Attenzione: la presente storia
ha come protagonisti personaggi realmente esistenti ed altri di
fantasia. Non c'è alcuna presunzione di
veridicità / verosimiglianza. Non s'intende offendere
nessuno. Nessun diritto legalmente tutelato s'intende leso.
“La differenza tra un
uomo ed una donna nel gesto creativo è la seguente:
c’è sempre una donna che
chiude a chiave la porta affinché il genio maschile possa
esprimersi; lo separa
dal mondo, risolve tutto per lui in modo che possa rimanere concentrato
e puro,
tiene alla larga gli intrusi e le quisquilie quotidiane e provvede a
tutto
dall’esterno cosicché all’interno lo
spazio possa irradiare solo la sua luce. A
una donna, Emilia cara, nessuno fa il favore di chiudere la
porta.”
“L’albergo
delle donne tristi”
Marcela Serrano
HELENA
Come
il nome di una canzone, come il nome di una divinità. Aveva
sempre pensato che
nel suo nome ci fosse qualcosa di speciale.
Nel
suo nome.
Non
nella sua vita.
E
del resto così era stato. La sua vita si era svolta con la
consuetudine un po’
annoiata che è propria della medio borghesia occidentale.
Anche se lei di
occidentale aveva un padre – tedesco – ed
un’educazione un po’ retrò, che non
era bastata a soffocare lo spirito di libertà ostinato e
saccente che si tirava
appresso fin dall’infanzia.
Per
il resto aveva preso da sua madre. Occhi, capelli, altezza da bambola
di
porcellana, figura minuta e pelle color caramello. Nulla di strano se
suo
padre, da altrettanto annoiato cittadino mittel-europeo, si era
lasciato
conquistare dalla grazia esotica di una ragazzina giovane e ben
cresciuta -allevata
come bestia da matrimonio da un principe orientale che di ricco portava
ormai
solo il nome – in un safari al contrario, dove lui
– fotografo e cacciatore –
si era ritrovato improvvisamente preda di una trappola fabbricata in
sguardi,
ammiccamenti e profumi stordenti. Ci erano voluti vari anni
perché il Vietnam
smettesse di esercitare su di lui il fascino che aveva giustificato
l’attardarsi lì nel compito sopravvalutato di
prendere moglie e dare vita ad
una bambina. Lei.
E
seppure fosse ancora infinitamente piccola quando quello stesso Vietnam
era
sfilato via con il suo continente asiatico da sotto un aereo sospeso a
mezz’aria sui suoi sogni di bimba, appunto, ad Helena
sembrava di poter
rievocare l’intero viaggio come se fosse
un’illusione rimastale attaccata
addosso. Chiudeva gli occhi e tornava a sentire gli odori di quando era
lì, le
pareva di tornare a riposare sotto i rami carichi di fiori nel giardino
dei
suoi nonni, e rivedeva la madre, come non era mai più stata
dopo l’arrivo in
Germania.
Non
che poi in Germania ci fosse rimasta più a lungo. Ci aveva
trascorso l’infanzia
per quel che le rimaneva e poi l’intera adolescenza, ma
quando l’aveva lasciata
per trasferirsi in Inghilterra, lo aveva fatto completamente e
totalmente, fino
a rimuovere dalla testa anche i residui di ricordi. Come non era
riuscita a
fare con il Vietnam.
Ma
a parte quelle due perdite – l’una delle proprie
radici e l’altra dei propri
ricordi – la vita di Helena si era sempre svolta nel modo
usuale che le si
confaceva e che nessuno aveva mai dubitato avrebbe avuto.
In
questo quadro – astratto – di convenzioni sociali,
Brian non era stato davvero
un elemento di rottura. Puoi anche essere la donna di un cantante rock
ma
questo non vale sul serio a modificare la tua essenza, soprattutto
quando
l’immagine pubblica del tuo compagno e la sua vita vera non
coincidono affatto,
e lei aveva imparato in fretta che non coincidono quasi mai. Era certa,
del
resto, che in caso contrario la storia tra loro due non sarebbe neppure
cominciata, ogni intesa che potesse essere respirata si era fondata fin
dal
principio sull’esatta comunanza di un’idea e di un
modo di essere che affondava
le radici nel comune bagaglio formativo. Ed entrambi, in qualche modo,
erano
dei fuggiaschi.
Nata
nel giorno dell’amore, sussurrava suo padre guardandola, e
gli brillavano gli
occhi per la commozione che doveva trattenere in un sorriso. Brian non
le aveva
mai detto niente di altrettanto romantico, la loro
complicità era più solida
delle frasi d’amore e dell’adorazione cieca, era
fatta di comprensione
silenziosa e di un tacito accordo per sostenersi a vicenda. Entrambi
portavano
sul corpo le ferite della propria vita, le avevano riconosciute
nell’altro ma
non si erano offerti in uno slancio poetico per sanarle, avevano scelto
più
scientemente di portarne il peso in due, perché
già sopravvivere in alcun casi
è doloroso e ricominciare a vivere può ucciderti.
Loro erano dei sopravvissuti,
appunto. A se stessi, fondamentalmente, alla volontà di
rompere con qualcosa
che era rimasto invariabilmente attaccato alle ossa, quando la pelle
era stata
strappata via a forza. Avevano dovuto aspettare che le ferite si
richiudessero,
che la carne tornasse a coprirle di una patina protettiva, ed avevano
dovuto
imparare a convivere con la cicatrice che restava.
Per
questo si erano guardati e si erano capiti. Prima
nell’esitazione ferita e
dolorante di un’adolescenza fuori tempo massimo, di quelle
trascinate nel moto
di ribellione, di fuga oltre i tempi, e poi nel lento ristabilirsi di
una
monotonia più famigliare, simile a quella stessa a cui
avevano tentato di
scappare ma che ostinatamente tentavano assieme di riempire di un
contenuto
differente.
Mentre
ripensava al proprio nome, Helena si diceva che nella sua vita non
c’era mai
stato qualcosa di davvero speciale a parte quello.
***
E
mentre lo pensava osservava il tavolo apparecchiato di bianco, la
colazione
sistemata come se fosse un’esposizione di fiori freschi,
quasi a contrasto di
colore. Era bella: la filigrana dei ricami sugli orli, il sole che
scendendo
tra le persiane aperte si fermava proprio intorno alle stoviglie
altrettanto
bianche, di porcellana senza decori. Le aveva scelte Brian a Parigi e
se l’era
fatte mandare lì, a Londra, mentre erano via, la cameriera
le aveva
spacchettate e lavate e poi sistemate - come
si sistemano le composizioni di fiori - sulla tovaglia bianca
della prima
colazione.
Helena
scosse la testa, domandandosi pigramente se il divagare a quel modo
nelle
riflessioni fosse una conseguenza inevitabile della
maternità. Man mano che la
gravidanza avanzava il suo corpo e la sua mente si intorpidivano
ugualmente e
lei si ritrovava soffocata nelle pieghe dei propri pensieri come in un
mucchio
di bambagia soffice.
Una
sensazione che non provava da molti anni.
Posò
le mani sulla pancia, in un gesto istintivo che le veniva sempre
più naturale
negli ultimi tempi, e sollevò gli occhi per distoglierli
dalla trama del
tessuto e riportarli sull’uomo seduto di fronte a lei ed
intento a parlare al
telefono con qualcuno. Brian non ricambiò il suo sguardo ed
Helena rimase ferma
ed in silenzio ad osservarlo, trovandolo un soggetto più
interessante per le
proprie divagazioni che non la combinazione di marmellata e the che la
tavola
ospitava. Sbuffò un sorriso a quell’accostamento,
seppellendolo fra le dita
della mano che si premette sulla bocca. Lui la sentì
comunque e si voltò,
distogliendo per un istante l’attenzione dalle parole della
persona oltre l’apparecchio
e riportandola su di lei, per guardarla con una domanda discreta negli
occhi
cangianti. Helena scosse la testa e non rispose.
Brian
salutò il qualcuno in modo spiccio, segno che si trattava di
una chiamata di
lavoro, riattaccò e lasciò il cellulare accanto a
sé, tra la tazza semivuota ed
un piatto ancora ingombro.
-Scusami.-
si giustificò brevemente per quella mancanza di educazione,
ma non fornì nessun
chiarimento ed Helena non ne pretese.
-Figurati.-
mormorò invece, quieta.
-Hai
da fare, oggi?- s’informò lui riprendendo da dove
era stato interrotto.
Helena
lo guardò, studiando per un momento il movimento che faceva
la mano di Brian
nell’abbassarsi fino al piatto, afferrare il coltello e
raccoglierlo tra due
dita per imburrare il pane tostato…
-Veramente
sì.- rispose scuotendosi ancora. Si mise dritta sulla sedia,
nascondendo in una
smorfia la fitta leggera che avvertì alla base della schiena
nel riportarla in
asse. Quando tornò a guardarlo, il suo compagno la stava
scrutando con
apprensione, probabilmente consapevole di quel dolore improvviso. Gli
sorrise
per rassicurarlo.- Ho un pranzo di lavoro, con un editore che vorrebbe
un
servizio fotografico per una rivista. E poi c’è
Alex che mi ha chiamata…Credevo
te lo avesse detto.- cambiò bruscamente direzione- Mi ha
chiesto se mi andava
di uscire un po’ con lei. Per fare un giro tra donne, sai.-
ridacchiò.
Brian
ricambiò il sorriso, riprendendo ad imburrare il pane.
-Non
dovresti strapazzarti troppo.- consigliò pacatamente.
Helena
allungò il braccio attraverso la tavola, posò le
dita piccole e magre, nervose,
sul polso di Brian e, quando lui tornò a guardarla,
scrollò le spalle
incoraggiante.
-Prometto
che se mi stanco torno subito a casa.- asserì lenta.- E
comunque prometto che
non farò più tardi delle cinque. Dovrei anche
occuparmi del sito…
-Tutto
questo tempo?!- sbuffò lui insoddisfatto, lasciando cadere
l’ultima notazione
della donna.
Helena
rise apertamente stavolta.
-Tu
non ci sarai tutto il giorno!- gli fece notare.- Cosa ti cambia se io
sto qui o
vado fuori?
-Mi
cambia che sono in pensiero.- ammise lui.
Lei
non disse nulla. I suoi occhi indugiarono sulla piega del polsino della
camicia, scostò la stoffa con delicatezza, insinuandovi
sotto le falangi per
assaporare la consistenza della carne. Ogni volta che era a casa e
stava bene,
Brian riportava a galla quella sua tendenza ad ingrassare e mettere su
pancetta! Alex lo trovava disdicevole, in previsione
dell’uscita del nuovo
disco aveva già annunciato all’uomo che sarebbe
stato sequestrato e condannato
a mesi di palestra forzata, Brian aveva accolto la notizia con lo
stoicismo di
un condannato a morte, arrendendosi all’evidenza di non
potersi evitare di
scontare quella pena. Ad Helena, in realtà, non spiaceva
particolarmente quel
suo “lasciarsi andare”, la naturale propensione di
Brian a sembrare un bambino in
barba ai suoi quasi
trentacinque anni si lasciava coccolare dal sorriso sereno sulle sue
guance
pienotte e lui finiva per sembrare irriducibilmente
“piccolo”, più di quanto
non fosse, e questo lo autorizzava a concedersi con più
serenità a quegli
stessi sorrisi aperti e sinceri.
Si
domandò se invecchiare assieme significasse anche questo,
cominciare pian piano
ad accettare i cambiamenti ed imparare a riconoscerli ancora prima che
si
verificassero. A volte, quando lui tornava dopo mesi in tour in giro
per
l’Europa, lei faceva fatica a ricordarsi chi fosse, la notte
rimaneva sveglia,
seduta nel letto, e lo fissava mentre dormiva come se dovesse
reimparare il suo
profilo, l’odore, il sapore…
-Devo
andare.- annunciò in un sospiro impaziente Brian, gettando
un’occhiata di
malcelato fastidio all’orologio appeso all’altro
polso.
Helena
si rimise dritta, liberandolo e dandogli modo di scostare la sedia e
tirarsi in
piedi.
-Allora,
prometti che non ti stancherai?- pretese ancora, piegandosi su di lei
per
sfiorarle le labbra con le proprie.
Helena
si lasciò strappare un sorriso ed un cenno di assenso,
osservandolo poi mentre
spariva oltre la soglia del salotto. La voce di Maruja rincorse i passi
di
Brian fino all’ingresso e fu l’ultima cosa che
accompagnò il rumore della porta
quando si chiuse dietro di lui.
Helena
respirò a fondo e si alzò.
***
“Dovrei
davvero trovare
il tempo per sistemare quel sito”.
Il
pensiero si arrotolava su se stesso in una spirale pigra, mentre lei
picchiettava sull’agenda aperta con una penna e fissava il
numero di telefono
che aveva annotato velocemente e che era di Oscar, il tecnico
informatico indicatole
da Alex a quello scopo.
Si
erano già incontrati una volta, Oscar era un
“ragazzino” – aveva
appena ventitre anni – l’aveva osservata
con una tale, palese
ammirazione da farla sentire stupida ed incredibilmente giovane,
nonostante la
pancia gonfia e le caviglie enormi che le facevano male e la
obbligavano a sentirsi
sempre in bilico sui tacchi “da signora”.
Imbarazzata aveva ripreso rapida il
controllo di sé, sedendo dall’altro lato di un
tavolo analogo a quello che
occupava adesso e spiegando ad Oscar quello che aveva in mente per
ristrutturare il proprio sito internet. Lui aveva annuito compiaciuto
man mano
che lei andava avanti nell’illustrazione e poi aveva
cominciato ad intervenire,
con sempre maggior insistenza, finché quel primo sguardo
carico di desiderio
era sfumato in un più ragionevole incontro professionale.
Un
po’ ci era rimasta male.
Alla
fine aveva optato per una comoda via di mezzo ed aveva dignitosamente
concesso
al ragazzino di lusingare la sua vanità rivolgendolesi con
un “tu” informale.
Da
allora erano passate più di tre settimane, Helena
sospirò fissando lo scorrere
dei giorni sotto le dita via via che faceva scivolare avanti il tempo
con le
pagine dell’agenda, era stata presa da tutta una serie di
impegni più
pressanti, ma a fare i conti nessuno di questi aveva davvero a che
vedere con
lei ed il suo lavoro. Visite mediche, pranzi e cene con Brian, viaggi
all’estero per accompagnarlo da qualche parte quando doveva
stare fuori per due
o tre giorni… “Hai qualcosa da fare?”,
chiedeva invariabilmente lui prima di
dare ad Alex l’assenso per prenotare i voli, lei scorreva le
pagine come in
quel momento e si rendeva conto che no, non c’era nulla che
non potesse
aspettare ancora un po’.
-La Sig.ra Berg?-
chiese
educatamente una voce discreta e calda.
Sollevò
lo sguardo dagli occhi allungati, soppesando un momento
l’uomo e la mano che
lui le porgeva con un sorriso invitante. Posò la penna sul
taccuino ed allungò
le proprie dita mentre lui le chiedeva affrettatamente “di
non alzarsi, per
favore”. Accettò di buon grado, l’uomo
sedette dall’altro lato del tavolo
apparecchiato e lei tornò a rilassarsi contro lo schienale
imbottito della
poltroncina che occupava.
-Sono
Malcom Mayers.- si presentò compitamente. Helena
annuì per far capire che
sapeva di cosa stavano parlando.- Sono molto felice che abbia accettato
di
incontrarmi, il Sig. Nadav Kander mi aveva accennato alla
possibilità che fosse
impegnata in questo periodo quando mi ha dato il suo nominativo.
-E’
stato Nadav Kander a darle il mio nome?- realizzò lei,
vagamente sorpresa.
-Sì.-
rispose l’uomo- Avevo chiesto a lui di realizzare questo
lavoro, ma mi ha detto
di non poterlo fare; così mi ha indicato lei, dicendomi che
avevate già
lavorato assieme per la realizzazione dell’artwork
dell’album “Once more with
feelings”…
-Sì.-
lo interruppe lei, lievemente infastidita dalla piega della discussione.
Non
avrebbe saputo dire se Malcom Mayers avesse recepito il fastidio nella
sua
voce, ma esitò un momento, squadrandola da sopra le mani
incrociate sul tavolo,
gomiti ai lati del corpo, prima di riprendere lentamente.
-Ho
avuto modo di prendere visione dei suoi lavori personali, Sig.ra Berg,
e sono
rimasto favorevolmente colpito. Mi è sembrata
un’ottima soluzione poter
incaricare lei.
-La
ringrazio.- tagliò corto Helena, di nuovo.
Quei
modi quasi bruschi li aveva imparati da Brian, si rese conto
all’improvviso,
lui aveva l’abitudine di ridurre al minimo le discussioni
quando prendevano una
piega che non lo interessava o che lo infastidiva, come per lei in quel
momento. Lo aveva visto spesso in azione: per Brian lavoro e vita
privata erano
sempre state due cose talmente distinte – e si sforzava per
tenerle tali a
qualsiasi costo – che qualunque accenno dell’uno
all’interno dell’altra, e
viceversa, veniva violentemente riportato entro i giusti confini.
Così che le era
capitato di essere partecipe di discussioni di lavoro anche in ambiti
che con
il lavoro non avrebbero dovuto avere a che fare ed in tali occasioni
aveva
assorbito da Brian gli atteggiamenti decisionisti ed autoritari con cui
amministrava la sfera professionale.
Se
non avesse saputo anche delle serate passate al piano o alla scrivania,
chino
sui fogli, sui tasti o semplicemente immobile a fissare le proprie
idee, avrebbe
pensato che Brian fosse davvero solo questo: un professionista
dell’arte. Un
concetto alieno ed impossibile, che lei stessa, avendo assaporato sulla
pelle
il senso profondo dell’idea artistica,
percepiva come orribile anche solo da concepire. Ma la
verità era che,
semplicemente, Brian teneva la sua sfera personale, il suo
“io” più autentico,
distaccato da tutto, preservato ed irraggiungibile. Non permetteva che
fosse
toccato, così che nemmeno la sua musica potesse essere
toccata. Quando era in
studio con gli altri a realizzare quello che aveva ideato in luoghi e
tempi
diversi, ciò che mostrava e che veniva maneggiato era
già qualcosa di
profondamente differente dal sentimento iniziale. Quelle sensazioni
rimanevano
attaccate alla canzone ed al suo testo, rimanevano attaccate alla pelle
di
Brian ed ai suoi muscoli, ma nessuno poteva davvero toccarli ed
afferrarli. Gli
altri potevano solo lavorare con lui sul contenitore.
Helena
sapeva che era l’unico modo che Brian avesse di difendersi.
All’inizio non lo
faceva, all’inizio la sua passione e l’ambizione si
contendevano il terreno
combattendo alla pari.
Ed
all’inizio era un disastro.
Ma
a quel punto l’inizio era
un capitolo
chiuso. Sepolto sotto pagine di gossip, scandali ed
un’immagine che andava
bene, perché era ancora valida, anche se era ancor di
più una maschera.
S’impose
di respirare a fondo, di mettere via quella ritrosia che non le era mai
appartenuta. Respirò, quindi, e fissò
l’uomo mentre esponeva brevemente la
propria idea per quel lavoro, ascoltò, concentrandosi sulle
parole perché la tenevano
lontana dai pensieri. Ci stava affogando nei propri pensieri, in quei
giorni,
prendersi una pausa una volta tanto le era quasi gradito. Quindi si
riempì la
testa della parole di Malcom Mayers e ad un certo punto del pranzo e
del
discorso cominciarono a darsi del “tu” e chiamarsi
per nome, segno che si era
arrivati ad un accordo e che il lavoro sarebbe proseguito insieme, si
adeguò al
cambio di registro con la stessa disinvoltura educata del suo
interlocutore,
assaporò gli assestamenti sottili che si verificarono nel
rapporto – sapeva che
ci sarebbero state nuove “scosse” prima che questo
si fosse concluso. Alla fine
di quelle due ore si alzò dalla tavola con un sorriso che
ricambiava quello
dell’uomo dall’altro lato, una stretta educata
della mano, la cortesia attenta
di una persona piacevole ed a modo, che l’aiutò a
scostare la sedia ed uscire
nei corridoi tra i tavoli.
Lui
le chiamò anche un taxi, le aprì la portiera e si
assicurò che ripartisse prima
di sparire sullo sfondo grigio e pesante di Londra. Helena si
rilassò contro lo
schienale di pelle, respirò ancora – e stavolta
solo per prendere fiato – guardò
fuori mentre la città sfilava via e poi il cellulare
suonò.
-Brian?
-Ciao.
Cosa stai facendo?- salutò lui precipitosamente.
Lei
sorrise intenerita, era talmente evidente l’apprensione nella
sua voce che, per
quanto Brian fosse sempre stato bravo a tenere a freno le proprie
emozioni, se
ne sentì quasi investita. Come se lui avesse voluto
abbracciarla con una
domanda e tenerla al caldo ed al sicuro nel farlo.
-Ho
finito adesso di pranzare con Malcom Mayers.- gli rispose
-…Mayers?-
ripeté lui.
-Sì,
lo conosci.- confermò Helena.- Vi ha intervistati almeno un
paio di volte.
Brian
mandò un mugolio di assenso, Helena se lo
immaginò mentre vagava fuori dagli
studi di registrazione, accendendosi una sigaretta ed aspettando il
resto delle
informazioni.
-Adesso
vado all’appuntamento con Alex. Ha detto che si sente in
colpa per non aver
ancora comprato nulla per il bambino, per cui credo che gireremo negozi
per la
prima infanzia per tutto il pomeriggio.- annunciò pacata,
posando come sempre
la mano sulla pancia gonfia.
-Sì.-
acconsentì ancora lui.
-Voi?-
s’informò Helena a quel punto.
Brian
rise amaramente; lei aveva sempre saputo riconoscere ogni sfumatura del
suo
tono.
-Ci
siamo resi conto che un paio di arrangiamenti vanno rifatti, dovremo
registrare
di nuovo e Steve è inferocito e dice che così
come sono gli fanno schifo e che
non li farà. Non riusciamo a metterci d’accordo.-
concluse con un sospiro lento
e stanco.- Farò tardi, stasera.- le annunciò alla
fine.
-Vuoi
che vi mandi Alex?- rise lieve Helena tentando di suonare abbastanza
serena da
trasmettere anche a lui quella sensazione.
-Per
carità di Dio, Helena!- sbottò Brian fingendosi
scandalizzato dalla sola idea.-
L’ultima cosa che mi serve è che Alex venga qui ad
esaurirsi assieme a noi!-
affermò.-Io torno dentro.- le disse poi in tono dolce.
-Sì,
a dopo.- lo salutò anche lei, chiudendo la comunicazione
mentre il taxi arrivava
a destinazione.
***
-E
questa cosa di Steve sta stressando tutti, te lo giuro! Non credo che
riusciremo mai a vedere la fine di queste registrazioni, fidati. Come
minimo
lui e Brian arriveranno alle mani prima e…
Alex
si fermò di colpo, forse rendendosi conto che erano diversi
minuti che parlava
da sola, senza prendere fiato e senza dare spazio a quella che avrebbe
dovuto
essere la propria interlocutrice. Più semplicemente si
accorse che quello che
aveva appena detto poteva essere frainteso. Voltò la testa a
scoccare
un’occhiata al viso ancora sorridente di Helena: lei sembrava
divertita. Solo
divertita.
Alex
si sentì più tranquilla.
-Comunque
non è che litighino davvero, eh.- affermò per
sicurezza ulteriore.
Helena
sapeva che le stava mentendo. Brian le aveva già detto che
lui e Steve
litigavano davvero, litigavano in continuazione. Il fatto stesso che
fossero
sparite le cene tra amici, le serate al pub a bere birra in tre o le
telefonate
alla domenica erano il segno tangibile di come stessero effettivamente
le cose.
Fece finta di crederle lo stesso, annuendo e mostrandosi più
interessata alle
tutine di spugna che Alex andava sfogliando tra le mani come fossero
fogli di
carta.
-Quale
credi che sia più carina?- piagnucolò
quest’ultima, riportando anche lei la
propria attenzione sul motivo di quell’uscita.- Dio! Non
dovrebbero fare le
cose per bebè così graziose! Una donna con un
minimo di cuore non riesce a
scegliere!
-Ha
assolutamente ragione!- concordò prontamente la commessa, di
ritorno con un
enorme scatola azzurra piena di nuove tutine.- E guardi queste!-
annunciò
trionfalmente, spalancando la scatola sul bancone davanti a loro e
mostrando il
contenuto ribollente di trine e merletti.
-Cielo!-
sgranò gli occhi Alex, deliziata, un momento prima di
affondare le dita nel
cotone.- Helena!- la invocò disperata, sfilandone due
particolarmente carine da
sopra la matassa delle altre e mostrandogliele.- Queste sono il massimo!
-Secondo
me sono un po’ eccessive.- si schernì lei
perplessa.
-Non
sono affatto eccessive!- protestò la donna.- È il
figlio di Brian Molko!
-Sì,
e Brian non ama particolarmente l’ostentazione…-
le ricordò Helena pacata.
-Sciocchezze.-
liquidò Alex.- Beh, mi piacciono entrambe, quindi le
prendiamo.- disse poi
rivolta alla commessa.
-Costano
una fortuna!- fu la volta di Helena di protestare.
-Tesoro,
ti prego.- la fermò rapida Alex, mentre la donna dietro al
bancone si
affrettava ad annuire e tirava fuori da sotto il ripiano una scatola
nuova,
ricoperta di orsacchiotti, ed un fascio di nastri di raso. Alex
indicò quello
giallo e la commessa si affrettò a confezionare il regalo.-
Io ho più di
quarant’anni, non avrò mai un figlio e non
potrò mai sfiziarmi con queste
cose.- spiegò intanto la manager con aria severa- Non
impedirmi di viziare il
bambino di Brian! Me lo merito con tutto il tempo che perdo appresso a
suo
padre! Sono come una nonna per lui!
Helena
rise di cuore, scuotendo la testa e lasciando perdere.
Mentre
Alex pagava ed annunciava a gran voce che “adesso dovevano
occuparsi di trovare
un regalo che sarebbe piaciuto anche al piccolo Cody e non solo ai suoi
genitori”,
lei ripensò a quello che aveva detto. In fondo, arrivata
alla soglia dei
quarant’anni, neppure Helena credeva davvero che avrebbe mai
avuto un figlio.
Ma poi con Brian ne avevano parlato – quasi per caso, le
sembrava – una sera
come tante altre e dopo aver fatto l’amore. Era stato lui a
mettere in mezzo la
cosa, aveva detto che gli sembrava di aver buttato via tutta la propria
vita,
che non credeva possibile andarsene senza lasciare proprio niente
dietro di sé.
Lì
per lì Helena lo aveva percepito come un discorso
straniante. Brian, anche se
davvero se ne fosse andato in quel momento – non
riusciva neppure a pensarlo… - avrebbe lasciato
quattro album,
un mucchio di fan disperati, due vecchi amici che lo avrebbero
ricordato per
sempre, una manager che si credeva sua madre ed una donna che non
sarebbe
riuscita neppure a respirare senza di lui. Questo non era niente.
Ma
non era riuscita a dirglielo, perché Brian si era voltato
nella penombra della
stanza, l’aveva guardata e le aveva chiesto se voleva dargli
un figlio.
Alex
riprese quasi subito a parlare di lavoro. Non erano ancora fuori in
strada che
lei stava già annunciando ad Helena i progetti per il tour, la Virgin
ci si stava
impegnando per bene, sarebbe stata una cosa lunga quasi due anni.
Helena annuiva
e la ascoltava, tentando di concentrarsi sulle sue parole e di non
pensare che
due anni sono un tempo lunghissimo.
Alex
si fermò ancora, l’euforia che aveva ostentato nel
negozio e perfino
quell’eccitazione isterica che la prendeva a dover
fronteggiare la crisi nel
gruppo sembravano sparite all’improvviso. Helena la vide
mentre lei la fissava
intensamente, si domandò dove avesse sbagliato.
-Potresti
venire con noi in tour. A Brian farebbe bene averti accanto.- le disse
Alex.
Ma
lei doveva pensare al proprio lavoro…
***
Le
era capitato un sacco di volte di dirsi che forse, alla fine, non
sarebbe stato
davvero così male. Era quasi certa che, a farglielo capire
– che per lei
potesse essere importante – Brian le avrebbe chiesto di
sposarlo. Dopo che lei
aveva annunciato di essere incinta, l’idea doveva perfino
essergli balenata da
sola, per un paio di settimane aveva albergato tra loro quella domanda
inespressa, se la vedevano riflessa in faccia l’un
l’altro ma nessuno dei due
trovava il fiato per tirarla fuori.
Non
sapeva le ragioni di Brian…Poteva intuirle,
perché erano qualcosa che aveva a
che fare con la sua infanzia, con il rapporto tra i suoi genitori, con
la paura
di legarsi perché legarsi significa dover dire per forza
“sei importante” e poi
non poter fingere che non sia così, quando il qualcuno a cui
lo hai detto
sparisce.
Sapeva
le proprie ragioni. Non voleva. Non voleva essere la bambola di
nessuno. Non
voleva sentirsi dire “nata nel giorno
dell’amore”, neppure dalla persona che
davvero amava. Non voleva essere protetta, non voleva essere difesa,
non voleva
essere rinchiusa. Lei non voleva essere la madre, la moglie,
l’amante, la
sorella, l’amica…
Lei
voleva essere la compagna.
Voleva
essere la donna a cui Brian diceva che con Steve le cose non erano
più come
prima. La donna con cui Brian si lamentava che la produzione imponesse
delle
scelte non in linea con la politica del gruppo. Voleva essere la
persona a cui
Brian chiedeva di parlare con Alex, perché lui non riusciva
ad avvertirla prima
che iniziasse la diretta TV e doveva assolutamente ricordarle di
quell’impegno
pressante ed urgente.
Lei
voleva essere la donna a cui Brian si rivolgeva in cerca di aiuto. Di
sostegno.
Di concretezza.
Voleva
essere una sua pari.
La
segreteria telefonica scattò un momento prima che la porta
si chiudesse con un
tonfo. Helena posò le chiavi sulla consolle, i pacchetti a
terra tranne l’orso
di peluche troppo grande per starci, dentro il pacchetto, si tolse le
scarpe
mentre sentiva la propria voce chiedere gentilmente di lasciare un
messaggio.
Il “beep” del nastro e poi Brian.
-Helena?
Sei a casa?
Allungò
la mano e sollevò il cordless.
-Ci
sono.- annunciò con un sorriso nella voce.
-Quando
sei tornata?- chiese lui ricambiandolo.
-Esattamente
in questo momento.- gli rispose, e si lasciò cadere sul
divano insieme con
l’orso, arrotolandosi tra i cuscini e sprimacciandoselo
addosso. Lo adorava
già, magari avrebbe potuto rubarlo a suo figlio.
-Non
sono le cinque!- notò intanto Brian a mo’ di
rimprovero. Ma siccome usò il tono
di un bimbo imbronciato, lei si limitò a ridere.
-Direi
di no, sono quasi le otto.- affermò annuendo.-Mi hai
chiamata sul telefono di
casa per controllarmi?- ritorse poi fingendosi arrabbiata.
Brian
smentì fiocamente, ma nessuno dei due credette a quelle
debolissime proteste e
la cosa finì in una nuova risata di entrambi.
-Dovevi
lavorare al sito.- ricordò Brian, cercando una
giustificazione pietosa del
proprio comportamento.
-Sì,
lo faccio tra un po’. Torni per cena?- gli chiese.
La
voce di Brian le diede l’esatta percezione del suo rabbuiarsi.
-No.-
rispose.- Ceniamo fuori. Tutti e tre.- spiegò.
-Devi
parlare con Stef e Steve?- indagò Helena. Brian
sospirò un “sì” svogliato.-
Su,
non può essere così terribile.-
sussurrò lei paziente ed amorevole.
-Invece
è terribile.- disse Brian strozzato.
Helena
trattenne il respiro. Quel tono di voce glielo aveva sentito
così di rado da
costituire un allarme preciso, che le trasmetteva brividi gelidi lungo
la
schiena.
-Brian…-
provò a chiamarlo piano, esitante. Lui non le rispose, ma
lei seppe lo stesso
che stava ascoltando. Anzi, che pregava che lei continuasse a parlare,
perché
la sua voce bastava, a volte, per ricacciare lontano le sensazioni che
si
annidavano nel suo tono, in tutto quello che implicava.- Maruja ha
preparato la
paella,- lo informò lieve- le dico di mettertela da parte?
Brian
stava sorridendo di nuovo quando le rispose.
-Certo.
Mica mi va veramente di mangiare francese.
Si
salutarono ridendo. Helena premette il tasto sul cordless e lo
fissò mentre la
luce si affievoliva fino a scomparire. Lasciò cadere il
telefono accanto a sé
sul divano, spostando l’attenzione all’orso di
peluche, se lo mise di fronte,
seduto sulle ginocchia intrecciate, sistemò il papillon con
un tocco aggraziato
e sbirciò gli occhi neri e lucidi. Magari avrebbe potuto
regalarlo a Brian
invece che tenerselo per sé…
-Chissà
se almeno tu basteresti a non farlo sentire così solo.-
ragionò a voce alta.
Con
un respiro pesante si alzò in piedi, sciogliendo le gambe
per posarle di nuovo
a terra. Nel silenzio dell’appartamento vuoto le sembrava di
poter sentire il
proprio respiro, si fermò un secondo, ascoltando, si
domandò per un momento se
la vita che portava in grembo faceva già un suo proprio
rumore...
Posò
le dita sulla pancia, ascoltando da sotto i polpastrelli quello che le
orecchie
non potevano sentire e sorrise, il rumore di Cody
era soffice, come quello di un uccellino in un nido. Era lo
stesso rumore che Brian ascoltava di notte, quando le si stendeva
accanto e la
abbracciava, imitando quel suo gesto nel posarle delicatamente la mano
sulla
pancia. Helena era sicura che Brian stesse ascoltando Cody in quei
momenti, era
sicura allo stesso modo che Brian ascoltasse lei, posando il viso
accanto al
suo, così vicino che i loro fiati si confondevano.
Era
questo il modo in cui lui le diceva che era nata
per essere amata. Amata da lui.
Sospirò,
lasciando scivolare via le dita come se fossero troppo pesanti,
seguirono il
contorno del suo corpo e poi si fermarono lungo i fianchi.
Camminò a piedi nudi,
a parte il salotto le altre stanze erano al buio – fatta
eccezione per il
chiarore dei lampioni in strada, all’esterno, che filtrava
attraverso le
finestre aperte. In cucina trovò la cena preparata, poggiata
su uno dei ripiani
in un piatto coperto, sul tavolo la aspettava il portatile ed un
mucchio di
fogli sparsi su cui Oscar le aveva appuntato un paio di suggerimenti,
in attesa
che lui potesse confezionarle un sito nuovo.
Guardò
senza reale interesse tanto il cibo quanto la macchina elettronica, ma
poi il
suo senso di responsabilità la spinse all’interno
della stanza: allungò una
mano a sfiorare il pulsante per accendere il computer e si sedette
davanti lo
schermo, sistemando al proprio fianco la cena.
***
Helena.
Nel
suo nome c’era tutta la poesia di un mondo. Un mondo che non
le apparteneva,
perché lei era rimasta la bambina che giocava nel giardino
del nonno in una
terra straniera, perduta e magica. Eppure era
“Helena”, perché suo padre
l’aveva chiamata così, e poi l’aveva
strappata a quella terra ed a quel
giardino, con la forza del suo sangue che le scorreva nelle vene. Le
aveva
regalato una poesia non sua e le aveva donato il nome di una
divinità.
Helena
avrebbe voluto avere la forza di quella stessa divinità. Il
suo orgoglio, la
sua rabbia, la sua fierezza. Alla fine quel mondo le era entrato dentro
lo
stesso e lei aveva imparato le sue regole e dimenticato i giardini, i
fiori ed
i ninnoli dell’Asia che non
c’era più.
Brian
aprì la porta di casa con delicatezza, badando che il rumore
delle chiavi non
la disturbasse. Helena sorrise nel buio profondo del salone,
rannicchiata sul
divano come una bambina guardò le cifre sul display dello
stereo.
-…è
tardi per la paella.- sussurrò
nell’oscurità.
Lo
sentì fermarsi di colpo. Gli dava le spalle, il divano era
voltato verso la
terrazza immensa, sprangata, e lei aveva davanti a sé tutto
lo spazio elegante
del salone, ma non l’ingresso su cui lui si fermò,
cercandola nel buio.
-Helena?-
la chiamò incerto, mantenendo comunque basso il tono,
sebbene lei fosse sveglia
e non ci fosse pericolo di disturbarla.- E’ tardissimo.-
disse.
Helena
pensò di annuire o di assentire in qualche altro modo, per
fargli capire che lo
sapeva. Ma poi si disse che non aveva importanza e Brian aveva anche
ricominciato a muoversi, spazzando l’ingresso per
circumnavigare il divano ed
andarlesi a sedere accanto. Si accoccolò su di lei, come se
fosse stato un
bambino, posando la testa nella piega fra il collo e la spalla e
sospirando,
senza neppure levarsi il giaccone.
Helena
lo lasciò fare e lo guardò. Brian aveva chiuso
gli occhi, le ciglia lunghe e
dritte erano intuibili anche nel buio, perché erano ancora
più scure di questo,
come se i suoi occhi risucchiassero ogni luminosità dal
mondo.
“…ho
dovuto cancellare
il sito…”
-La
situazione è ingestibile, sai Helena?- iniziò
piano Brian, senza scostarsi e
senza alzare il tono di voce da quel sussurro quieto e disinteressato
con cui
parlava delle cose prive d’importanza.- Stasera non era una
semplice cena per
vedere di mettere le cose a posto.- confessò.
“Le
tue fan mi odiano e
continuano a lasciare commenti detestabili su di me…a volte
anche su di te.”
-Con
Alex abbiamo stabilito che è meglio prendere una decisione
definitiva.- spiegò
Brian, paziente.
Era
assurdo che non si muovesse, che i suoi occhi rimanessero serrati, il
corpo
rilassato contro quello di lei. Helena si sistemò
all’indietro sullo schienale,
il peso di Brian si spostò con lei e lui affondò
le labbra ed il fiato nella
sua pelle, proprio dove l’orlo del maglione leggero la
lasciava scoperta. Le
dita di Brian si mossero gentili, risalendo lungo la gamba ed il fianco
per
posarsi delicate sul profilo della sua pancia ed acquietarsi
lì.
Helena
lo imitò. Sollevò una mano anche lei, cingendogli
dolcemente il collo con il
braccio ed affondando i polpastrelli tra i capelli, per raggiungere la
nuca e
massaggiarla piano. Posò la guancia sulla sommità
della sua testa, strofinando
la pelle contro i ciuffi corti e morbidi e pensò che avrebbe
dovuto dirgli che
lo aveva fatto davvero: aveva cancellato il sito.
Quella
sera, quando era entrata a dare un’occhiata per cominciare a
fare le modifiche
temporanee suggerite da Oscar, aveva trovato un centinaio o
più di commenti
nuovi. Aveva realizzato che non accedeva al sito da mesi, che non lo
visualizzava
da altrettanto tempo, e lo aveva realizzato con forza quando, aprendo
la pagina
dedicata a quei commenti, l’aveva trovata ricolma di messaggi
sprezzanti,
ingiuriosi, cattivi. Li aveva letti quasi tutti, sbalordita aveva
iniziato a
sfogliare le pagine fino a risalire al primo. Erano ragazzine.
Ragazzine,
tutte. Qualcheduna era più grande, sì, ma la
media era decisamente di età
bassa. E la odiavano. Il loro odio era qualcosa di raggelante,
perché nessun
adulto può credere davvero che esista un odio
così, finché non se lo trova
davanti.
Lei
si era trovata davanti centinaia di piccoli messaggi di odio, lasciati
da bambini gelosi. Gelosi di lei,
terrorizzati all’idea che potesse distruggere ciò
che amavano, terrorizzati che
lei potesse portargli via il loro tesoro nascosto: un amore
così grande da
credere di poter giustificare tutto, anche l’odio.
Ma
l’odio non si giustifica. Ed Helena aveva avuto paura.
-Steve
lascia la band.
“Ed
avevo così tanta
paura, Brian, che l’unica cosa che ho avuto il coraggio di
fare è stata
cancellare tutto. Cancellare me stessa, per proteggermi da
loro.”
Nessuno
dei due commentò nulla. Non c’era davvero bisogno
di parole per spiegare, era
chiaro in quell’abbraccio, era chiaro nel bacio che Helena
posò sulla fronte di
Brian.
Era
chiaro per loro.
-Potremmo
andare in vacanza a Parigi dopo che avrete finito con le registrazioni.
Prima
che parta il tour.
-Pensavo
dovessi lavorare.
-…non
è…niente che non possa essere rimandato.
“Per
proteggere noi,
Brian, me, te e Cody, io preferisco smettere di esistere”
Helena
pensava che a parte il nome, in lei non ci fosse proprio nulla di
speciale.
“Helena”
MEM
2008
Nota
di fine racconto:
Alcune
precisazioni sono
doverose, nonostante non sia mia abitudine dare precisazioni.
Di
Helena, la compagna
di Brian, si sa che è vietnamita di origine, ma la sua
metà “tedesca” è frutto
di fantasia dell’autrice.
Allo
stesso modo, né
Oscar né Malcom Mayers esistono davvero, ma sono due
personaggi di fantasia
inventati da me.
Tristemente
vero il
fatto che Helena abbia dovuto cancellare il proprio sito personale,
pare,
proprio “a causa” del bashing feroce delle fan dei
Placebo.
Brutta
razza i fan, dico
io ^_^
Questa
storia è
chiaramente una storia inventata. Ma è una storia che ho
amato scrivere,
ispiratami dal libro meraviglioso da cui è tratta la
citazione iniziale e che,
sebbene io non sia affatto una “femminista”
perché reputo il femminismo inutile
nell’epoca moderna e nei paesi occidentali, insegna davvero
tanto sulla
condizione della donna.
Ne
consiglio caldamente
la lettura.
Inutile
dire che, nello
scrivere la storia, mi sono resa conto che altro non era che
l’ennesima
dichiarazione d’amore a Brian Molko. Ormai ci ho fatto
l’abitudine e non mi
stupisco più, l’affetto che provo per
quell’uomo è indubbio XD
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