Nome
autore (su forum e sito): Sasuk8, Blueorchid31
Titolo
storia: The
second hand unwinds
Fandom
scelto: Naruto
Favola
scelta: Alice nel Paese delle Meraviglie
Canzone
scelta: Once Upon a Time - Lana del Rey
Gentilissimi
Lettori,
Credo
che sia il caso che io vi introduca questa minilong. Il Contest aveva
come tema centrale il ''decostruire'' una fiaba, ovvero dimenticare
come questa era fatta, scomporla, e riutilizzarla in un altro
contesto. Io ho scelto ''Alice nel Paese delle Meraviglie'' e chi mi
conosce da un po' sa che sono letteralmente ossessionata da quella
favola, tanto da aver chiamato mia figlia, per l'appunto, Alice. Era
da molto tempo che mi girava in testa di scrivere qualcosa che
potesse essere in qualche modo attinente e l'occasione l'ho avuta con
questo Contest. Ringrazio quindi il _Swarz per averlo indetto e di
avermi dato una proroga ulteriore di due ore per consegnarla.
Inizialmente avevo scelto una canzone diversa, avendo in mente
tutt'altra storia, poi mi sono resa conto che quella di Lana del Rey
fosse più azzeccata… e dopo capirete perché.
Alla
fine di ogni capitoli troverete delle note esplicative perché
durante la narrazione ho inserito alcune citazioni tratte dalla
favola, mentre a inizio capitolo, all'interno del banner, troverete
un'ulteriore citazione che racchiude un po' ciò che il
capitolo contiene. La canzone non la troverete in lingua originale,
bensì tradotta in italiano per esigenze narrative. Il titolo è
un verso di ''Time after time'' di Cindy Lauper.
Spero
che la storia vi piaccia.
P.s.
Negli ultimi giorni mi sono concentrata solo sulla stesura di questa
fan, ma a breve tornerò con le altre.
The
second hand unwinds
I
«
Bonjour Monsieur, où
aller? »
«
À l'Hôpital
Universitaire Pitié –
Salpêtriere, s'il vous
plâit. »(1)
rispose al tassista,
poggiando un gomito sullo sportello e portandosi una mano alla fronte
come se quel semplice gesto
avesse potuto fare qualcosa per la sua emicrania.
«
Vite. » aggiunse, infastidito dallo
sguardo dell'uomo,
riflesso nello specchietto retrovisore, e
dalla sua insostenibile
inerzia.
«
Bien sûr, Monsieur. » (2)
Le
chauffeur de taxi si decise a
mettere in moto il mezzo e si incanalò nel caotico traffico
dell'autostrada A3
con profondo sollievo da
parte del suo indisponente passeggero, il quale mise una mano nella
tasca interna della giacca, tirando fuori un orologio a cipolla.
Un'anticaglia risalente alla seconda guerra mondiale regalatagli da
suo nonno. Un oggetto
dal quale
non si era mai separato. Era
una sorta di amuleto oltre che un caro ricordo:
impugnandolo aveva come l'impressione di poter controllare il tempo e
così la sua vita. La spasmodica ricerca di un equilibrio, di
un ordine imprescindibile nella sua esistenza, lo aveva portato ad
avere con quell'orologio, e con il tempo, un rapporto ossessivo. Le
sue giornate erano organizzate sin nei minimi particolari e non erano
contemplati imprevisti o variazioni di sorta: tutto doveva filare
liscio e, soprattutto, dovevano essere rispettati gli orari.
Inutile
dire che fosse, quindi, molto contrariato dal ritardo dell'aereo e
ancor più dalla lentezza del suo chauffeur de taxi che
continuava con insistenza a guardarlo attraverso lo specchietto
retrovisore al posto di dedicarsi alla guida: L'Hôpital
Universitaire Pitié – Salpêtriere distava una
quarantina di chilometri dall'aereoporto, circa un'ora di macchina,
ma di quel passo ce ne avrebbero messe almeno due.
«
Vite. » ripeté, abbassando gli occhiali da sole sulla
punta del naso in modo tale che l'autista potesse incontrare il suo
sguardo e leggervi quel messaggio che forse non aveva ben recepito in
precedenza.
L'autista
staccò immediatamente gli occhi dallo specchietto e li riportò
sulla strada, accelerando un po'.
Era
in ritardo. Impensabile.
Prese
a fissare l'orologio, seguendo con gli occhi la lancetta dei secondi
che, inesorabile, procedeva sul quadrante di madreperla.
Tic
– Tac, Tic – Tac.
Trovava
quel suono irritante. Ogni movimento di quella lancetta equivaleva a
un'onta ai danni della sua persona.
Continuò
a fissarla con astio, iniziando inconsciamente a muovere in modo
ritmico la gamba destra.
«
C'est
une belle montre vraiment. »(3)
osservò il
tassista.
Lo
ignorò: non lo pagava per ricevere complimenti sul suo
orologio, ma per arrivare in fretta a destinazione. Inoltre,
quell'improvvisa affermazione lo aveva distolto dall'osservare la
lancetta dei secondi che, di conseguenza, aveva avuto modo di
muoversi più velocemente.
«
Donc… Qu'est-ce qui vous amène à Paris,
Monsieur? » incalzò
l'uomo, incurante del fatto che il suo passeggero non avesse alcuna
intenzione di intrattenere alcun tipo di conversazione. «
Travail, amour? » (4)
aggiunse con un tono
allegro, dimentico della destinazione che gli era stata richiesta.
«
Mio padre è morto. » gli rispose, atono, senza staccare
gli occhi dall'orologio.
Il
tassista da quel momento in poi non proferì più parola.
Che avesse capito o meno poco gli importava, dopotutto non erano
affari che lo riguardavano, ciò che contava adesso era fermare
quell'impietosa lancetta e fare in modo di arrivare il prima
possibile per
recuperare il tempo perso.
Sorrise
amaramente per quell'ultimo pensiero perché, per quanto
tentasse di negarlo, era cosciente del fatto che non fosse possibile.
Non più.
Forse
avrebbe potuto recuperare in parte il ritardo, ma non il tempo. Le
lancette avevano compiuto troppe volte un giro completo su quel
quadrante dall'ultima volta che aveva visto suo padre, i giorni erano
diventati mesi e i mesi, anni.
Quando
aveva saputo della sua malattia il suo subconscio aveva rifiutato
categoricamente la possibilità che lui morisse: dopotutto
è nella natura dei figli credere – sperare – che i
genitori siano eterni.
Erano
bastate poche settimane per constatare quanto il suo subconscio si
sbagliasse e quanto il suo amato tempo fosse stato tiranno tanto da
non dargli la possibilità neanche di dirgli addio. Si era
sentito vittima di un duplice tradimento e aveva iniziato a provare
una
strana
irrequietezza che era poi
tramutata in smania e, infine, in nevrosi. Il rimpianto aveva minato
il suo perfetto equilibrio, la sua perfetta esistenza, inculcando in
lui un concetto che fino a quel momento aveva ignorato e che, adesso,
sembrava aver iniziato a
perseguitarlo: essere
in ritardo.
E
così aveva continuato a osservare ossessivamente la lancetta
dei secondi come se il suo sguardo avesse potuto davvero rallentarne
l'avanzata o convincerla a fermarsi o, addirittura, tornare indietro,
perché era in ritardo, dannazione, e non di un paio d'ore, ma
di otto anni.
Anni
in cui sarebbe potuto andare a trovare i suoi genitori e suo fratello
almeno durante le festività, in cui avrebbe potuto tendere una
mano verso suo padre e riappacificarsi con lui.
Troppo
tardi.
«
Nous sommes arrivés, Monsieur. »(5)gli
comunicò il tassista, due ore dopo – come previsto –
indicandogli con un dito l'antica struttura ospedaliera.
Respirò
profondamente per trovare la forza di scendere da quel taxi come se
al di fuori di quella macchina vi fosse stato un baratro.
«
Vous sentez vous bien? »(6) gli chiese l'uomo,
mostrandosi nuovamente cortese nei suoi confronti.
Annuì
debolmente, riponendo l'orologio nella tasca della giacca e tirando
fuori il portafoglio.
L'ultima
domanda posta dal tassista gli fece guadagnare una ragionevole
mancia: in
quelle ore era stato talmente impegnato a non arrivare in ritardo da
non aver avuto modo di capire come si sentisse davvero.
Ovviamente,
a quell'uomo, aveva mentito: non stava bene affatto, anzi provava
l'irrefrenabile desiderio di ritornare sui suoi passi, prendere il
primo aereo e tornare alla sua vita.
«
Je suis vraiment désolé pou votre perte. »(7)
gli
disse l'uomo, mentre
gli consegnava il bagaglio a mano, dandogli conferma del fatto che
avesse compreso le sue parole.
Annuì
ancora, come
ringraziamento, e si
diresse verso l'ingresso dell'Ospedale.
Attraversò
i rigogliosi giardini antistanti la struttura che per la loro
bellezza stonavano alquanto in quel contesto: sarebbero stati più
consoni per un museo, per una villa, non per un luogo di sofferenza.
Suo
padre si era aggiudicato una camera ardente in quel prestigioso
Ospedale a causa della posizione che aveva ricoperto a Parigi in
quegli anni. Aveva insegnato, per circa trent'anni,
letteratura straniera alla Sorbonne,
mentre negli ultimi cinque aveva ricoperto il ruolo di rettore alla
Sorbonne Nouvelle III, svolgendo anche il ruolo di mecenate. Inutile
dire che fosse un uomo molto amato e stimato da tutti… Già,
da tutti …
ma non da lui. Il loro rapporto era sempre stato conflittuale, non si
era mai sentito davvero capito da suo padre, tanto che dopo la laurea
aveva deciso di lasciare Parigi per non consentirgli più di
intromettersi nella sua vita. Suo padre era rimasto molto deluso dal
fatto che nessuno dei suoi figli avesse deciso di seguire le sue
orme: suo fratello si era laureato in giurisprudenza e si era
dedicato anima e corpo alla difesa dei diritti umani, mentre lui –
e l'onta, se possibile, era stata anche superiore – aveva
scelto un percorso scientifico, in netta contrapposizione al suo,
prendendo una laurea in fisica. Gli anni dell'università erano
stati per lui e suo fratello un vero incubo, date le continue
pressioni e l'evidente insoddisfazione del loro padre.
Seguì
l'indicazione per l'obitorio, ritrovandosi in un corridoio pervaso da
un'innaturale silenzio. Una decina di porte, semi chiuse, si
susseguivano sul lato sinistro, mentre sul destro enormi finestre si
stagliavano verso il soffitto, decorato con affreschi che, come
minimo, risalivano al 1700.
La costruzione della
struttura originale
risaliva, infatti,
all'epoca di Luigi XIV e, malgrado fosse stata
ristrutturata
più volte, aveva mantenuto le medesime caratteristiche
architettoniche e
soprattutto aveva conservato il suo patrimonio artistico. Affreschi
raffiguranti le molteplici sofferenze che l'uomo era
costretto a sopportare nel corso della sua vita si alternavano ad
altri a sfondo religioso, mentre l'intensa luce del sole che filtrava
attraverso le finestre, illuminava quel corridoio deserto in un modo
quasi surreale.
Non
aveva idea di quale fosse la stanza in cui era stato deposto suo
padre e
continuò a camminare, udendo l'eco dei suoi passi riverberare
su quei muri alti, fino a che non sentì pronunciare il suo
nome. Si voltò all'indietro, realizzando di aver percorso
quasi tutto il corridoio e che alla sua sinistra erano rimaste solo
due porte: la penultima era più alta rispetto alle altre,
mentre l'ultima era troppo piccola perché qualcuno potesse
entrarci a meno che non fosse stato in grado di rimpicciolirsi.
Ipotizzò che si trattasse di uno sgabuzzino e tentò di
aprire l'altra che, tuttavia, risultò chiusa.
L'idea
di entrare in ogni porta non era da prendere neanche in
considerazione e decise, quindi, di mandare un messaggio a suo
fratello che, certamente, doveva essere lì.
Qualche
secondo dopo sentì scattare la serratura della grande porta e
vide comparire suo fratello.
«
Sasuke, finalmente! » esclamò, abbracciandolo con forza.
Pur
non avendo apprezzato quel ' finalmente ' che di sicuro non era
riferito al ritardo, ma al fatto che non si vedevano da parecchio
tempo, Sasuke contraccambiò, impacciato, l'abbraccio.
«
Itachi. » sussurrò,
sorridendo appena.
«
Vieni. » lo invitò a entrare il fratello « Mamma
sarà sollevata di vederti. » aggiunse, sottovoce.
La
stanza era illuminata solo da due candelabri di ottone posti ai lati
della pregiata bara di mogano, rendendo l'immagine della salma di suo
padre più macabra di quanto già non fosse.
Sua
madre, fasciata da un tajlleur nero, era seduta immobile su una sedia
di
legno
al fianco del marito.
«
Perché avete chiuso la porta? » bisbigliò Sasuke
al fratello.
«
Mamma non vuole estranei. » gli
rispose «
Anche
i funerali saranno a porte chiuse. » lo informò subito
dopo, lasciandolo un po' perplesso: dopo una vita in cui i suoi
genitori avevano vissuto a Parigi, intrattenendo rapporti di amicizia
anche con personaggi appartenenti alla classe politica, al mondo
dello spettacolo e dell'arte, trovava abbastanza insolita la scelta
di sua madre. In vero si sarebbe aspettato un funerale in pompa
magna, ma quella notizia in qualche modo gli fece provare una sorta
di sollievo.
«
Dopo ti spiego. » aggiunse Itachi, invitandolo poi, con un
gesto della mano, ad avvicinarsi alla salma.
Sasuke
indugiò appena: non era molto sicuro di essere pronto per
vedere il corpo senza vita di suo padre. L'ultima volta che aveva
visto una persona morta era stato al funerale di suo nonno: era molto
piccolo allora e il
trauma era stato così forte che, a tutt'oggi,
continuava a rivedere quell'immagine nei suoi sogni.
«
Sasuke
» lo chiamò sua madre, alzandosi dalla sedia per
abbracciarlo « Bambino mio, che bello rivederti! »
esclamò mentre lo stringeva forte a sé, creando in lui
un forte senso di disagio: punto primo, non era più un
bambino; punto secondo, non amava essere toccato.
«
Ciao mamma, anche io sono contento di rivederti. »
«
Hai visto? » continuò la madre, dopo essersi staccata da
lui « Alla fine ci ha lasciati. »
Sasuke
non riuscì a percepire nel tono della madre quella nota di
naturale dispiacere che ogni moglie avrebbe provato in una simile
situazione, piuttosto la sua era sembrata una semplice constatazione.
Se in quella stanza vi fossero state altre persone quel contegno
sarebbe stato anche opportuno, da sua madre, ma essendoci solo loro
non riusciva proprio a comprenderlo.
«
Già. » annuì lui che, dopo aver sconfitto la
paura, decise di sporgersi sulla bara.
Notò
che, anche da morto, suo padre fosse straordinariamente perfetto: il
rigor mortis non aveva intaccato per nulla l'espressione tipica del
suo viso; un'espressione dura, altera… boriosa,
aggiunse il suo subconscio.
«
È
morto serenamente? » sentì di chiedere alla madre.
«
Tuo padre non conosceva il significato di serenità. »
gli rispose lei con una punta di acredine nella voce.
Sasuke
lasciò correre, preferì
non approfondire,
attribuendo il suo strano comportamento allo shock della perdita. Si
concentrò piuttosto su suo padre che con le mani giunte sul
petto, stava lì, immobile, ad ascoltarli e,
per una volta, in silenzio.
Il
funerale si svolse presso la chiesa di Saint-Pierre-de-Montmartre,
rigorosamente
chiusa al pubblico, come da richiesta di sua madre. Mikoto Uchiha
aveva scelto quella chiesa per la vicinanza al loro appartamento in
modo tale che se qualcuno avesse scoperto dove si teneva la funzione,
avrebbe potuto facilmente defilarsi. Sasuke non riusciva a
comprendere per quale motivo sua madre fosse così ossessionata
dalla possibilità che qualcuno potesse prendere parte al
funerale. Suo fratello la sera prima gli aveva spiegato che quella
era stata una delle ultime volontà del padre, ma non se l'era
bevuta.
Avevano
aspettato in Chiesa l'arrivo del feretro e, appena gli addetti del
servizio funebre l'avevano posizionato ai piedi dell'altare, due
chierichetti avevano sigillato i tre portali di bronzo dall'interno.
Sasuke
fu
colto da una
spiacevole sensazione di
claustrofobia: era imprigionato in una fredda e silenziosa Chiesa in
stile gotico, le cui navate alte e spoglie incutevano di per sé
una certa soggezione; la bara di suo padre era aperta e un flebile
raggio di luce, che penetrava dalle finestre ornate dalle vetrate
policrome, puntava proprio sul suo viso. Quella situazione, quel
luogo, tutto rimandava a qualcosa di onirico, irreale e Sasuke sperò
quasi che si trattasse davvero di un sogno e che potesse risvegliarsi
in fretta.
Lo
stridio
assordante dell'organo lo riportò bruscamente alla realtà.
Un
vecchio sacerdote, con indosso il paramento viola, fece il suo
ingresso pochi minuti dopo, posizionandosi dietro l'altare.
«
In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. »
«
Amen.
» risposero all'unisono i tre congiunti, mentre dal lato destro
dell'altare si propagava un rumore sordo, prodotto dalla porta di
legno che collegava la Chiesa alla stanza privata del parroco. Tutti
e tre lanciarono uno sguardo in quella direzione, vedendo comparire
una ragazza, fasciata in un tubino nero, forse un po' troppo corto
per l'occasione, con
un
cappello nero,a
tesa
larga, sulla testa e un paio di occhiali da sole, anch'essi neri, con
le lenti talmente grandi da coprire buona parte del viso.
«
Che cosa ci fa lei
qui? Come ha fatto a sapere dove eravamo? » ringhiò
Mikoto, a bassa voce, rivolgendosi al figlio maggiore che si era
posizionato in mezzo a loro.
«
Non ne ho idea. » le rispose Itachi, sempre a bassa voce,
facendo spallucce.
Sasuke
aggrottò la fronte, perplesso: chi era quella ragazza? Perché
sua madre si era agitata così tanto nel vederla?
«
Che succede? » sussurrò all'orecchio del fratello.
«
Nulla… dopo ti spiego. » gli rispose, evasivo.
Sasuke
lanciò un altro sguardo in direzione della ragazza che,
procedendo alla svelta in punta di piedi, si era spostata dietro una
delle maestose colonne in marmo. La vide abbassarsi, con imbarazzo,
l'orlo del vestito che, a causa della breve corsa, si era
ulteriormente accorciato e, forse a causa del suo sguardo,
nascondersi meglio dietro la colonna.
Sasuke
tornò a seguire controvoglia la funzione: quella intrusione
imprevista lo aveva incuriosito parecchio e più volte si
ritrovò a provare la tentazione di volgere ancora lo sguardo
in direzione della ragazza.
Poco
prima che il sacerdote pronunciasse l'ite missa est, si
voltarono di nuovo tutti e tre in direzione della medesima porta,
attraverso la quale, questa volta, la ragazza si era defilata.
Seguirono
il feretro con la macchina di Itachi fino al Cimitero di Montmartre
dove assistettero in silenzio alla tumulazione. Nessuno dei tre versò
una lacrima: lui perché non ne era fisicamente in grado,
Itachi per contegno – dopotutto era il fratello maggiore –
e la madre…
Perché
sua madre non aveva pianto?
Uscendo
dal cimitero, vide di sfuggita una tesa nera sfrecciare tra le
lapidi: di nuovo quella ragazza.
«
Chi era quella donna? » chiese a suo fratello e a sua madre,
una volta saliti in macchina.
«
Quale donna? » replicò Itachi, fingendo di non capire,
mentre sua madre volgeva lo sguardo fuori dal finestrino.
«
Mi state nascondendo qualcosa? » insinuò Sasuke che
ormai era quasi certo che fosse così, ottenendo come risposta
un imbarazzante silenzio.
«
Mamma, cosa sta succedendo? » incalzò, quindi, stufo
della loro reticenza.
«
Non sta succedendo niente, Sasuke. Quella ragazza… »
tentò di spiegargli Itachi che si era preparato per
quell'evenienza una bugia plausibile.
«
Era l'amante di tuo padre. » lo interruppe la madre, con un
tono piatto, quasi rassegnato.
«
Non ne hai la certezza, mamma. » la rimproverò il figlio
maggiore, che a quella storia non ci aveva mai creduto più di
tanto.
Itachi,
a quel punto, spiegò a Sasuke quanto era accaduto. Dopo che la
malattia aveva costretto il padre a letto, lui e la madre avevano
preso a occuparsi di tutte quelle mansioni che, di solito, erano
imputate a lui, compresa la gestione dei conti correnti e dei
risparmi. Avevano scoperto così che il padre era intestatario
di ben tre conti correnti e che, uno di questi, intestato non
personalmente a lui ma a una specie di associazione culturale,
conteneva a una cospicua somma di denaro , di cui ovviamente
ignoravano l'esistenza, e che lo stesso veniva costantemente
depauperato a favore di un unico beneficiario: Sakura Haruno.
Sakura
Haruno, ripeté Sasuke come un mantra nella sua testa,
cercando di memorizzare quel nome.
La
ragazza non solo riceveva una cospicua '' paghetta '' mensile, ma
alloggiava in un appartamento pagato sempre dal medesimo conto
corrente.
In
pratica era quella che a Parigi si soleva chiamare una '' connasse
''.(8)
Note:
«
Bonjour Monsieur, où
aller? » ( Buongiorno, signore, dove andiamo?)
«
À l'Hôpital Universitaire Pitié –
Salpêtriere, s'il vous plâit. » (All'Ospedale
Universitario Pitié – Salpêtriere,
per favore)
«
Vite. » (In fretta)
«
Bien sûr, Monsieur. » (Certamente)
«
C'est une belle montre vraiment. » (È
un davvero un bell'orologio)
«
Donc… Qu'est-ce qui vous amène à Paris,
Monsieur? » (Allora,
cosa la porta a Parigi, signore?)
«
Travail, amour? » (Lavoro, amore?)
«
Nous sommes arrivés, Monsieur. » (Siamo arrivati,
signore.)
«
Vous sentez vous bien? » ( Vi sentite bene? )
«
Je suis vraiment désolé pou votre perte. » (Sono
veramente desolato per la vostra perdita.)
Connasse:
letteralmente una '' poco di buono ''.
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