per
questo; qualunque sia stato il prezzo, è valso la pena di
una tale bellezza.
Rimane
più vicino che può, il cuore che gli rimbomba nel
petto come avesse dentro un
tamburo di guerra. Ma forse è solo la pulsazione
dell’incendio, quello che ha
sempre avuto dentro e che ora ha trovato la strada per scorrergli nelle
vene
fin dentro i tessuti.
Fissa
dentro il rogo più a lungo possibile, gli occhi che
lacrimano per il fumo e per
il chiarore abbagliante del suo nucleo. Quella fiamma non
può che essere nitida
al suo interno, sapendo che cosa vi giace.
Il
fuoco crepita e ondeggia, lanciando nell’aria nugoli di
scintille; lui non si
muove neanche quando un ricciolo di cenere incandescente si attacca al
bordo
del suo mantello, facendo sfrigolare la lana prima di consumarsi.
Inclina
la testa all’indietro e chiude gli occhi contro il lucore
feroce, lasciando che
lo avvolga. Dietro le palpebre, le fiamme stanno danzando. Sente le
labbra
guizzare e sussurra poche parole a se stesso – come una
preghiera, o forse una
invocazione.
“Posso
ancora vederti.”
E
lo fa: non il corpo imbalsamato sdraiato composto al sommo della pira,
tra le
braccia di sirene e centauri di legno, avvolto nelle spire infuocate
che lo
stanno già consumando.
Lo
vede tra i cespugli di rosa canina, nel giardino di Mieza, che lo
prende per
mano e gli scompiglia i capelli; lo scorge sul suo cavallo, nella prima
battaglia, fiero e splendente e vestito di bronzo, l’elmo con
il cimiero
scarlatto e un sorriso orgoglioso; era con lui quando le vampe hanno
consumato
Tebe e quando hanno polverizzato Persepoli –
perché il fuoco c’è sempre stato,
stava solo attendendo; era al suo fianco ogni notte quando sognava le
fiamme e
si svegliava urlando, e lui gli diceva di non avere paura. Adesso il
fuoco è
ovunque ed Hephaistion è ancora qua – dietro le
palpebre e nelle fibre e nel
sangue, in ogni respiro.
Tiene
gli occhi chiusi quando la pira comincia a collassare nel crepitio del
legno
che si schianta e nello scoppio di scintille bollenti e feroci contro
la pelle.
Dietro le palpebre può percepire i primi bagliori
dell’alba, flebili squarci
grigi e argentei sfumati nell’oro.
Che
cosa vedi in me?
Può
ancora sentirla, quella domanda; gliel’aveva rivolta la notte
in cui
Hephaistion l’aveva preso tra le braccia la prima volta. Lui
l’aveva baciato
sulla fronte, e le sue labbra erano fresche come l’acqua di
una sorgente.
Davvero
me lo stai
chiedendo?
Aveva
annuito. Teso e in silenzio aveva atteso la sua risposta.
Risplendi
come il
sole, Alekos. Potrei vederti con gli occhi chiusi.
I
suoi li riapre ora, secchi e doloranti, bruciati da lacrime che non ha
saputo
versare.
Le
fiamme stanno ancora danzando ma non distoglie lo sguardo.
C’è stato un tempo
in cui il fuoco era dentro di lui – alto, chiaro e magnifico,
ed Hephaistion ne
era parte.
Ma
non nel modo in cui è parte di questo.
Eccolo
il dolore, proprio ora: come frammenti di ossa che perforano la pelle.
Ed è
tutto finito: il fuoco si sta spegnendo e non resta altro che cenere.
Ritorna
in sé lentamente, come richiamato indietro da un sogno;
può sentire i suoi
uomini dietro di lui, immobili e muti, l’intero esercito che
l’ha seguito fin
sotto quel cielo straniero in cui si è appena distesa
l’alba. Attendono un
cenno, aspettano pazienti che si volti verso di loro e sia di nuovo e
soltanto
se stesso. Ma non sa se sarà in grado di farlo.
È
una cosa strana, il coraggio; molti credono che lo si dimostri in
battaglia, ma
non è così e ora lo sa. È stato lodato
per la sua audacia, per la temerarietà
in guerra o durante la caccia. Ma nulla di ciò è
stato difficile: amava queste
cose, e non c’è valore nella passione.
Il
coraggio è ciò che ti permette di vivere in un
mondo dove quel che hai di più
caro se n’è andato; è voltare le spalle
al bagliore morente di un incendio che
s’è portato via tutto; coraggio è
allontanarsi e dire che è finita senza gettarsi
nelle fiamme.
Ma
non è del tutto esatto: non c’è valore
neanche nel continuare a vivere – niente
prodezza in questa attesa – né una cosa,
né l’altra, restando a galleggiare nel
mezzo.
La
grande pira si dissolve nella luce dell’alba e lui segue la
scia di fumo e
cenere che sale verso il cielo.
“Posso
ancora vederti, philè,”
sussurra,
prima di voltare le spalle.
Posso
ancora vederti.
Il
calore è soffocante. Aleksandros si rigira senza posa nel
suo letto, gli occhi
fissi al soffitto. La testa gli pulsa per il bollore e in bocca gli
sembra di
masticare la sabbia.
Quando
si volta e allunga un braccio per afferrare la caraffa, le coperte gli
si
appiccicano addosso, intrise di sudore. Le calcia via con un grugnito
irritato.
Babilonia
nel pieno dell’estate – e qualche idiota
d’un servo che ha pensato bene di
imbottirgli il letto con lenzuola sufficienti a coprire un reggimento.
Neanche
si ricorda di essersi coricato. Forse ha bevuto – lo fa
sempre più spesso
ultimamente. Certamente c’è stata una ragione per
farlo, ma al momento non la
ricorda.
Non
riesce a dormire ma non è neanche capace di restare sveglio.
Non del tutto
almeno – c’è un alone sfuggente attorno
alle cose, come fluttuassero in sogno. Anche
l’acqua ha un sapore strano sulla lingua, come una lama di
ferro, e si sente la
bocca asciutta persino dopo averla bevuta. È il caldo,
questo è il problema: lo
fa sentire come se qualcuno l’avesse avvolto nella lana
bagnata e poi gettato
in una fornace. Non c’è modo di potersi schiarire
la mente con un’afa del
genere.
C’è
una piscina nella sala da bagno, subito dopo i portali, alla fine di un
alto
colonnato. È mantenuta fredda da barili ricoperti di paglia
e riempiti di neve
raccolta sulle montagne e portata a palazzo. Quando l’aveva
sentito dire
l’aveva giudicata una bizzarria fuori misura, tipica
manifestazione del lusso
persiano. Adesso però, con la testa che vaga alla deriva e
il corpo fradicio di
sudore, gli sembra la cosa più vicina alla beatitudine.
Inoltre, gli servirà
per svegliarsi e liberarsi da questa fastidiosa sensazione di nuotare
nella
pece.
La
camera si inclina appena quando si mette in piedi, e lui aggrotta la
fronte
irritato, poggiando una mano alla parete fin quando
l’impressione scompare.
Cerca di ignorare il dondolio del pavimento, certo
com’è che un buon bagno farà
passare anche questo.
Piedi
e gambe sembrano accusare gli stessi problemi della testa –
se li sente fiacchi
e intorpiditi, come stessero ancora dormendo; ma la sala da bagno non
è lontana
– pochi passi e starà meglio.
Quando
la raggiunge e si immerge nella vasca, l’acqua fresca gli si
chiude attorno
come una seconda pelle. Non è abbastanza da schiarirgli la
mente ma pare almeno
lenire il calore rabbioso che ingoia il palazzo. Può ancora
sentirlo pulsare
dentro di lui, come una fiamma che lambisce il legno di una porta
chiusa, ma
l’abluzione sembra almeno tenerlo a bada.
Babilonia:
che posto maledetto. E pensare che ha creduto di poter governare il suo
impero
da questo nucleo infuocato di sabbia e argilla, perso in mezzo alle
paludi
infestate di zanzare tra i due fiumi.
L’acqua,
però, è morbida e liscia sulla pelle riarsa, e
lui si lascia galleggiare sulla
superficie senza opporre resistenza.
Non
saprebbe dire quant’è rimasto in ammollo
– abbastanza da sentire il freddo
affondare il primo morso nelle ossa; per qualche ragione,
però, non se ne cura.
È meglio del caldo – più gentile e
più dolce. Gli fa tornare in mente la
Macedonia, con quell’odore di neve nell’aria anche
in estate.
Il
gelo sa avere pietà per gli uomini – li racchiude
e li culla fino ad affondarli
in un sonno ovattato dal quale non si sveglieranno mai più.
È misericordioso,
il freddo – questo può riconoscerglielo.
Neanche
si accorge dei brividi che gli risalgono lungo la schiena, facendogli
tremare
le labbra. Quella strana sensazione di fluttuare nel vuoto è
più forte adesso,
come se il suo corpo non lo riguardasse più. Non
è sgradevole, una volta che ci
si abitua: è qualcosa di simile al lasciarsi andare una
volta per tutte.
“Alekos.”
La voce gli arriva da dietro le palpebre chiuse e sopra il battere dei
denti.
“Aleksandros. Non puoi rimanere lì dentro tutta la
notte.”
È
familiare questa voce – come il respirare.
Aleksandros
sorride mentre continua a galleggiare e andare alla deriva
nell’oscurità. Riconoscerebbe
quel timbro anche alla fine del tempo e dentro le ossa, sotto la pelle
e nelle
fibre dell’anima. Apre gli occhi e punta lo sguardo nella
direzione del suono.
Hephaistion
è seduto sul bordo più lontano della vasca, i
piedi che sfiorano il pelo
dell’acqua. Per un istante sembra avvolto da una luce
così intensa da fargli
dolere gli occhi, ma poi batte le palpebre e il bagliore sparisce.
Resta solo
Hephaistion, con addosso un semplice chitone candido e un sorriso caldo
che gli
distende le labbra.
C’è
qualcosa di strano in questo, e una parte di lui lo sa e si affanna per
metterlo in guardia, ma il pensiero evapora nel momento stesso in cui
prende
forma.
“Philè,”
gli risponde
sollevando appena
la testa, “neanche tu riesci a dormire?”
Hephaistion
si stringe nelle spalle. “Non sono stanco. E non ho bisogno
di dormire.” Tuffa
un piede nella vasca e poi lo solleva di scatto, spruzzando una
sventagliata di
gocce trasparenti. “Ora che ne dici di uscire da
lì?”
“E
perché?”
“Perché…”
Hephaistion sorride, divertito e paziente allo stesso momento.
“Perché stai
gelando. Ti vedo tremare da qua. Se ti raffreddi ancora andrai a fondo
come un
macigno. E inoltre…” Il sorriso si allarga un
po’ di più, “… non sei mai
stato
bravo a nuotare.”
“Non
quanto te. Tu nuoti come un pesce.” Aleksandros se lo ricorda
bene fin dai giorni
di Mieza, quando facevano a gara nella polla d’acqua fresca
del nymphaion. Hephaistion ha
sempre avuto
la meglio su di lui in quell’elemento, così lungo
e agile e aggraziato com’è. E
poi c’è stata quella volta nelle sale da bagno di
Menfi – bizzarro come riesca
a rammentarlo chiaramente anche adesso: Hephaistion che si avvita in un
tuffo
azzardato, il suo corpo che scivola fluido sotto la superficie, la luce
che gli
accende i capelli di riflessi bronzei quando riemerge, e poi la
sensazione
umida e morbida della sua pelle contro il petto, quando si avvicina.
Aleksandros sorride, rievocando il ricordo. A ogni modo Hephaistion ha
ragione:
sta gelando.
Non
ha idea di come sia successo, dato che stava soffocando per il caldo
solo un
momento fa. Adesso però i denti gli battono tanto forte da
rimbombargli nelle
tempie; ha il corpo attraversato dai fremiti.
Hephaistion
gli tende la mano, le labbra incurvate in un mezzo sorriso.
“Vieni
qua, Alekos. Stai diventando livido.”
Eppure
c’è davvero qualcosa di strano in tutto
ciò – qualcosa fuori posto. Si chiede
vagamente che cosa, ma è un pensiero lontano come le coperte
di lana che ha
lasciato ad appassire in camera. Si allunga verso la sua mano e lo
sente
afferrargli il polso in quella stretta familiare – calda,
forte e gentile allo
stesso tempo.
Sembra
anche reale, una parte di sé non può fare a meno
di notarlo. Gli fa venire
voglia di ridere: certo che è reale, Hephaistion
è sempre stato qui dopotutto,
come altro dovrebbe sembrargli?
In
un angolo della mente, una memoria appannata sembra risvegliarsi e
gorgogliare
appena: un muro di fuoco, alto fino al cielo, il crepitio delle fiamme
– ma poi
le labbra di Hephaistion sono sul suo collo, e lo sente mormorare:
“No, non ci
pensare,” e l’immagine evapora.
Fa
così freddo, però. La pelle sembra gridare e
volersi ritrarre a contatto con
l’aria. Come gli sarà venuto in mente di mettersi
a nuotare in una vasca gelida
nel bel mezzo della notte? C’è da ammalarsi in
questo modo, l’ha visto accadere
fin troppo spesso.
A
Ecbatana, nove mesi prima, Hephaistion si è ammalato per
molto meno.
Un
brivido più forte lo scuote a questa riflessione, e deve
stringersi nelle
braccia per calmare il tremito. Hephaistion se ne accorge e gli rivolge
di
nuovo quel suo sorriso tranquillo.
“Sciocco.
Si può sapere perché fai queste cose a te stesso?
Vieni. Lascia che ti aiuti.”
C’è
un divano basso e lungo addossato al muro, ricoperto di morbidi cuscini
di seta
e broccato. Hephaistion lo conduce lì, i piedi scalzi che
sembrano sfiorare
appena le mattonelle di maiolica azzurra, senza fare rumore. O forse
non è in
grado di sentirlo perché batte i denti troppo forte per
udire alcunché.
Si
lascia sdraiare docile sul divano, poi allunga le braccia a circondare
il collo
di Hephaistion, raccogliendosi nel suo abbraccio. Sente i muscoli
rilassarsi e
si lascia andare con gratitudine, assaporando il calore del suo corpo e
facendoselo scivolare addosso come sole che filtri nel cuore di una
pietra.
Fino a un attimo fa la sua pelle aveva
l’insensibilità e la consistenza bianca
del marmo, mentre ora pizzica e si accende dove Hephaistion la sfiora
con le
dita.
Fa
quasi male ma è un dolore chiaro e pulito, e lascia uno
strano conforto dopo
che è passato. I brividi cominciano a diminuire, dentro e
fuori di lui. Si
appoggia contro il petto di Hephaistion, zitto e attento a cogliere il
battito
lento e regolare del suo cuore, e godendo del calore delle sue mani e
del suo
respiro sulla pelle.
Qualcosa
in lui sospira e sembra muoversi, come una mano che sposti un carico
invisibile. Oh, Dei, quanto ne aveva bisogno. È questo che
gli è mancato da
quando…
Il
pensiero indugia ancora su Ecbatana, sulle sue mura dipinte di nero
– sette
nastri lucidi lasciati a sfaldarsi sotto il sole. È un
simbolo di morte e la
sua mente si ritrae di nuovo, scartando di colpo all’idea,
come un cavallo che
abbia intravisto il fuoco.
Lascia
rifluire via il ricordo, perché sembra più facile
farlo; a ogni modo, è tutto
molto distante, avvolto nella consistenza liscia e scivolosa
dell’acqua.
O
nel bozzolo caldo di un sogno.
Rabbrividisce
di nuovo, in tutto il corpo.
“Hai
ancora freddo.” Hephaistion si allunga ai piedi del divano e
tira su il suo
mantello, drappeggiandolo sopra entrambi. “Ecco.
Così va meglio.” Il mantello è
di solida e ruvida lana, tinta nella sfumatura più chiara di
porpora fenicia,
una tonalità che ricorda quella dell’ametista.
Aleksandros lo riconosce: è un
suo dono, perché Hephaistion una volta gli aveva detto di
amare quel colore. Sente
la stoffa distendersi su di lui, assieme al soffice calore racchiuso al
di
sotto. Hephaistion si accomoda meglio sul divano, traendolo vicino. Per
un
attimo Aleksandros percepisce la sua risata – una vibrazione
gentile nel petto,
come le fusa di un gatto.
“Mi
fa tornare in mente molte cose,” dice Hephaistion,
circondandolo di nuovo con
le braccia. “Da quanto tempo non condividevamo un mantello?
Cinque anni? O sono
dieci?” Ancora quella risata soffice, impalpabile come piume
sulla pelle. “Te
la ricordi quella vecchia pelliccia di lupo che avevamo a
Mieza?”
“Sì.”
Aleksandros percepisce la sua stessa voce arrivargli da lontano.
“Ricordo
tutto.”
Ed
è così: si erano baciati per la prima volta sotto
quella pelliccia, ed
esplorati al buio, solo con il tocco delle dita, nelle lunghe notti
della loro
giovinezza.
Adesso
sarebbe soltanto uno straccio, per quanto meravigliosa fosse sembrata
allora,
ma conserva ancora un alito di magia nel modo in cui Hephaistion la
rievoca.
Ha
avuto così freddo negli ultimi tempi. Tanto freddo. E nei
templi, tutti i
fuochi sono stati spenti.
Lo
sente di nuovo: quel senso di stranezza e di distanza, come se la
realtà si
srotolasse in una lingua invisibile dietro di lui, senza memorie
né
conseguenze. Potrebbe persino essere un sogno, se solo non apparisse
tanto
reale. Glielo domanda comunque.
“Hephaistion?
Sto sognando?”
Lui
gli risponde con una risata bassa e una stretta più forte
delle braccia in cui
lo racchiude. “Tu sogni sempre. Sei un sognatore incallito.
È il tuo difetto
peggiore.”
“Sì,
ma ora…”
“Aleksandros,
qual è il problema?” Anche la voce è
più bassa. “Ti sembra un sogno?” Gli
poggia un bacio sulla spalla; niente è più reale
di questo – più vivo della
mano che scende tra le sue gambe a sfiorarlo là
dov’è più uomo.
Aleksandros
geme piano e si muove a quel tocco. “No,” dice. Poi
ripensa a quella sensazione
di galleggiare, e al modo in cui i ricordi sembrano sfilacciarsi e
riannodarsi
in grovigli dolorosi, e serra le palpebre. “Sì,
invece.”
Hephaistion
si ferma un istante, poi lo bacia ancora sul collo. “Beh,
almeno è bel sogno.”
Ad
Aleksandros pare di avvertire una sfumatura triste nella sua voce.
“L’ho
sognato altre volte,” continua, e fatica a ritrovare le
parole sul fondo della
gola. “Ho sognato di te. Eri malato, e poi sei
morto.” Il petto si espande e si
rapprende, trattenendo un sospiro che per un attimo sembra squassarlo.
“Ho
sognato che te n’eri andato. Ed era così reale che
temevo non mi sarei più
svegliato.” Un pausa, un sospiro più forte.
“Reale come adesso.”
“I
sogni possono sembrare veri, talvolta,” dice Hephaistion in
tono tranquillo,
“ma restano solo sogni.”
Aleksandros
si sofferma a pensarci. C’è ancora quel tepore
sulla sua schiena, quel tocco
gentile e distratto tra le gambe – e il desiderio doloroso
che gli accende. Reale. Ed
è tutto il rifugio dal freddo
di cui aveva bisogno.
Ci
sono ricordi talmente vivi dentro, che lasciano un vuoto incolmabile;
ma ora
questa voragine scavata nell’anima è di nuovo
ricolma, e trabocca di luce e
calore.
“Tu
non…” Incespica di nuovo sulle parole,
sentendosele scivolare sulla lingua
impastata. “Non mi hai lasciato.”
“Per
le palle di Erakles!” Hephaistion lo strattona di colpo,
facendogli battere i
denti. “Come ti viene in mente? Certo che non ti ho lasciato,
Alekos. Non lo
farò mai. Sono qui, no?”
Sembra
di sì; non c’è modo di negarlo, pensa
Aleksandros. E si chiede perché mai
dovrebbe farlo. Scocca un’occhiata a Hephaistion e gli
rivolge un ghigno
improvviso, scoprendo i denti in un sorriso.
“Provamelo.”
“Mi
stai sfidando?”
“Oh,”
dice Aleksandros, inarcandosi verso la mano che gli scivola lenta tra
le cosce.
“Direi di sì.”
“Bene.”
Hephaistion sorride a sua volta, poi si lascia andare a un grugnito che
è tutto
fame, e desiderio. “Lascia che te lo provi, allora.”
Non
dura a lungo. Hephaistion ha sempre saputo il fatto suo e Aleksandros
non è
incline a volergli resistere. Per qualche momento non
c’è altro che il calore
umido della sua bocca sul collo e quel languore delizioso sulla carne
sotto il
suo palmo. Poi Hephaistion fa qualcosa con le dita – un
affondo rapido e
sapiente dei polpastrelli e un guizzo del polso – e lui sente
il suo corpo
raccogliersi e poi espandersi, mentre la bocca si allarga in un grido.
“Per
gli Dei, Alekos. Quanto ti amo.”
Aleksandros
si tende tra le sue mani, gli occhi pieni di lacrime. Quel sussurro
è tutto ciò
che riesce a sentire prima che qualcosa si spezzi dentro di lui, e lo
precipiti
di nuovo a testa bassa nell’oscurità densa e
soffocante dietro le palpebre.
Lo
ritrovano solo il mattino seguente, addormentato sopra il divano basso
e lungo
nella sala da bagno. Non si sveglia neanche quando lo chiamano per
nome, mentre
il suo petto si alza e si contrae in rantoli secchi e rumorosi. La
febbre è più
bassa che nei giorni passati – o forse è solo
l’aria fredda nella stanza,
l’alito gelido che si solleva dall’acqua e gli fa
increspare la pelle.
I
medici si scambiano occhiate nervose, le espressioni eloquenti
– qualcuno
azzarda che dovrebbero lasciarlo dov’è, se
è ciò che desidera. Non c’è
più
nulla che possa essere fatto, e in ogni caso non sarà ancora
per molto.
Bagoas,
che si è risvegliato in una nube di panico quando non
l’ha trovato, si fa da
parte per lasciarli passare. I suoi sogni sono stati bizzarri questa
notte. Crede
di aver sentito Al’skandros parlare con qualcuno, e un paio
di volte ha
pronunciato il nome di Hephaistion. Non è strano di per
sé – il delirio e la
febbre gli hanno giocato più volte questi scherzi, per non
parlare di quel
cordoglio selvaggio che ha continuato a farlo a pezzi per mesi,
succhiandogli
via la vita.
Quel
che è strano – ciò che l’ha
fatto risvegliare sudando freddo nel suo giaciglio,
ai piedi del letto di Al’skandros
– è
che non aveva mai sentito nessuno rispondergli; eppure è
certo di aver udito
una voce, poche parole scandite nell’aria ferma e impregnata
di calore: Non ti ho lasciato. Non lo
farò mai.
La
voce di Hephaistion – ecco cos’era; chiara come il
giorno sebbene di quell’uomo
non rimangano altro che ceneri e ricordi, bruciati e polverizzati sotto
il
cielo di Babilonia.
Osserva
Aleksandros allungarsi sul divano e mormorare qualcosa che sembra in
parte
sospiro, in parte singhiozzo. Affonda una pezza dentro il bacile, la
strizza e
poi l’appoggia sulla fronte del suo Re. Per un attimo questo
pare quietarlo; il
suo respiro si placa, resta solo il rantolo basso che gli risale dal
petto fino
alle labbra socchiuse.
I
medici gli hanno detto di limitarsi ad accudirlo, e di pregare. Bagoas
fa
entrambe le cose, al meglio che può.
I
suoi occhi vengono attratti dal pezzo di stoffa che ricopre il corpo
del Re.
Gli è stranamente familiare, e del tutto fuori posto.
Conosce a memoria ogni
oggetto posseduto da Al’skandros, e questo non rientra tra i
suoi averi. Non è
neanche una coperta ma un lungo mantello di lana, tinto nella porpora
chiara di
Tiro.
Il
mantello di Hephaistion.
Bagoas
rimane a fissarlo a lungo, poi distoglie lo sguardo.
Non
ti ho lasciato.
Non lo farò mai.
Ovunque
sia, non dovrà attendere a lungo.
Fine
Note:
1)
Ecbatana è un’antica città della media
(l’odierna Hamadan, nel nord dell’Iran),
edificata da Astiage, e poi conquistata da Ciro il Grande al tempo del
dominio
persiano. Fu proprio Astiage a far innalzare le sette mura per cui la
città era
famosa, ciascuna di un colore diverso per le gemme e i fregi di cui
erano
decorate. Ecbatana era una delle cinque capitali dell’impero
persiano (assieme
a Susa, Persepoli, Babilonia, Pasargade) e fu eletta dagli imperatori
achemenidi come residenza estiva, data la vicinanza delle montagne.
Nel
324 a.c., sulla strada di ritorno dalla lunghissima campagna che aveva
portato
Alessandro e il suo esercito a conquistare la gran parte del mondo
conosciuto e
a essere alla testa di un impero che si estendeva dai confini della
Grecia fino
all’India, Efestione
si ammalerà proprio
a Ecbatana, e morirà improvvisamente in pochi giorni
– poco più che trentenne.
Tutte
le fonti storiche sono concordi nel riportare che Alessandro fu
letteralmente
devastato dal dolore.
Giacque
sul corpo dell’amico per quasi un giorno e una notte, fin
quando non ne fu
tratto via a forza dai suoi compagni, poi rimase rinchiuso nella sua
stanza per
giorni, senza bere né mangiare, incapace di fare altro che
lamentarsi e
dormire.
Quando
tornò in sé, fu per dare il via a una bizzarra
– all’epoca fu creduto pazzo –
forma di compianto. Aveva già dato ordine di impiccare il
medico che, invece di
rimanere con Efestione, se n’era andato a vedere i Giochi
indetti per
festeggiare l’arrivo in città; si
tagliò i capelli (come Achille aveva fatto
per Patroclo) e fece fare lo stesso con le criniere di tutti i cavalli;
fece
spegnere tutti i fuochi nei templi (un privilegio riservato solo alla
morte del
Re e che fu infatti interpretato come cattivo auspicio) e ricoprire le
sette mura
di Ecbatana con vernice nera.
Il
tempio di Esculapio, patrono della salute, fu fatto radere al suolo, ed
egli
stesso si imbarcò in una guerra lampo contro la
tribù dei Cossei, per offrire i
morti in sacrificio all’ombra
dell’
amico, nella sua discesa verso l’Ade.
Ordinò
che il reggimento di Efestione portasse il suo nome ad
perpetuum e che tutti gli accordi commerciali fossero
firmati in
suo nome.
L’azione
più folle, e anche la più disperata, fu
l’invio di un’ambasciata diretta
all’oracolo dell’oasi di Siwa, nel deserto libico,
dove Alessandro stesso, anni
prima, era stato riconosciuto come figlio di Zeus-Ammon,
affinché anche a
Efestione fosse riconosciuto lo status divino
Questo
era molto più di un semplice
“riconoscimento” per il morto.
Secondo
i greci, solo le anime degli eroi o degli Dei erano ammesse
nell’Elysium,
mentre ai comuni mortali era riservata un’esistenza
inferiore, nell’Ade.
In
quale modo poteva l’anima deificata del figlio di Zeus-Ammon
essere riunita
all’anima mortale di Efestione, figlio di Amintore, se non
riconoscendo anche a
lui uno status superiore?
A
ogni modo, a Efestione non fu concessa la divinità, ma fu
comunque permesso che
venisse adorato come eroe divino, permettendogli così
l’accesso all’Elysium.
Il
funerale si svolse a Babilonia, e la pira funebre che Alessandro fece
costruire
fu ricordata come il monumento funebre più colossale
dell’antichità, nel quale
spese una somma esorbitante per l’epoca.
Il
suo comportamento, che egli ne fosse consapevole o meno, divenne sempre
più
autodistruttivo: beveva spropositatamente, e continuò a
farlo anche quando si
ammalò, nove mesi dopo la morte di Efestione, mentre si
trovava ancora a
Babilonia.
Rifiutò
ostinatamente di essere visto da alcun medico e la malattia lo
consumò in dieci
giorni, nonostante anni e anni di campagne al limite
dell’immaginabile avessero
dimostrato la tempra di cui era fatto.
Quando
morì aveva trentatré anni.
2)
Bagoa era un giovane eunuco persiano di straordinaria bellezza, un
tempo
favorito dell’ultimo imperatore achemenide Dario, e poi
entrato a far parte del
seguito di Alessandro dopo la morte del suo padrone. Le fonti riportano
che ben
presto divenne favorito anche di Alessandro, e il legame
durò negli anni;
Plutarco racconta che, dopo l’attraversamento del deserto
della Gedrosia,
vennero indetti dei festeggiamenti e Bagoa vinse una gara di danza a
cui anche
Alessandro era presente. L’esercito, che era a conoscenza del
loro legame,
incitò il Re affinché baciasse il giovane eunuco
alla presenza di tutti, cosa che
Alessandro fece platealmente, confermando così che il
rapporto era ancora ben
saldo.
Il
nome Al’skandros col quale Bagoa chiama Alessandro in questo
racconto, è una
persianizzazione del nome Aleksandros, che veniva usato in alternanza
col più
diffuso Iskandar.
3)
Tolomeo era il figlio di uno degli uomini di fiducia di Filippo (padre
di
Alessandro), e poi compagno di Alessandro fin dalla tenera
età, nonostante
fosse di qualche anno più grande. Divenne uno dei suoi
generali più fidati e fu
indubbiamente uno dei Diadochi (i
successori) più potenti; a lui andò la satrapia
dell’Egitto, di cui divenne
faraone. Sotto di lui la nazione prosperò, e Alessandria
divenne il centro più
importante di tutto il medio oriente antico, ospitando la famosa
biblioteca per
la quale ancora oggi la città è famosa.
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