Alma apretada

di DonnieTZ
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2. Heridas
 
No me temas, no caigas
en tu rencor de nuevo.
Sacude la palabra mía 
que vino a herirte
y déjala que vuele por la ventana abierta.

Ella volverá a herirme
sin que tú la dirijas
puesto que fue cargada con un instante duro 
y ese instante será desarmado en mi pecho.

 
Non poteva di certo tornare al Dumort e farsi abbrustolire come un barbecue mal riuscito. No, di certo. Quella condanna a morte aveva finito per ossessionarlo, compromettendo ogni momento di quei tre giorni trascorsi all’istituto, dove Simon era ospitato in una stanza con il letto troppo grande, ma mai abbastanza spazioso per tutto quel suo rigirarsi fra le lenzuola. Non era riuscito a pensare ad altro, oscillando fra terrore e isteria come solo lui sapeva fare.
Da qualche parte, però, dietro il familiare nervosismo, si annidava una verità che non aveva alcuna intenzione di affrontare.
Aveva tradito Raphael.
Lo aveva fatto senza pensarci davvero, senza considerare tutte le variabili, seguendo Clary ciecamente. Era ancora convinto di aver fatto la cosa giusta – anche se si era ritorta loro contro -, perché Jocelyn era l’unica possibilità contro Valentine e questo riguardava tutti, non sono i vampiri.
Forse, però, avrebbe potuto fermarsi a riflettere, comprendere fino in fondo cos’avrebbe significato perdere tutto.
Perdere Raphael.
Scosse la testa ancora una volta, mentre dietro le pesanti tende che coprivano le finestre pareva essere nuovamente mattino. Non riusciva a dormire né di giorno, né di notte, così come non riusciva davvero a farsi piacere le sacche di sangue che Clary gli rifilava senza dirgli da dove arrivavano.
La sua presenza all’istituto era un segreto per pochi, perché lui non avrebbe dovuto essere lì, nella base segreta degli shadowhunter, come un rifugiato.
Non credeva di appartenere all’hotel, ma adesso che era impossibile tornarci, iniziava a capire come il suo legame con quel posto fosse diventato più profondo del previsto.
Benvenuto a casa.
Sì, Raphael aveva avuto ragione dal primo istante. Il Dumort era casa e Simon era stato troppo stupido per rendersene conto.
Si mise a sedere, e la posizione gli ricordò il tetto dell’hotel, le ore passate lì con Raphael ad imparare tutto sui vampiri, a parlare di stelle. Si alzò, alla ricerca di qualcosa che lo tenesse occupato, ignorando il fulminante mal di testa dovuto a tutti quei giorni insonni. Sembrava essere davvero presto, perché il corridoio oltre la sua porta era deserto. Girovagò, circospetto, finendo per incappare nella sua immagine riflessa in uno specchio. Aveva un pessimo aspetto, ma tentò di ignorare l’evidenza, nascondendola dietro l’ironia.
“Non male per un morto, dopotutto.” si bisbigliò, facendo scorrere le dita fra i capelli senza risultati degni di nota.
“Parli anche da solo?”
Alec spuntò da dietro un angolo, palesemente di ritorno da una sessione mattutina di allenamento, tuta e sudore e tutto il resto.
“Come… cosa? No, io… no.”
Simon si sentì lievemente a disagio, per qualche strano motivo, ma ricacciò indietro anche quella sensazione.
“Non è un po’ presto per, sai, tutto questo?” chiese, indicandolo.
“Ne avevo bisogno.” si limitò a rispondere Alec, sbrigativo, superandolo.
Simon si mise a seguirlo lungo il corridoio, nuovamente diretto alla sua stanza.
“Con Magnus le cose sono ancora… in sospeso?” domandò.
L’altro si girò, un sopracciglio alzato e l’espressione interrogativa.
“Emh… sai, e se ne parla, in giro.”
“Credevo fossi rinchiuso nella tua stanza a disperarti per l’esilio dal Dumort.”
E fu il turno di Simon di lanciare un’occhiata perplessa.
Certo, se ne stava chiuso in camera. Certo, disperarsi sembrava una descrizione accurata di ciò che faceva. Ma sentirselo dire da Alec era tutta un’altra storia.
Mentre rifletteva su questo, una strana idea balenò nella sua mente.
“Ehi, posso… insomma, posso farti una domanda personale?”
Alla richiesta di Simon seguì un’alzata di spalle da parte dell’altro, che lo autorizzò a continuare.
“Come hai capito che Magnus…”
Erano fermi davanti alla porta di Simon, con gli sguardi imbarazzati. Simon non terminò la frase e Alec sembrò rifletterci un attimo.
“Credo sia semplicemente successo.” concluse, “Perché me lo chiedi?” domandò poi, un lampo di divertita curiosità negli occhi.
“No, così, per sapere.”
“Come ti sei accorto che ti piaceva Clary?” lo pungolò Alec.
“Beh, ecco…”
Già, come? Simon non lo sapeva spiegare davvero. O, meglio, aveva un sacco di motivi per i quali una come Clary gli sarebbe dovuta piacere. La verità, però, era che erano sempre stati legati, erano sempre stati assieme, erano come…
Fratello e sorella.
Il pensiero lo colpì con forza. Aggrottò le sopracciglia, si dimenticò di Alec, e riparò nella sua stanza, chiudendosi dentro e poggiando le spalle alla porta.
“Oh, D…” tentò di dire, prima che la parola gli si mozzasse in bocca, “Oh, mamma” concluse.
Non poteva essere. Dov’era finito il sentimento che aveva provato per Clary? Pareva quasi fosse stato sostituito da tutta l’angoscia per Raphael e per il suo sguardo quando lo aveva condannato a morte. Sembrava che qualcosa di più profondo, di più scomodo, di inspiegabile e improvviso lo avesse scalciato via da dietro lo sterno, dove aveva preso posto molti – troppi – anni indietro.
Simon finì per buttarsi sul letto, una mano sul cuore che non batteva, lo sguardo fisso sul soffitto.
“Non è possibile, non è possibile. Devo solo calmarmi. Respira, Simon, resp… che idiota.”
Pensò alla questione da ogni angolazione, analizzandola sotto ogni punto di vista, sviscerandola fino a farsi pulsare le tempie dalla frustrazione, ma non ne venne a capo.
Stava male? Certo. Ma aveva perso il suo mentore, la sua guida, niente di più. O, forse, era solo la paura per quella condanna emessa con tanta leggerezza. Sicuramente questa era la spiegazione della strana morsa che gli serrava lo stomaco.
Alla fine, quella lenta tortura autoinflitta – Simon continuava a tornare su tutti i dettagli dello scontro con Raphael, valutando quali fossero state le sue reazioni e che significato attribuire loro – venne interrotta dal bussare leggero sulla porta. Simon si mise a sedere, di scatto.
“Sì?”
“Ehi, sono io.”
La voce era quella di Clary e Simon lasciò andare un sospiro del tutto inutile, che gli servì solo a raccogliere le forze per fingere che tutto andasse bene.
“Vieni, vieni.” rispose.
La testa ramata di Clary fece capolino, subito seguita da Jocelyn. Entrambe si avvicinarono, prendendo posto sul letto.
Simon si dipinse in viso il miglior sorriso che riuscì ad improvvisare, in attesa che le due smettessero di guardarsi titubanti per iniziare a parlare.
“Ecco, so che dev’essere dura, tutta la storia del tradimento. Se hai bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, io sono qui.” disse Clary, l’espressione incoraggiante.
Jocelyn si limitò a poggiare una mano sulla spalla di Simon.
“Che succede?”
E quella domanda, posta con quel tono materno, finì per far crollare ogni difesa. Simon si alzò dal letto e iniziò a camminare avanti e indietro, agitato.
“Ecco, da dove inizio? Oh, sì, se metto piede fuori dall’istituto è probabile che i vampiri mi obblighino ad un’abbronzatura integrale. Sono un traditore! Io, che sono stato smistato in Tassorosso, accidenti! E Raphael, oh, lui mi odia ora, mi ha guardato dritto negli occhi e ha fatto quel suo sorrisino tutto sicurezza e menefreghismo, ma io l’ho visto... lui… lui era deluso. Deluso sul serio.”
La mano di Simon volò dietro la nuca, mentre il suo sguardo restava fisso sul pavimento. Clary si alzò d’istinto, per stringerlo in un abbraccio.
“Risolveremo tutto, vedrai, e…”
Prima che la frase potesse finire, però, la porta si spalancò con forza.
Alcuni Shadowhunter che Simon aveva visto di sfuggita, le prime volte all’istituto, fecero irruzione e – senza che Clary o Jocelyn o lo stesso Simon potessero fare qualcosa – lo afferrarono con forza.
“Ehi! Dove volete portarlo? Lasciatelo andare!”
Clary tentò di opporsi, di allentare la presa sulle braccia di Simon, ma fu tutto inutile.
“Un nascosto non può trovare rifugio all’istituto. Il nostro compito è impedire che i vampiri facciano del male ai mondani, non immischiarci nei loro affari. Il capo clan dei vampiri di New York ha avanzato una richiesta ufficiale, sapeva prima del clave che il vampiro fosse qui. Non c’è motivo, né modo di opporsi.”
Maryse Lightwood fece la sua comparsa sulla porta, osservando con serietà la scena davanti ai suoi occhi.
“Ma lo uccideranno.” intervenne Jocelyn, preoccupata e combattiva assieme.
“Non è un nostro problema. Inoltre non devo ricordarti la delicata situazione in cui ti trovi. Fossi in te, lascerei che i vampiri risolvano le loro questioni come meglio credono e mi occuperei di fermare Valentine.”
Con quelle parole, Maryse sparì, seguita dagli shadowhunter che trascinarono via Simon.
E non importarono le urla di Clary, né le sue lacrime, né il fatto che Simon si dimenasse e imprecasse.
Un solo pensiero, nella mente del vampiro.
Raphael non lo farebbe mai, non davvero.

 
Do not fear me, do not fall 
into your rancor again. 
Shake off my word that 
came to wound you 
and let it fly through the open window. 

It will return to wound
me 
without you guiding it 
since it was laden with a harsh instant 
and that instant will be disarmed in my breast.






 
Quindiiii... rieccomi!!
Questa volta con il POV di Simon (spero di aver fato bene e che si noti la differenza con Raphael) e un estratto della poesia El pozo, sempre di Neruda (ho scelto la parola "ferite", nel titolo, perché ricorre nei versi). 
Spero vi sia piaciuto!
Nel prossimo, finalmente, il confronto fra Raphael e Simon! *___*
Grazie a Redbird e Rob As per le recensioni. Ogni riscontro è sempre ben accetto e mi fa molto felice.
A presto!!!
DonnieTZ




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