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II. Bon Fleur Place
‘Casa’ si ripeté Anna, scrutando le
fessure di luce gialla, tra le tende al pian terreno. Le finestre di
Bon Fleur parevano spiarla a loro volta, come gli occhi di un gatto
diffidente. Benton era ripartito con uno schiocco di frusta e il
cigolio delle calesse si faceva pian piano distante, disperdendosi
nell’aria umida e ferma della sera.Sistemato lo scialle sul
capo, Anna risalì il viale e, quando fu sul portico, non
dovette attendere più di una manciata di istanti, prima che
la grande porta venisse aperta dall’interno. Si
affacciò una donna. Giovane, minuta, un palmo più
bassa di Anna. Indossava un grembiule bianco sopra un abito azzurro;
una candida crestina era appuntata sui riccioli, biondissimi, lucidi
come quelli di una bambola di porcellana.
Anna si presentò ― era la nipote dei signori Woodhams, la
stavano aspettando ― e i begli occhi blu della cameriera si adombrarono
di stupore e sospetto. Disse che il signor Woodhams non era ancora
rientrato. Anna si sentì invitare ‘ad attendere
nel parlour’ mentre la cameriera andava a informare
‘madam’. Non fosse stata la domestica a far strada,
Anna non avrebbe avuto idea di dove trovare un parlour ― qualunque cosa
fosse. Seguì la cameriera nella penombra del vestibolo,
dalle pareti coperte di legno scuro; da un lato, se ne stava uno
scheletrico attaccapanni di metallo, dall’altro, una grande
scala a chiocciola fagocitava gran parte dell’ambiente. La
spirale di gradini saliva verso l’alto, e
l’accompagnava una fila di colonnine, raccordate tra di loro
da intagli fitti come merletti, tanto complessi che tentare di seguirne
il disegno faceva venir il mal di capo.
La cameriera aprì la porta a vetri del vestibolo e
introdusse Anna in un secondo ambiente, dove lei contò
quattro porte ― tutte doppie e tutte chiuse ― e vide, sul fondo, una
seconda porta a vetri. Qui, le pareti erano coperte di legno solo per
due terzi; in alto, nel sibilante chiarore delle lampade a gas, correva
una tappezzeria a fiori, di un verde scurissimo. Vi erano inchiodati
tanti piccoli quadri, dalle cornici massicce, e un lungo specchio
rettangolare. In un angolo, il pendolo di un orologio ondeggiava lento.
Toc toc. Toc toc. Toc toc.
Non si udiva altro.
La cameriera spinse i battenti della prima porta sulla sinistra e fece
cenno ad Anna di accomodarsi.
Il parlour si rivelò essere un salottino, ingombro come un
bazar. Là dove le pareti non erano nascoste da quadri e
acquarelli d'ogni dimensione, da credenze e vetrinette cariche di vasi
e candelabri, di vassoi e porcellane, si poteva scorgere il cupo
Borgogna della tappezzeria. Le tende, di velluto marrone, davanti alla
finestra a bovindo, era tirate, tranne per il sottile spiraglio che
Anna aveva scorto dall’esterno. Le bordavano nappe color oro,
grandi come dita di bambini. Al centro del tavolo rotondo,
c’era un vaso cinese, bianco e blu, da quale spuntava
un'esplosione di piume di pavone insieme a un mazzo di fiori secchi.
Quando Anna guardò di nuovo verso la porta, la cameriera era
già svanita. Lei se ne restò in piedi, sul
tappeto persiano. Lasciò cadere lo scialle sulle spalle,
scoprendosi il capo, e incrociò le braccia al petto. Aveva
le dita infreddolite, ma nella stanza non c’era nessun fuoco
per scaldarsi: il camino era spento.
Fuori, la pendola continuava con l’implacabile toc toc, toc
toc, toc toc.
Finalmente, riapparve la cameriera. Era intenta a strofinare il dorso
di una mano contro il fianco della gonna. Sembrava a disagio.
«Miss... uhm... sono spiacente, ma... madam vi prega di
andare.»
«Cosa?»
La cameriera spostò la mani dietro la schiena.
Sollevò il mento, come a farsi coraggio. Parlò
tutto d’un fiato: «La signora Woodhams giura di non
avervi mai invitata. Non desidera assolutamente ricevervi. Di
conseguenza, deve chiedervi di andare.»
«Ma che è? Uno scherzo?»
«No, miss. La signora non scherza mai» disse,
grave, la cameriera. «Ve lo assicuro.»
Le labbra di Anna rimasero aperte ma non le riuscì di
cavarsi una sillaba di bocca.
Poi, un moto di rabbia la scosse dallo spaesamento e, sempre a braccia
conserte, avanzò verso la domestica.
«Che se lo scordi. Io non ho viaggiato fin qui, dall'altra
parte del mondo, su suo espresso invito, per sopportare certe bizze da
vecchia rimbambita.»
Poiché Anna non possedeva una voce carezzevole, e quando
parlava a briglia sciolta, che lo intendesse o meno, diventava
aggressiva, la domestica arretrò di un passo e
sbatacchiò le palpebre orlate dal ventaglio di ciglia bionde.
Anna costrinse le labbra in un sorriso costipato. Addolcì i
toni. L’aveva appena sfiorata dall'idea che spaventare il
personale di servizio sarebbe stato un modo pessimo di presentarsi.
«Chiedo scusa... dimentichiamo la parte della vecchia
rimbambita. Solo... per favore, puoi riferire alla signora che io non
andrò proprio da nessuna parte fin quando lei non
sarà scesa a parlarmi?»
La cameriera parve annaspare in un genuino smarrimento. Poi,
sospirò. Fece un cenno di assenso e, di nuovo,
lasciò Anna da sola.
L’attesa fu lunga.
Trascorsero due minuti. Che divennero cinque. Che divennero dieci. Anna
si era accomodata in poltrona da un pezzo, col mento tra le mani e i
gomiti piantati contro la ginocchia, quando con la coda
dell’occhio vide una figura comparire sulla soglia del
parlour.
Scattò in piedi.
Vivian Woodhams, che da un lustro aveva passato i cinquanta anni, le si
presentò in un abito d’un viola cupo e intenso,
con strati di balze e pieghe che si gonfiavano attorno alla vita da
vespa. Non era una figura alta e matronale, ma possedeva eleganza nel
portamento e nell’espressione: diritta come un fuso, le
spalle spioventi e il mento alto, e uno sguardo da imperatrice pronta a
emanare una condanna a morte. Stava scrutando Anna, tenendosi le mani,
coperte di pizzo nero, accostate al ventre.
«Ebbene, sei davvero di chi dici di essere?»
inquisì la donna. Aveva una voce tutt’altro che
robusta, eppure c’era qualcosa di fortemente autoritario nel
tono. Vivian Woodhams era il genere di persona capace di mettere in
soggezione chi le stava accanto con uno sguardo diretto e una parola
pacata.
Nemmeno Anna, suo malgrado, si scoprì del tutto immune alla
presenza della zia. «C-certo. Certo che lo sono.»
Si schiarì la gola. «Sono vostra
nipote.»
«Perché sei qui?»
«Perché mi avete invitata.»
«Sul mio onore, non ho mai fatto nulla di simile.
L'inclinazione alla menzogna è
un’eredità materna?»
Anna sbatté le palpebre. L’attacco era stato
crudele e inaspettato. Ma che cosa stava succedendo? Perché
sua zia negava di averla invitata? E sul serio quella donna era la
stessa persona che aveva scritto parole traboccanti affetto materno? Le
sembrò più probabile che si fosse addormentata
sul sedile del calesse, eppure era sicurissima di essere
sveglia. Quel che stava accadendo, stava accadendo davvero.
Non poteva essere altrimenti.
Anna fece l'unica cosa sensata: aprì la borsello e
tirò fuori i telegrammi.
«Se non mi avete invitata voi, zia Vivian, allora chi ha
scritto questi?»
La zia avanzò e, appena le fu dinanzi, Anna
avvertì un intenso profumo di fiori, come se qualcuno le
avesse appena aperto un potpourri sotto al naso.
«Sei pregata di rivolgerti a me come madam o signora
Woodhams» disse la donna, tendendo una mano verso le carte.
Le dita magre si allargavano in grossi nodi alla congiunzione delle
ossa, tanto da somigliare a ramoscelli secchi, avvolti in una pelle
raggrinzita.
Anna consegnò il plico di carte e la signora Woodhams si
spostò verso il tavolo. Prese il tagliacarte dal vassoio,
segò la cordicella con un colpo secco e sedette al centro
esatto del divano scarlatto. Lei leggeva, in silenzio, mentre Anna se
ne rimaneva in piedi, senza saper esattamente cosa dire. O cosa fare
delle proprie mani. Si accontentò di studiare il profilo
della zia. Sulle tempie, ciocche color cenere si mischiavano al castano
dei capelli, raccolti in un’acconciatura tutta riccioli e
trecce. La fronte era alta e il naso era diritto e stretto. Non
c’era colore sulle guance flaccide ma la bocca sottile, i cui
angoli sembravano costretti verso il basso da fili invisibili, aveva
una sfumatura di rosso scuro. Le estremità esterne delle
sbiadite sopracciglia, sopra gli occhi neri, puntavanoverso
l’alto, in uno strano contrasto con il perpetuo broncio delle
labbra. La signora Woodhams continuava a sfogliare i telegrammi. Anna
notò la chatelaine, d’argento, agganciata alla
vita del vestito; tra i gingilli che pendevano dal fermaglio, scorse
una chiave, uno specchietto ovale e una paio di forbicine da cucito.
Dopo quella che ad Anna parve una mezza eternità, la signora
Woodhams ripiegò l'ultimo telegramma.
«Di queste parole non una è mai uscita dalla mia
penna o dalla mia bocca» disse la zia.
Al che, Anna ebbe una gran voglia a chiederle quand'è che
era diventata tocca, ma prima che potesse farlo, la zia aggiunse:
«È stato il signor Woodhams. A mia
insaputa.» E volse lo sguardo sulle tende, attratta da uno
scalpiccio di zoccoli che andava facendosi più forte e
vicino. «Si parla del diavolo. Una volta tanto, la natura
ritardataria del signor Woodhams ha sua utilità ―
Siediti.»
Anna obbedì, sistemandosi nervosamente sul bordo della
poltrona.
La signora Woodhams non disse più una parola.
Restò seduta al centro del divano, composta e impettita, con
la schiena diritta e le mani in grembo.
Non udivano più lo scalpiccio sul viale. Ma poco dopo,
furono raggiunte dal chiacchiericcio nel vestibolo.
«La visita dagli Ellis è stata piacevole,
signore?»
Anna riconobbe la voce della domestica bionda.
«Moltissimo» rispose una voce maschile, piena e
pacata. «Sebbene, ancora non comprendo perché mai
questo tennis sia diventato più popolare del croquet. Ai
miei tempi, non ci piaceva altro. E che rimanga tra noi, Lillian,
comincio a pensare di sostituire le mie gocce di laudano, alla sera,
con un posto da spettatore a un scontro tra tennisti.»
La cameriera rise. «Signore, avete ospiti.»
«Ma davvero? A quest'ora?»
L'attimo dopo, fece la sua comparsa nel parlour un distinto signore in
pantaloni di angora, cravatta di seta e giacca grigia, con un orologio
d'argento nel taschino e assolutamente nulla di mefistofelico
nell'aspetto. Più vecchio della moglie di quasi dieci anni,
lo zio Woodhams aveva una placida faccia inglese, incorniciata da due
folte e lunghe basette, e capelli bianchi come la barba di San Nicola.
Anna ebbe appena il tempo di alzarsi in piedi che il vecchio Woodhams
aveva già compreso tutto: venne verso di lei, sorridendo, e
a braccia tese. «Anna! In carne o ossa! Finalmente, sotto al
mio tetto!» In men che non si dica, Anna si
ritrovò stretta in un abbraccio vigoroso, che che odorava di
tabacco, di brandy e di acqua di colonia. «Fatti
guardare!» Lo zio fece un passo indietro, continuando a
stringerle i gomiti. «Sei un fiore di ragazza! E che aspetto
sano! Signora Woodhams, non è forse il ritratto della salute
vostra nipote?»
La signora Woodhams, sublime ritratto della stizza, non
fiatò.
«Ma, Anna, sei in anticipo. Credevo non saresti arrivata
prima del diciassette di questo mese.»
«Oggi è il diciassette» disse Anna.
«Oh. Accidenti a questa mia testa, che non è mai
stata brava col calendario. E l’età non aiuta. Ti
chiedo scusa, poveri noi. Avrai pensato che il tuo vecchio e sciocco
zio si fosse scordato di te! Ma, dimmi, da quanto sei
arrivata?»
«A Maidstone questa mattina. Qui da nemmeno
mezz'ora.»
«E indossi ancora il soprabito?» esclamò
lo zio. Si guardò attorno. Guardò il tavoletto
davanti al camino. «E non c'è il tè.
Dov'è il tè? Signora Woodhams, le vostre maniere
di padrona di casa si sono arrugginite?»
«Come la vostra capacità di tenermi al corrente
dell'arrivo di ospiti» ribatté la signora
Woodhams, con gelido distacco.
Per tutta risposta, lo zio Woodhams sfoderò un sorriso
benevolo. Si avvicinò alla moglie, mise le mani sulle sue
spalle e le stampò un bacio sulla guancia. Lei
strizzò le palpebre, come in preda a una fitta di dolore.
«Suvvia, signora. Non tenetemi il broncio.»
«Avete mentito, quando vi siete offerto di occuparvi della
risposta alla lettera.»
«Perché la notizia vi aveva turbata.»
«Avevate promesso di rispondere secondo i miei
desideri.»
«Fui sul punto di farlo. Fin quando non ho realizzato che il
rancore nei confronti di vostro fratello è
un’immane ― permettetemi il termine ― idiozia. Il genere di
insensatezza che mi sarei sentito in colpa ad alimentare. E adesso non
guardatemi con quest'aria di rimprovero! Vi ho tenuto all'oscuro
dell'arrivo di Anna, è vero. Ma l'ho fatto soltanto per
risparmiarci settimane di proteste.»
«Suppongo non abbiate pensato alle conseguenze.»
«La sola conseguenza che prevedo è un po' di
compagnia in più per questo inverno.»
La signora Woodhams continuò: «Voi sapete
benissimo che cos'era la madre della ragazza. Guardatela. Guardatela
bene. Non c'è modo di farla passare per inglese.»
«Può sempre divertirsi a fare credere la gente di
essere spagnola» ribatté lo zio, in tono leggero.
«Già. La gente. Che cosa dirà la gente?
Dopo quello che abbiamo rischiato pochi mesi fa, voi portate in casa
nostra un―»
«Signora!» la interruppe il marito. Il tono giocoso
si stava incrinando. «Rivendico il sacrosanto diritto di
ospitare sotto il mio tetto qualsiasi parente mi aggrada, sia esso
inglese, pellerossa, folletto o lillipuziano. E che se ne vada al
diavolo - la gente. Lillian!»
La cameriera fu lì in un attimo.
«Prepara la camera degli ospiti» ordinò
il signor Woodhams. «Anna, dove sono i tuoi
bagagli?»
Anna disse di averli lasciati alla pensione in Brewer Street.
«Bene. Lillian, avverti Bert. Deve andare al George Inn,
pagare per la camera e ritirare i bagagli di miss Anna Hawkins. E
dì alla signora Blackwell di preparare subito del
tè per tre.»
«Due» corresse la signora Woodhams. «Per
due sarà sufficiente.» Si alzò in
piedi, in una sinfonia di fruscii, e lasciò il parlour.
«Non badarci, Anna» sospirò lo zio. Si
accomodò in poltrona, allungando le mani sui braccioli.
«La cara signora non si lascia sfuggire occasione per
abbandonare la scena come fossimo tutti in un dramma di Shakespeare. ―
E ma Santo Iddio!» Si stava sfregando i palmi delle mani.
Occhieggiò al camino spento. «Ogni volta che resto
fuori l'intera giornata, ritrovo questa casa fredda come una cripta.
Lillian, sii gentile, accendi il fuoco.»
*
Dopo essersi riscaldata con il tè, rimpinzata di biscotti e
mandato giù, senza vergogna, due fette di pound cake al
limone, Anna affrontò la spirale della scala a chiocciola
con lo stomaco pieno e l'animo tranquillo. Lo zio Woodhams aveva
affidato a Lillian il compito di mostrarle la casa e
l’ambiente al piano superiore era tale a quello inferiore.
Stessa tappezzeria verde a fiori, stesse lampade e una
quantità non minore di quadri.
«Questa è la camera di vostro zio» disse
Lillian, accennando alla prima porta sulla destra. «E quella
è la stanza di madam.» Indicò la porta
opposta.
Avanzarono lungo il corridoio: era largo e profondo, illuminato dalla
doppia finestra sulla facciata, dietro la balaustra della scala.
«Il salottino del disegno» continuò
Lillian. Era la porta successiva a quella della camera dello zio.
«In tutta sincerità, non so perché lo
chiamino così. Nessuno disegna, in questa casa. Immagino sia
perché è rivolto ad est ed è molto
luminoso. Ma lo troverete piuttosto piccolo, temo. Una volta era il
vestibolo tra le due camere padronali. Adesso, la seconda camera
è per gli ospiti... Insomma, è la vostra.
Eccola...» La cameriera fece scattare il pomello e sospinse
la porta. «In fondo al corridoio, c’è la
stanza da bagno e le scale per i domestici. Da lì, si
può raggiungere le stanze sull'attico.»
«E là che c’è?»
Anna stava guardando la porta di rimpetto a quella della camera degli
ospiti.
La cameriera aggrottò la fronte. «Quella era la
nursery.»
«Ci sono stati bambini in questa casa?»
Nessuno le aveva mai parlato di cugini.
«Una. Ma è morta. Tanti anni fa. Così
mi ha raccontato la signora Blackwell.» Lillian
sospirò. Poi, dopo un attimo di silenzio, ammise:
«Io non ho mai visto quella porta aperta. Madam ha vietato ai
domestici di metterci piede. Se ne occupa lei. E ha fatto fondere tutte
le copie delle chiave. L'unica rimasta la tiene sempre con
sé.»
«La chiave attaccata alla chatelaine?»
Lillian fissò Anna, stupita dalla sicurezza della deduzione
di lei. Annuì.
«E non vuole che nessuno ci entri. È
strano...»
«No, è solo triste. Dev'essere stato terribile
perdere quell'unica bambina. Non avete notato che madam veste ancora a
lutto? ― Ma venite adesso.»
Entrarono. La camera era priva della folla di suppellettili, divanetti
e poltroncine che presiedevano il parlour. Lungo la tappezzeria si
alternavano strisce bianche e crema. I mobili di mogano erano massicci
ma limitati all'essenziale. C’era un vanity addossato in un
angolo, vicino al catino e alla brocca dell’acqua; uno
scrittoio sotto alla finestra e una cassettiera di fianco alla porta.
Anna vide il baule e borsa da viaggio, che attendevano di venir
svuotati, accanto a una poltroncina ai piedi del letto. Soprabito,
scialle e guanti stavano, accuratamente piegati, su una sedia
imbottita. Nel caminetto scoppiettava un placido fuocherello, ma la
camera era ancora fredda.
«Spero sia di vostro gradimento» disse Lillian.
«Oh, è perfetta» rispose Anna. Lo
credeva davvero, perché mai prima di allora le era stata
offerta una sistemazione simile. Spiò tra le tende della
finestra. Era ormai notte. Anna vide un prato chiuso, in lontananza, da
una fila di bassi alberi. Lasciò ricadere le tende e
andò a stendere le mani verso il fuoco. C’era un
quadro, appeso sopra la mensola ― l’unico presente nelle
stanza. Era una scena bucolica. Una pastorella, vestita di bianco e di
rosa, dormiva lungo la riva di un sassoso ruscello.
«Se solo il padrone ci avesse avvertito»
sospirò Lillian, «vi avrei fatto trovare dei fiori
freschi.»
Anna le sorrise. «Va bene anche così. Non devi
disturbarti...»
«Oh, non è un disturbo» insistette la
domestica. «Non c’è niente che mi
piaccia come i fiori. ― Se mi date la chiave del baule, sistemo i
vostri vestiti.»
«No!»
Anna si maleddisse immediatamente per essere scattata in quel modo.
Abbozzò un sorriso. «Io... preferisco fare da
sola.»
«Come volete. Vi preparo il bagno, nel frattempo?»
Anna disse sì, ringraziò e stette a guardare
Lillian voltarsi e chiudere la porta. Attese, con un crescendo di
batticuore, di non sentirne più passi.
A quel punto, andò alla porta. La chiave era rimasta nella
serratura e lei la fece scattare.
Sola, chiusa dentro, un improvviso malessere le rimbalzava tra stomaco
e cuore. Un attimo, era nausea. E l’attimo dopo, era un
dolore in mezzo al petto. Trovò la forza d’animo
necessaria a recuperare la chiave dal borsello. Si
inginocchiò davanti al baule e lo aprì.
Il primo strato di stoffa erano pantaloni e giacca da uomo. Sarebbe
stato un gran fastidio spiegare alla domestica perché quegli
abiti si trovavano nel suo bagaglio, ma non erano la fonte
dell’agitazione di Anna. Lei li sollevò e li
appoggiò sul letto. Quindi, infilò una mano in
mezzo alla camicia da notte ripiegata e cavò fuori fagotto
ricavato da un fazzoletto di lino.
Anna sedette sui talloni. Sciolse il nodo. La stoffa svelò
un libriccino di ruvida pelle, tenuto chiuso da un nastro bianco. Il
nastro teneva anche fermo un anello dall’aspetto insolito.
Era di fattura semplice, liscio, ricavato dal ferro. Lo decorava una
pietra ovale, trasparente come il vetro, e poco più grande
dell’unghia di un mignolo.
Trascorse un minuto intero senza che Anna accennasse ad alzarsi dal
tappeto, o anche solo ad alzare lo sguardo dal libro e dall'anello.
Poi, sospirò. Chiuse gli occhi. Lentamente,
annodò di nuovo il fazzoletto e finì di svuotare
il baule, gettando sul materasso la camicia da notte, le calze, i
vestiti di seconda mano e un cofanetto di legno, che valeva anche meno
delle spazzole e i nastrini al suo interno.
Ma il baule non era ancora vuoto.
Quella che giaceva sul fondo sembrava la valigia di un medico.
Anna la fissò per un lungo attimo, con il volto tirato e le
mani aggrappate al bordo del baule. Poi, allungò le braccia
per tirare su la valigia. Era pesante come ricordava. La
spostò nell’ultimo vano della cassettiera. Nel
mentre, prese in considerazione di sotterrare là sotto anche
il libro e l’anello. Ma alla fine, riluttante, decise che
avrebbe tenuto l’anello nel cofanetto; e fu il
libro a finire sul fondo della cassettiera.
Quando Anna ebbe finito con il baule e la borsa, con suo sommo
sollievo, Lillian non era ancora tornata e lei ebbe il tempo di
gettarsi in poltrona e chiedendosi se non sarebbe stato meglio
seppellire la valigia insieme a suo padre. Se l'avesse fatto ora si
sarebbe sentita veramente e completamente libera. Ma ormai era tardi.
‘Non l’aprirò mai
più’ promise. ‘Non la
guarderò mai più. Non ci penserò mai
più.’
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