Il
sole del mattino brillava intensamente, facendo
risplendere l’acqua marina di tutti i colori
dell’arcobaleno. Le placide onde,
di tanto in tanto, accarezzavano la riva, e solleticavano i piedi di un
uomo
svenuto sulla sabbia, senza vestiti e con il viso rivolto verso il
cielo terso.
Un uomo di bell’aspetto: spalle larghe, muscolatura definita,
molto abbronzato,
non poteva avere più di vent’anni; i capelli,
ancora umidi, erano dello stesso
color della pece con un ciuffo bianco che faceva capolino dietro la
nuca, quasi
totalmente coperto dalle ciocche scure. Tatuato sulla spalla aveva un
lungo
serpente marino che con il suo corpo ricoperto di scaglie si avvolgeva
sul
braccio del ragazzo, e tra le zampe artigliate stringeva tre lettere,
“HSL”. Il
suo ventre era attraversato da parte a parte da una voglia a forma di
mezzaluna
–il regalo di una vecchia conoscenza- e sul petto, al posto
dello sterno, aveva
incastonato un rubino grosso quanto un pugno, con sfumature azzurre.
Per un
occhio esperto, quella pietra era inconfondibile: il Cuore di Davey
Jones- che
era diventato, da qualche ora, il cuore del Capitano Ismael.
Passarono
poche ore prima che Ismael dischiudesse gli occhi
e si guardasse intorno. Si trovava su una spiaggia di finissima sabbia
bianca,
e davanti a lui non c’era altro che l’azzurro mare,
a perdita d’occhio. Si
sedette, portò la mano al petto e toccò la pietra
con la punta delle dita: era
tiepida. Provò a strapparla via con le unghie, ma il rubino
era ben piantato
nella sua carne e non sembrava avere alcuna intenzione di venire via.
Smise di
tentare dopo qualche altro strattone e decise piuttosto
di concentrarsi sul luogo in cui era
capitato. Guardò in alto, verso il sole: mancava solo
qualche ora a mezzogiorno
ed il Capitano, rivolto verso l’oceano, riuscì a
riconoscere l’est alla sua
destra. Quella costa quasi sicuramente apparteneva ad
un’isoletta a sud
dell’India; magari, con un po’ di fortuna,
un’isola segnata sulle mappe. Ismael
scosse la testa.
Lui
non aveva Fortuna.
Si
guardò ancora intorno, attentamente. Se lui era finito
lì, trasportato dalla corrente, c’era la
possibilità che anche qualche pezzo
della sua nave fosse stato sospinto fino a riva. Nulla a destra, nulla
a
sinistra, ma in quel momento la vide. La giungla. Verdissima,
fittissima,
proprio oltre la spiaggia: meravigliosa, pericolosa,
inviolata, furono le uniche parole che vennero in mente al
Capitano. Voleva esplorarla- no. Doveva
esplorarla, il prima possibile. L’unico problema era che non
aveva provviste, o
armi, o vestiti. Sospirò pesantemente ed iniziò a
passeggiare avanti e indietro
sulla sabbia. Probabilmente avrebbe potuto trovare tutto il necessario
per
sopravvivere, nella giungla; ma senza nemmeno uno straccio addosso,
rischiava
di non uscirne vivo. Continuò a camminare avanti e indietro
sul bagnasciuga,
con le braccia incrociate al petto e lo sguardo perso nel vuoto,
finché non
sentì qualcosa sfiorargli la gamba e sobbalzò.
Guardo a terra, per capire cosa
lo avesse toccato.
Una
mano. Una mano umana. Ed attaccato alla mano, il corpo
di un uomo, qualcuno che il Capitano conosceva bene.
“Dan…”
La voce gli si strozzò in gola. Il corpo di Daniel
Williams, il quartiermastro della Royal Serpent, era stato trasportato
dalla
corrente di fronte al suo più caro amico. Ismael cadde a
terra; in un secondo,
tutto il mondo gli crollò addosso, ed il giovane viso sembro
invecchiare di
almeno dieci anni. La sua nave. Il suo equipaggio. Dan. Tutto per colpa
di una
stupidissima pietra. Infilò le dita nella sabbia e strinse i
pugni, mentre le
sue lacrime salate cadevano sulla camicia di Dan, e si mischiavano
all’acqua di
mare. Ismael scosse la testa e si rialzò. I vestiti di Dan,
seppur zuppi e
logori, erano proprio quello di cui aveva bisogno. “Mi hai
voluto salvare
ancora una volta, prima di andartene, eh?” Tra le lacrime, un
sorriso gli
illuminò il volto.
Lasciò
asciugare i vestiti al sole per qualche ora, mentre
scavava una profonda buca sulla sabbia. Certo, Dan aveva sempre detto
di voler
essere legato all’ancora della Royal Serpent ed essere
gettato nel mar dei
Caraibi, ma al momento quello era il meglio che poteva fare il
Capitano.
Nessuno dei due era mai stato un tipo religioso, ma Ismael
pensò che, se ci
fosse mai stato un momento giusto per pregare, forse era proprio
quello. Portò
le mani al petto, coprendo la pietra maledetta, e chiuse gli occhi.
“Dan!
Spero che tu mi stia sentendo, altrimenti questa cosa
sarà inutile… Comunque, ne abbiamo passate tante
insieme, eh? Ti ricordi quella
volta a Mabul, quando… Si, lo so, lo so. Dan, mi dispiace,
è solo colpa mia se
tu… e tutti gli altri… Ma nonostante tutto, hai
deciso di salvarmi il didietro
un ultima volta, anche dopo aver tirato le cuoia. Sei… Sei
stato più che un
padre, il mio migliore amico, e finché avrò aria
in corpo non dimenticherò mai
quello che hai fatto per me.” Diede poi le spalle al tumulo,
ma girò appena il
capo. “Ah, Dan, saluta la Megera da parte mia. Dille che non
ho intenzione di
raggiungerti tanto presto!”
Insieme
ai vestiti, era riuscito a recuperare la sciabola di
Dan e la sua pistola. Certo, non aveva munizioni né polvere
da sparo, ma sapeva
che gli avrebbe potuto fare comodo. Infilò i pantaloni di
tela leggeri, e
strinse per bene la cintola –Dan era una buona forchetta, al
contrario del
Capitano- ed infilò le armi nelle profonde tasche.
Indossò la camicia, che una
volta era stata bianca, di finissima fattura spagnola, appartenuta a un
ufficiale spagnolo prima che Dan lo desse in pasto ai pescecani.
“Sta meglio a
me che a lui!” Aveva detto dopo averla provata, Ismael lo
ricordava come se
fosse successo il giorno prima.
Scosse
il capo, infilò la camicia nei pantaloni e si mise in
marcia. I piedi nudi lasciavano leggere orme sulla sabbia calda, ed il
sole del
tardo pomeriggio sembrava volergli mostrare la via. Scrutava la giungla
misteriosa, con curiosità e paura; nello stesso momento, la
giungla guardava
dentro i suoi occhi.
Entrambi
sembravano nascondere un terribile segreto.
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