Passato e presente
CAPITOLO 2
PASSATO E PRESENTE
“Okay, gente: voglio l’articolo per domani, e che sia
completo di interviste ai vari scienziati e ricercatori! L’anima
di questa città è la scienza, e noi adesso dobbiamo fare
respirare a tutti aria di scienza: la notizia di questo esperimento mai
tentato prima deve fare l’invidia di tutti i laboratori esteri,
chiaro?”,
“Ma signor Robert, per questo c’è già il CERN!”.
Tutti scoppiarono a ridere.
“Grazie dell’informazione, Alain. Ma a noi giornalisti
spetta il compito di promuovere la nostra scienza e cultura il
più possibile in tutto il mondo”, rispose il direttore, un
po’ piccato.
“Dunque, dovremo presenziare all’inaugurazione
dell’esperimento, e magari rompere un po’ l’anima a
qualche scienziato perché ci riveli i particolari,
giusto?”,
“Esattamente, Viviane. E domani voglio un resoconto dettagliato. Lo esigo, mi sono spiegato?”.
Jeudi rideva sotto i baffi. Quando Robert voleva fare il despota ci
riusciva molto bene, pensava; peccato che in realtà lui fosse un
tenerone, come lei stessa aveva avuto modo di constatare alla festa di
compleanno di sua sorella Martha, mesi prima.
I presenti si accinsero a lasciare la sala; Jeudi si stava unendo a
loro, quando Robert la trattenne per un braccio “No, tu no Jeudi.
Tu non devi andare con loro. Tu resti qui: dobbiamo precisare i termini
della tua intervista con Aschenbach”.
Quando furono rimasti soli, si sedettero di nuovo.
“Allora, Jeudi… lui arriva domani alle 11,30; dovresti
andare a prenderlo all’aeroporto. Mi hai detto che vi conoscete,
quindi non dovrebbero esserci problemi. Jeudi… ma mi
ascolti?”,
“Cosa? Oh, certo Robert. Continua pure”,
“No, è inutile. Non mi stai ascoltando. A che pensi?”.
Jeudi stava ripensando a Leonhard e ai tempi in cui stavano assieme.
Lui era travolgente e dolce allo stesso tempo, lo ricordava bene; e poi
era bello, sfacciatamente bello. Chissà se sarà ancora
così, si chiedeva.
“Jeudi! Ma stai dormendo?!?”, ora il suo direttore l’aveva scossa per un braccio,
“Che?!? Sì, ti ho sentito, Robert. Devo andare a prenderlo in aeroporto. C’è altro?”,
“Tu non me la racconti giusta. E sia! Tanto non posso metterti
alla tortura per farti parlare! Tieniti i tuoi problemi, dato che non
vuoi confidarti, ma cerca di eseguire bene il lavoro che ti ho
assegnato”,
“Contaci, Rob! A domani!”.
In macchina verso casa, la donna ripensava ancora a Leonhard; e
ripensandoci arrossiva: un po’ per l’imbarazzo che le
provocava il ricordo dei momenti intimi passati con lui, un po’
per il senso di colpa per non essersi più fatta viva con lui.
Cosa gli avrebbe detto a riguardo, l’indomani,
all’aeroporto?
Passò vicina alla strada dove si trovava il meccanico di Lundi;
“Quasi quasi faccio un salto da lui, per vedere se la macchina di
Lundi è pronta: gli farà piacere”.
Girò a destra e si infilò in una traversina; percorse un
altro tratto, fermandosi davanti ad una saracinesca alzata;
dall’interno del garage le venne incontro un uomo in tuta da
lavoro. “Buonasera, signora Corot – le disse – Cosa
posso fare per lei?”,
“Desidererei sapere se la macchina di mio marito è pronta”.
L’uomo rimase interdetto “La macchina del signor Corot? Ma
non è qui! A dir la verità, è un po’ che non
lo vedo”.
Jeudi restò basita. “Ma… ne è sicuro?
Credevo che fosse qui, me lo ha detto lui… magari se ne è
occupato qualcuno dei suoi inservienti, e l’ha
riconsegnata!”,
“Impossibile, signora: i miei inservienti in questi giorni non ci
sono: uno è in ferie, e l’altro a letto con la
febbre!”.
Jeudi avvertì una sorda fitta di preoccupazione. “Allora
mi sarò sbagliata. Scusi per il disturbo. Buonasera!”,
“Buonasera a lei, signora!”.
Risalita in macchina, si appoggiò al volante. Perché Lundi le aveva mentito? Prima non era mai successo.
Rimise la propria macchina in moto; ma per tutto il tempo della strada,
non riuscì a trovare una spiegazione plausibile. Forse che aveva
avuto un tamponamento e non voleva che lei lo sapesse? Ma per quale
ragione? E dov’era la macchina?
Rientrando a casa, fu colta da un sospetto; si avvicinò al
deposito sul retro del giardino, quello che non usavano più come
garage, prese le chiavi, l’aprì. E vi trovò dentro
la macchina.
La guardò bene: sembrava tutto a posto, niente ammaccature
sospette, né altro che potesse far pensare ad un incidente.
Cercò di aprire la portiera, ma era chiusa. Allora vi
guardò dentro: tutto regolare. Ma allora che motivo c’era
di fare tanti misteri?
Per il momento, decise di non dir nulla al marito; preferì
cercare di capire da sola: avrebbe senza dubbio ottenuto di più.
Poi si ricordò dello strano episodio della sera precedente, la
cicca di sigaretta. O almeno, così le aveva detto Lundi; lei
quella cicca non l’aveva vista affatto. E se non fosse stata una
cicca, ma qualcosa d’altro? Qualcosa che lui credeva di aver
perso in macchina e che aveva invece ritrovato tra i cuscini del
divano? E di cosa poteva trattarsi? Qualunque cosa fosse, era qualcosa
che lei non doveva vedere.
La sua inquietudine aumentò.
Quella sera, approfittando del fatto che il marito fosse ad una cena di
lavoro, non cenò; fece mangiare il figlio, lo mise a letto, poi
andò a dormire anche lei.
L’indomani l’aspettava un appuntamento con il passato. L’aspettava Leonhard.
E’ risaputo che quando temiamo od aspettiamo con ansia qualcosa,
la notte precedente ci sembra interminabile: le lunghe ore nel buio non
passano mai, avvolte dal silenzio, ed il sonno di chi ci è
accanto ci sembra quasi un insulto alle nostre ambasce; quanto a noi,
il sonno neanche ci sfiora, preferendo rifuggire da chi ha
l’animo pungolato da mille piccoli spilli che lo trafiggono, vuoi
per curiosità, vuoi per ansia, vuoi per trepidazione; quando,
poi, il signor Morfeo si decide a farci visita, in modo inconsapevole
ed inaspettato, fuori sta già sorgendo l’alba, ed è
proprio il momento in cui meno credevamo di poter cedere alla
stanchezza della lunga veglia!
Fu ciò che accadde a Jeudi nella notte che precedette l’arrivo di Leonhard.
Non aveva quasi chiuso occhio, sia per i dubbi sulla menzogna del
marito, sia per l’ansia di rivedere il suo ex-amore di tanti anni
prima. Ovviamente, non aveva fatto parola a Lundi, né
dell’una, né dell’altra cosa, data la ultimamente un
po’ troppo pronunciata tendenza di lui alla lite; così si
truccò, si vestì in fretta ed uscì.
All’aeroporto trovò la stessa situazione che aveva
lasciato tre giorni prima, al suo arrivo: fretta, confusione, voli in
ritardo, controlli meticolosi. Un viavai di gente, come al solito.
Si sedette e si mise ad aspettare; il volo da Vienna risultava in
orario: sarebbe atterrato tra una mezz’ora, quindi aveva tutto il
tempo di preparare gli appunti per l’intervista. Ma più li
rileggeva, meno riusciva a concentrarsi su quei fogli: il suo pensiero
era assorbito dai ricordi.
Leòn era stato il suo unico ragazzo: a lui aveva dato il suo
primo bacio, con lui aveva fatto per la prima volta l’amore; si
amavano, sembrava avrebbe dovuto durare per sempre; invece
all’improvviso si erano lasciati; poi, per tanto tempo si erano
persi di vista; ed ora, che effetto le avrebbe fatto rivederlo? Dopo
quello che c’era stato fra loro, non poteva certo dirgli
“Buongiorno signor Aschenbach, sono l’inviata del giornale,
quindi limitiamoci all’intervista”! Ma che cosa gli avrebbe
detto?
Le immagini di un tempo lontano le si riaffacciarono alla mente: lei e
Leòn seduti su di un prato, in una primavera lontana, per un
pic-nic improvvisato, che mangiavano e ridevano; intorno a loro un
gruppo di persone, di amici… non c’era Lundi, allora.
Jeudi socchiuse gli occhi: ricordò una mano di Leòn tra i
suoi capelli, poi sul suo viso a sfiorarle le labbra… un brivido
le corse lungo la schiena, e poi giù per le gambe fino ai piedi.
Chiuse le mani sul velluto del sedile sul quale si trovava; il contatto
con la stoffa le diede la sensazione che le punte delle sue dita
prendessero fuoco. Si sentì avvampare il viso, si portò
le mani alle guance: possibile che il ricordo di Leòn le recasse
ancora simili sensazioni?
Cercò di calmarsi e di darsi un contegno: dopotutto, era in
pubblico! Si raddrizzò sul sedile, si schiarì la voce e
si guardò attorno: nessuno si era accorto di lei, meno
male! L’attenzione di tutti i presenti era calamitata da un uomo
che usciva dall’ufficio bagagli smarriti parlando a voce molto
alta: si può dire che urlava.
“Siete un branco di incapaci! Quei vini erano di valore! Era
un’intera cassa, un regalo per mio fratello e la sua famiglia!
Adesso dovrete risarcirmi!”, “Si calmi, signore, le abbiamo
detto che la sua cassetta arriverà domani sera al suo albergo.
Altrimenti perché le avremmo chiesto l’indirizzo? E’
stata solamente spedita per sbaglio in un altro aeroporto, ma
l’hanno ritrovata”, “Storie! Se anche
arriverà, le bottiglie saranno in pezzi! Esigo un
rimborso!”.
La scena, in effetti, stava attirando l’attenzione di diverse
persone; anche Jeudi si alzò e si avvicinò per vedere
meglio.
D’un tratto sentì una mano sulla spalla, ed udì una
voce “L’ha presa un po’ male, vero?”.
Jeudi si sentì mancare il respiro: era la voce di Leonhard!
L’aveva riconosciuta perfettamente, come se l’avesse
sentita il giorno prima. Ma esitò a voltarsi: lui come sarebbe stato, dopo tanti anni? Trascorsero secondi sospesi, lunghi come secoli.
Poi si voltò.
Un abbaglio. Una visione dal passato. Leonhard, identico a tanti anni
prima, che sembrava uscito da una fotografia di quei tempi:
un’immagine del passato che aveva preso vita! Come se gli anni
non fossero passati.
“Leòn… sei proprio tu… è… incredibile, davvero!”.
Lui le sorrise. “Ciao, Leòn”, gli disse lei in risposta al suo sorriso.
Per tutta risposta, lui la prese tra le braccia e la baciò, con
le labbra chiuse, sulla bocca, lasciandola basita. Anche i suoi modi
non erano cambiati, pensò Jeudi: erano sempre travolgenti ed
appassionati.
“Neanche tu sei cambiata”, le rispose lui, quasi le avesse
letto nel pensiero, “rivederti è stata una vera
sorpresa”.
Jeudi non sapeva cosa rispondere: continuava a guardarlo, balbettando.
Fu lui a toglierla dall’impiccio: “Allora, vogliamo restare
a vedere come finisce la telenovela della cassa di vini, oppure andiamo
al tuo giornale?”, rise,
“Io… ecco… andiamo, naturalmente!”.
Si avviarono all’uscita, verso il parcheggio. Per tutto il
tragitto, Jeudi non smise di tormentare le chiavi della macchina con le
mani.
Le dodici. La prima parte dell’intervista era finita. Come al
solito, Jeudi aveva fatto un buon lavoro. In piedi, davanti al grande
tavolo tondo della sala delle riunioni, adesso vuota, riordinava alcuni
fogli; Leonhard,seduto, la guardava con aria beata.
“Simpatici, i tuoi colleghi”, le si rivolse,
“Grazie. Anche tu sei piaciuto”.
E’ molto rigida, pensò lui: troppo rigida. Sembra un
appendiabiti. Questi non sono i modi della Jeudi che conoscevo io.
Leòn si sporse sul tavolo “Sei diventata di poche parole. Come mai non mi chiedi nulla?”,
“Le domande dell’intervista non ti sono bastate?” fece lei senza alzare lo sguardo dai fogli,
“Non mi hai chiesto la cosa più importante”,
“Cioè?”,
“Come facevo a sapere che ad attendermi ci saresti stata proprio tu”.
Jeudi si arrestò. Già, è vero, pensò. Come
faceva a saperlo? Decise di chiederglielo, ma lui la prevenne:
“Me lo ha comunicato il direttore del tuo giornale: quando mi ha
contattato per chiedermi un’intervista ed io ho accettato, gli ho
chiesto il nome di chi sarebbe venuto ad accogliermi ed a farmi
l’intervista. Non immagini la mia sorpresa quando ho sentito il tuo nome!”.
Per la prima volta dopo un quarto d’ora buono, Jeudi ebbe il
coraggio di alzare gli occhi e guardarlo in viso. Sorrise. Quindi si
sedette anche lei, abbandonando i fogli e rilassandosi sulla
poltroncina.
“Tu sei sempre una sorpresa, Leòn: lo eri allora e continui ad esserlo anche ora.”,
“Anche tu non scherzi con le novità: il tuo nuovo cognome non lo conoscevo ancora”.
Lei sorrise di nuovo “Mi sono sposata” disse, “Questo
lo so. Anche questo me lo ha riferito il tuo direttore: “si
occuperà di lei la signora Jeudi Brendell in Corot” mi ha
detto”.
Ci fu una pausa. Passarono lunghi minuti di assoluto, interminabile, assordante silenzio.
“E tu sei sposato?” gli chiese lei,
“No. Il mio cuore non riesce a riprendersi”,
“Da cosa?” fece Jeudi con aria divertita; lui si fece
serio, a metà strada tra il corrucciato ed il triste “Dal
colpo che mi ha inflitto una bellissima ragazza tanti anni fa,
rifiutando di seguirmi a Salisburgo e lasciandomi da solo”.
Jeudi congiunse le mani sul tavolo ed abbassò lo sguardo.
Sospirò. “Perdonami, non te l’ho mai detto”,
gli rispose,
“Detto cosa?”,
“Poco dopo la tua partenza, i miei genitori sono morti in un
incidente, ed io ho dovuto occuparmi di mia sorella e di tutte le
incombenze familiari”.
Leòn tacque. Non si era certo aspettato una risposta di questo
tipo. “Scusami, non lo sapevo”, le disse con un filo di
voce.
“Non fa nulla”, rispose lei.
Rimasero per un po’ in silenzio, seduti al tavolo, gli occhi bassi.
Jeudi sapeva di essersi comportata male nei confronti di Leòn;
eppure, lui non le aveva dimostrato né odio né
risentimento: solo un’inconsolabile amarezza.
“Ma adesso siamo qui” proruppe lui “ed abbiamo anche
finito l’intervista! Perché non ce ne andiamo a fare
qualcosa di bello?”.
Jeudi avvampò. Ricordava quando lui le si presentava
all’improvviso a casa, nel suo appartamento da studentessa,
magari con un mazzo di fiori, e le diceva di voler fare l’amore
subito, lì, sul divano, approfittando dell’assenza delle
sue coinquiline. Lei non riusciva mai a resistergli: Leonhard in un
attimo sapeva sciogliere tutte le sue barriere.
Ma anche stavolta lui sembrò averle letto nel pensiero. Rise. “No, non intendevo quel qualcosa lì”
le ammiccò “lo so che ora sei sposata. Volevo dire…
perché non ce ne andiamo un pò in giro? Presentami la tua
città”.
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Questo capitolo è dedicato a Ninfea 306: ANCORA GRAZIE!!!!!
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