Severus
è Riddikulus
Dietro
le cime degli alberi, il sole stava calando portando con sé
l’eco
delle grida gioiose dei ragazzi in volo sulle scope, intenti nei loro
allenamenti quotidiani.
Al
margine della foresta, lungo il pendio est del prato antistante il
castello, era sorta magicamente la nuova serra, voluta dal giovane
insegnante di Erbologia, in carica da appena due anni. Era un
padiglione interamente in vetro di alta qualità dotato di
ampi
finestroni e abbaini, alcune pareti scorrevano su guide per
permettere all’aria autunnale di rinvigorire e ossigenare le
piante
rare, ivi contenute. Un Tranello del Diavolo, amante del buio e
dell’umidità, si inerpicava sul muro della casa
adiacente la
struttura, tenuto in ombra da un incantesimo permanente.
I
profumi esotici delle piante, sapientemente distribuite
all’interno
della serra, riempivano l’aria, deliziando anche i nasi
più
delicati; però, se non si faceva la dovuta attenzione, si
rischiava
di rimanere intrappolati nel sonno perenne. Infatti, una deliziosa
pianta dai fiorellini neri punteggiati di viola, tale Eeuwige Slaap,
esalava un mortifero effluvio che, se inalato allo scoccare
dell’undicesimo rintocco, mentre il sole si stagliava alto
nel
cielo, portava a morte certa.
Nessun
pericolo quindi per le giovani menti che sostavano chiassose in quei
luoghi, a vigilare su di loro c’era il professore, uomo
attento e
scrupoloso. Certo, se si escludeva quella volta che un Tassorosso era
accidentalmente
scivolato su delle viscide foglie appena estirpate ed era finito nel
caloroso abbraccio dell’Edera stritolatrice del Sudan,
oppure quando i semi contenuti nei tuberi della Griekse Dans
erano esplosi, inavvertitamente,
sull’intera classe mandando più di dieci studenti
in infermeria
con ustioni gravi e la spasmodica voglia di danzare, oppure... era
meglio fermarsi qui.
Da
una delle finestre, aperte sul retro della casa, si udì una
stanca e
giovane voce dire: «Sì,
è stato tragico e orribile e devo farci i conti ogni giorno,
ma ora
ho bisogno di andare avanti.
Smettila di tormentarmi.»
Osservando
l’interno, si poteva intravvedere un alto candelabro in
ottone,
lavorato in delicate trecce, reggere delle candele colorate che
espandevano luce e profumo per tutta la piccola stanza. Una scrivania
in mogano occupava quasi tutto lo spazio; sopra vi erano accatastati
libri, fogli di pergamena impilati malamente, tazze vuote in bilico
sui bordi del ripiano e un paio di vasi contenenti la Mimosa Pudica,
un gradito regalo.
Davanti
alla scrivania c’erano due sedie rigide munite di un cuscino
rosso,
ricamato con fili color senape, mentre quella occupata aveva uno
schienale alto e l’imbottitura completamente blu.
Completavano
l’arredamento un divanetto dipinto a fiorami, posto sotto la
finestra, e alcuni quadri.
«Sono
davvero stanco,»
continuò sfinito il giovane uomo mentre strattonava i
capelli scuri
con le lunghe dita macchiate di terra, uno dei gomiti poggiava dentro
un piattino colmo di biscotti allo zenzero. «Questa
storia deve finire, ora!»
Disse perentorio, «non
puoi continuare a rinfacciarmi il passato ogni volta che sei
depresso!»
All’uscita
infelice fece eco un grugnito indispettito. Con uno scatto fulmineo,
il Professore di Erbologia si alzò e, a grandi falcate,
prese a
girare per l’angusto spazio. I mocassini che calzava
stridevano
appena sul lucido pavimento in pietra mentre la logora veste da
lavoro si impigliava ad ogni movimento.
«Senti,»
disse, bloccandosi davanti alla finestra e tenendo le braccia alzate
in segno di resa, «non
puoi continuare a boicottare il mio lavoro tartassando gli alunni.»
Stringeva gli infissi con disperazione mentre si sporgeva evitando
con cura un ramo del Tranello del Diavolo. «Un
ora fa,»
scandì bene le parole, «hai
spaventato Joseph, così tanto, che ha rischiato di tagliarsi
le dita
con le cesoie!»
«Gli
ho solo fatto presente che le cesoie, se utilizzate male, sono
pericolose.»
rispose una voce sarcastica.
«Ma
certo, che sbadato a non averci pensato da solo,»
replicò, dandosi una manata sulla fronte. «E
per farlo hai, inavvertitamente,»
calcò il tono, accompagnando la voce con dei gesti, «fatto
cadere il calderone contenente dei campanacci, mi spieghi dove li hai
trovati?»
Si interruppe perplesso per poi continuare, agitando la mano come se
la risposta risultasse superflua, «dunque
dicevo? Ah sì, hai fatto cadere il calderone e il baccano
improvviso
ha fatto trasalire il malcapitato tanto da fargli sfuggire le cesoie,
ti rendi conto della gravità del gesto? Poteva farsi molto
male.»
Urlò infervorato.
Dal
lato in ombra giunsero indistinti borbottii sulla stupidità
dei
giovani d’oggi. Per nulla rinfrancato, il professore si
bloccò al
centro della stanza assumendo un’aria minacciosa: si
portò le mani
sui fianchi, alzando il volto, inarcando le sopracciglia e
socchiudendo gli occhi marroni mentre piegava le labbra piene in una
smorfia adirata.
«Severus,»
esordì, «sposterò
il tuo quadro e da domani farai compagnia a Gazza nel ripostiglio in
fondo al corridoio del terzo piano, quello visitato da Pix, per la
precisione.»
Lo minacciò, orgoglioso con se stesso per non aver incrinato
la
voce.
«Non
credo di averle mai dato il permesso di chiamarmi per nome.»
Rispose per nulla turbato l’interlocutore che finalmente si
era
palesato in tutta la sua maestosa affettazione per poi continuare con
voce monocorde, «mi
porti rispetto. Le ricordo inoltre che è colpa sua se si
trova in
questa spiacevole
situazione,»
era evidente il tono sarcastico e per nulla pentito
dell’uomo,
«continuerà
a pagare per la sua insolenza!»
«Lo
sai, vero, che sono passati molti anni?»
Gli rispose esasperato il professore, ignorando l’implicito
avvertimento, «e
che ti ho chiesto scusa un milione di volte?»
«A
quanto sembra la sua arroganza è pari alla sua
sfacciataggine!»
Replicò Severus con voce sottile e sibillina.
«Perfetto,
se questa è la tua volontà ora chiamo Doffin e ti
faccio spostare
immediatamente.»
Lo minacciò, esibendo il dito come fosse una spada. «Rimarrai
a languire nella tua testardaggine, visto che da lì non ti
puoi
muovere,»
sogghignò cattivo, «e,
come unico panorama, potrai godere solo della vista di Gazza mentre
coccola la sua gatta.»
Disse risoluto. «Forse,
devo ricordarti che sei stato bandito dall’ufficio della
Preside?
Che in tutto il Mondo Magico nessuno, e sottolineo nessuno, vuole
vedere la tua faccia arcigna? Che nemmeno Draco, il tuo figlioccio,
è
disposto ad ascoltare le tue rimostranze sulla sua vita amorosa?»
Elencò serafico. «Questo
è tutto.»
«Non
puoi farlo davvero.»
Balbettò confuso Severus, senza rendersi conto di avergli
dato del
tu.
«Consideralo
già fatto.»
Continuò il giovane mentre esibiva un sorriso derisorio
davanti
all’evidente sgomento del vecchio professore. Girò
sui tacchi e
aprì l’uscio per richiamare l’attenzione
di un piccolo elfo
intento a pulire il camino colmo di cenere. «Doffin,»
richiamò l’attenzione dell’elfo con voce
gentile, «saresti
così...»
Non concluse la frase perché Severus lo interruppe, con voce
rassegnata, dicendo:
«E
va bene! Però non credere che ti perdoni per come hai
scacciato il
tuo Molliccio!»
La voce irritata del mago era condita con il vetriolo.
«D’accordo,»
accondiscese, con un sorriso sotto i baffi, «rimani
pure abbarbicato nella tua roccaforte, ciò non toglie che in
quella
occasione sono stato magistrale. Riddikulus!»
Soffiò leggero, agitando con un colpo secco la bacchetta
verso un
piccolo cofanetto che aveva appena scoperchiato, e, come per magia,
il suo inquilino si trasformò in un uomo vestito in un
vecchio abito
verde da donna. «Come
puoi notare, sei ancora tu la mia più grande paura.»
Il
giovane uscì, lasciando dietro di sé una risata
allegra; intanto,
il Molliccio si andava sgonfiando fino a scomparire del tutto.
«Neville
Paciock, torna subito qui!»
Tuonò Severus, rimanendo inascoltato.
Note
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