Long & Lost

di Hermione Weasley
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Note: premetto subito che la storia è stata scritta prima che uscisse Civil War. In comune col film ha soltanto gli schieramenti (per altro solo menzionati) e nient'altro, quindi non contiene spoiler e non segue il canon MCU per quanto riguarda le coppie.
Secondo, la vicenda - divisa in quattro parti già scritte, ciascuna a tema "stagionale" - è ambientata circa dieci anni dopo la fine della guerra civile. Clint dovrebbe avere sui 50 anni, Natasha sui 40. Il motivo per cui ho scritto la storia è che di solito si tende sempre a scrivere AU dove sono più giovani, ma non mi è mai capitato di leggerne dove sono più vecchi. Quindi ecco qua :P
La situazione è spiegata credo abbastanza chiaramente nel capitolo. L'unica cosa che mi sento di precisare subito è che Clint e Natasha erano decisamente più che amici prima dello scoppio della guerra civile. La storia riguarda soltanto loro - c'è una sola apparizione (sporadica) di un altro Avenger.

Credo di aver detto tutto quello che c'è da dire (: ringrazio la beta Sheep01 che legge sempre tutto in anteprima e tiene vivo il neurone clintashoso ù_ù
Buona lettura e fatemi sapere che ne pensate!

Disclaimer: i personaggi menzionati appartengono a Disney e Marvel. La storia non è stata scritta a scopo di lucro.




Long & Lost

 

Is it too late to come on home?
Are all those bridges now old stone?
Is it too late to come on home?
Can the city forgive? I hear its sad song

(Florence + the Machine – Long & Lost)

 

 

(Autunno)

 

*

 

 

Accelerò non appena la sbarra del passaggio a livello divenne visibile sul fondo della strada, ma era già troppo tardi.

Natasha la guardò abbassarsi lenta ed inesorabile, costringendola a spostare il piede sul freno. Ancora pochi attimi e l'auto si fermò del tutto.

Lasciò scivolare le mani dal volante, innervosita da quell'inaspettato contrattempo. Controllò l'orologio e lo specchietto retrovisore quasi ossessivamente, come se l'inerzia imposta dalla pausa imprevista richiedesse un sovrappiù di gesti e le risultasse quindi insopportabile.

L'aria era tersa e immobile oltre i finestrini di spesso vetro antiproiettile; non avrebbe disdegnato un po' d'aria, ma tenerli abbassati sarebbe stato inutile. Stupido, persino. Non che la strada fosse affollata – tutt'altro: erano passate almeno due ore dall'ultima volta che aveva incrociato anima viva.

Aveva seguito le indicazioni che si era curata di imparare a memoria ormai diversi anni prima e, man mano che le tappe si polverizzavano sotto i pneumatici, il panorama era diventato sempre più rarefatto e ostile, la vegetazione più selvaggia e opprimente.

L'antiquato passaggio a livello era in linea con l'atmosfera circostante. Il treno che si materializzò alla sua destra, macinando a fatica la distanza, sembrava uscito da una pittoresca e inquietante illustrazione per bambini.

Si costrinse a rilassarsi, a ricordarsi che non c'era motivo d'agitarsi. Faceva freddo ed era attualmente dispersa tra le foreste del Nevada; aveva preso meticolose precauzioni per assicurarsi di non essere seguita, ripetendosi poi – almeno un migliaio di volte – che non ce ne sarebbe stato bisogno. Non realmente.

Finì per coprirsi il viso con una mano, stropicciarsi gli occhi e massaggiarsi una tempia mentre il treno si avvicinava sempre di più. Ancora qualche secondo e le sarebbe sfrecciato proprio davanti.

Schiacciò le spalle al sedile, lo sguardo che vagava distrattamente sul posto del passeggero su cui aveva poggiato uno spesso file tenuto insieme da un paio di grossi elastici.

Lo stomaco si strinse e, per quella che doveva essere almeno la ventesima volta da quando era partita da Washington, pensò che era stato tutto un madornale errore di valutazione da parte sua. Che credeva di fare esattamente? Presentarsi dopo quasi dieci anni e chiedere un favore come se niente fosse successo?

Il panico le serpeggiò nello stomaco, gelido e familiare; le avevano detto che invecchiando avrebbe trovato l'equilibrio che le mancava, ma più il tempo passava e più Natasha realizzava che le cose non facevano che peggiorare. Gli attacchi d'ansia, l'insonnia, la tachicardia che la coglievano impreparata nei momenti meno opportuni – magari durante un briefing o una riunione di capitale importanza – erano ormai sgraditi e fedeli compagni dei suoi giorni.

Si impedì a stento di inserire la retromarcia e allontanarsi il più lontano possibile, fare dietrofront e ripercorrere al contrario le infinite miglia che aveva frapposto tra sé e Washington. Era un viaggio che non aveva senso, quello: lo scopo era insensato, talmente ridicolo da obbligarla a combattere contro se stessa pur di non desistere; il tragitto – che prevedeva l'attraversamento degli Stati Uniti d'America da una costa all'altra – semplicemente folle.

Ma non era un caso. In fondo sapeva di aver pianificato un itinerario tanto pazzesco per mettersi in condizione – più d'una volta – di ritornare sulle proprie decisioni, mettere alla prova la propria resistenza, testare il proprio coraggio. E per adesso aveva avuto ragione, la sfida era vinta: dopo due giorni di viaggio, la meta era finalmente alla portata d'un paio d'ore. Ce l'aveva quasi fatta.

Quasi.

Il treno sfrecciò davanti alla vecchia jeep; una macchia scura che le oscurò la visuale per un interminabile attimo. L'ultimo vagone sparì e il cielo – una distesa autunnale, grigia e fredda – tornò a riaprire il suo gelido sipario, tutt'altro che invitante.

La sbarra bianca e rossa si sollevò con un cigolio sommesso, dandole il via libera.

Prima che potesse sfiorare anche solo col pensiero l'idea di tornare indietro, Natasha schiacciò il piede sull'acceleratore.

 

*

 

La casa era una vecchia baita nascosta tra altissimi abeti. Era sicura ci fosse un lago, poco distante, ma dalla strada non era riuscita ad individuarlo.

Spense il motore quand'era ancora in fondo all'ideale vialetto che conduceva dritto dritto fino al portico della casetta; ideale perché non era altro che un sentiero invaso da erbacce e macchie umide lasciate dalle prime, deboli nevi.

Sbirciò l'abitazione attraverso il parabrezza: le fronde degli alberi le si chiudevano addosso in gelosa protezione; il tetto era stato rattoppato in più punti e lo stesso poteva dirsi dei gradini dell'ingresso e della parete frontale.

Il mozzicone di un comignolo di pietra svettava dal tetto spiovente, ma non c'era neanche un alito di fumo ad attorcigliarsi nell'aria.

Strinse con forza il volante tra le mani finché le nocche non diventarono bianche per la tensione.

I dubbi l'assalirono di nuovo, più decisi e sferzanti che mai. In fondo chi le assicurava che la casa fosse ancora abitata? Tutti i segni dell'abbandono erano proprio lì, davanti ai suoi occhi; sarebbe stato stupido non prenderli in considerazione.

Solo a quel punto, per un improvviso capovolgimento, la paura si trasformò in delusione – delusione cocente e insopportabile di aver fatto tutta quella strada per niente. Di aver sconfitto se stessa almeno un milione di volte per convincersi a continuare e di averlo fatto inutilmente.

L'urgenza di capire se avesse fatto o meno un buco nell'acqua la spinse a scendere dalla jeep, ma non prima di aver recuperato una vecchia Glock dallo scomparto del cruscotto e averla infilata nella cintura. Le vecchie abitudini erano davvero dure a morire.

Si ricordò del file all'ultimo secondo, strappandolo al sedile del passeggero per metterlo sottobraccio.

Il tonfo sordo della portiera che si chiudeva fece levare in volo, spaventati, alcuni uccelli appollaiati sui rami più bassi: non avevano l'aria di essere abituati alla presenza dell'uomo, il che non fece che aggravare i suoi sospetti e peggiorare il suo nervosismo.

Si avviò su per il corto sentiero quasi del tutto inghiottito dalla vegetazione. Il buon senso le impose di muoversi lentamente: se c'era davvero qualcuno, in quella baita, non aveva intenzione di presentarglisi come un pericolo imminente.

Non smise di guardarsi attorno con attenzione quasi ossessiva, pronta a recepire il minimo segno di movimento; ma non successe niente del genere. Raggiunse il primo gradino dell'ingresso nel totale disinteresse degli alberi, degli animali, del cielo grigio e cupo del primo pomeriggio.

Le assi scricchiolarono sinistramente non appena mise piede sullo scalino.

Restò in attesa. Ancora niente.

Il silenzio quasi opprimente, lo stridore lontano di uccelli che neanche riusciva a vedere, cominciarono ad agitarla. Si strinse il file al petto e si obbligò a salire anche gli altri tre gradini, evitando all'ultimo secondo di mettere piede in un punto in cui il legno sembrava essere marcito.

Avvicinò la porta, allora, protetta da una zanzariera strappata in prossimità della maniglia, arricciata agli angoli e tenuta ferma da alcuni chiodi arrugginiti. Alzò una mano e, prima di poterci ripensare, bussò.

Fece un passo indietro e attese. Attese per un minuto intero prima di riprovarci.

Di nuovo nessuna risposta.

Il cuore prese a batterle rapido in petto, minacciando di impegnarsi in una delle sue solite corse, di quelle che le toglievano il fiato e la obbligavano a mettere in pratica tutte le tecniche che aveva imparato, nella sua lunga carriera, per imporre all'agitazione di recedere in un remoto angolo della sua testa.

Si spostò verso le finestre, ma quelle sul davanti erano chiuse entrambe, celando l'interno della baita alla vista; se solo avesse potuto dare un'occhiata, avrebbe capito se l'incuria era dovuta alla mancanza di esseri umani che se ne prendessero cura o, piuttosto, al loro disinteresse.

Ridiscese i gradini, spostandosi sul lato e circumnavigando il piccolo edificio: più il tempo passava e più si muoveva rapida, impaziente. Si soffermò sul retro per poi dirigersi a passo spedito verso l'unica finestra del primo piano; si accorse con sollievo che, seppur sigillata, lo scuro interno non era del tutto chiuso.

Forse era colpa del battito cardiaco che le martellava furiosamente nelle tempie, o forse della distrazione cui il lavoro d'ufficio l'aveva ormai abituata – fatto stava che Natasha si accorse dei passi alle sue spalle con un secondo di ritardo.

Fece appena in tempo a scorgere l'ombra scura che si disegnava riflessa sul vetro, di torcere la mano dietro la schiena per raggiungere la pistola nascosta sotto il cappotto e sfiorarne il calcio... prima che il suono secco e nitido di un fucile che veniva caricato non le risuonasse alle spalle.

«Non ci pensare neanche», le intimò una voce bassa e roca che avrebbe riconosciuto tra mille. «Alza le mani... e lascia cadere a terra il fascicolo.»

Natasha obbedì, tenendo gli occhi bassi e le mani sollevate. Il file, invece, finì tra le foglie umide che tappezzavano il terreno.

«Adesso girati... molto lentamente. Nessuno scherzo o sparo», stabilì duramente la voce. Era diversa da come la ricordava e al tempo stesso così familiare da farle contorcere lo stomaco.

L'agitazione minacciava di toglierle il respiro e il panico che l'impazienza aveva temporaneamente dissolto tornò a farsi sentire a piena potenza. Si pentì di aver fatto tutta quella strada, si pentì di aver preso una decisione tanto stupida e si pentì di essersi messa in condizione di ricevere una reazione che – ne era certa – non sarebbe stata positiva.

Perché lei al suo posto non avrebbe voluto saperne: l'avrebbe mandato via, rispedito per direttissima da qualsiasi buco di fetente burocrazia dal quale era uscito.

«Ho detto di voltarti», insisté la voce, prendendo un'inflessione diversa, arrabbiata e severa ma con il più piccolo indizio di disperata frustrazione.

Con tutta la sua concentrazione focalizzata sul non farsi tremare le mani troppo vistosamente, Natasha ruotò lentamente su se stessa fino a fronteggiare l'uomo che le stava di fronte. E poi le mani presero a tremare, perché mantenere neutrale la propria espressione divenne la priorità assoluta.

Scarponi sporchi di terra. Jeans scoloriti e macchiati di fresco in corrispondenza delle ginocchia. Una camicia in plaid rossa e nera; le maniche arrotolate fino ai gomiti nonostante il freddo d'inizio novembre e scucita in almeno un paio di punti, a lasciar intravedere la t-shirt bianca sottostante.

Si costrinse a puntare lo sguardo sul viso ricoperto di una fitta barba biondiccia, sui capelli un po' troppo lunghi, sugli occhi grigi che la fissavano carichi di rabbia, stupore, paura... e almeno un altro centinaio di cose che forse avrebbe saputo riconoscere, non fosse stata tanto agitata.

«T-Tasha?» lo sentì biascicare, incredulo.

La canna del fucile con cui ancora la teneva sotto mira sussultò impercettibilmente, ma rimase dov'era.

«Barton», ricambiò soltanto, meno stentata di quanto avesse temuto.

Erano passati nove anni e cinque mesi dall'ultima volta che si erano visti.

 

*

 

«Che hai fatto ai capelli?» fu la prima cosa che le chiese, dopo averle fatto bruscamente cenno di prendere posto al tavolo di legno grezzo che campeggiava nella piccola cucina.

«Il rosso mi rendeva troppo riconoscibile», rispose, appoggiando il file sporco di terra sulla sedia libera accanto alla sua.

La situazione aveva un che di surreale: le pareva essere trascorsa una vita intera da quando si erano divisi al confine tra gli Stati Uniti e il Canada... eppure adesso era in casa sua e stavano parlando dei suoi capelli, tinti di castano scuro ormai da diversi anni – un po' per precauzione, un po' per una bizzarra punizione e un po' perché ormai gli sporadici capelli bianchi erano una seccatura anche per lei.

Clint rimase immobile per un lungo istante. Aveva abbandonato il fucile all'ingresso, ma non si era tolto gli scarponi prima di condurla in cucina. Le occhiate che le lanciava e il modo un po' goffo in cui si spostava le fecero capire che non era abituato ad avere ospiti... o altri esseri umani nelle vicinanze.

«Ho solo caffè», si scusò in anticipo prima di mettersi a rovistare nei vari sportelli.

Natasha non si mosse, limitandosi a seguirlo con lo sguardo. Stava aspettando che il disagio che le serrava lo stomaco si polverizzasse, perché con Clint era così che le cose avevano sempre funzionato; ma i secondi passavano e l'angoscia era sempre lì, a tormentarla.

Rimasero in silenzio mentre lui preparava il caffè.

«Credevo non ci fosse nessuno», si sforzò di dire.

«Non è un castello», si giustificò Clint sulla difensiva, intuendo le sue riserve. «Come hai fatto a trovarmi?»

Avrebbe potuto dirgli che erano almeno quattro anni che sapeva che era andato a rifugiarsi da qualche parte in Nevada, sulle sponde del lago Tahoe; avrebbe potuto, ma non lo fece. Perché avrebbe implicato confessare che per altrettanto tempo non aveva sentito il bisogno di vederlo o di andarlo a cercare – il che, ovviamente, sarebbe stata una menzogna bella e buona.

«Verranno?» chiese di nuovo Clint, voltandosi per lanciarle una penetrante occhiata.

«No. Sei al sicuro.»

Le parve di registrare un minimo segno di sollievo nei suoi occhi grigi, ancora carichi di sorpresa e sospetto.

Provò a rilassarsi sfilandosi la sciarpa pesante e appoggiandola sul tavolo, a guardarsi attorno, nonostante tutto curiosa. Per quel che aveva potuto scorgere, l'interno della baita aveva l'aspetto di un glorificato capanno da caccia. I mobili e gli elettrodomestici erano vecchi, ma funzionali. Quel che era evidente era la totale mancanza di tecnologia o tracce di un altro essere umano.

Giurò di aver intravisto arco e frecce abbandonati all'imboccatura del salotto, ma Clint le poggiò una tazza di caffè caldo sotto il naso, costringendola a deviare la sua attenzione.

«Perché sei qui?» le chiese senza mezzi termini. Non si sedette: restò in piedi, appoggiato contro il bancone della cucina.

L'irruenza, il suo andare dritto al punto, le fecero capire che non ci sarebbero stati né convenevoli, né ragguagli su ciò che, in tanti anni, era successo nelle loro vite. Non che si fosse aspettata di essere accolta a braccia aperte – tutt'altro – ma una cosa era figurarsi la sua reazione, un'altra era sperimentarla sulla propria pelle.

Era invecchiato, ma i capelli erano ancora del solito biondo, gli occhi sempre accesi e attenti, il fisico ancora prestante. Non aveva la più pallida idea di come riempisse le sue giornate in un posto del genere, ma immaginava che includessero lunghe passeggiate nel bosco, legna da tagliare, riparazioni da effettuare... magari aveva un lavoro. A questo non aveva ancora pensato.

Neanche l'aria di chi sembra portare sulle proprie spalle il peso del mondo se n'era andata.

«Natasha», insisté, perché si era persa di nuovo. Si chiese se fosse capace di immaginarsi, anche solo lontanamente, l'effetto che le faceva sentirgli pronunciare il suo nome dopo così tanto tempo.

Ignorò la tazza di caffè e recuperò il file dalla sedia, poggiandolo sul tavolo davanti a sé.

«Ricordi i trafficanti di droga polacchi su cui abbiamo indagato nel 2008?»

L'operazione era durata un anno intero, con Clint che ne aveva trascorso una buona parte sotto copertura a Varsavia; decisamente una delle missioni a lungo termine più sfiancanti e impegnative della sua carriera – prima che gli Avengers entrassero in scena, s'intende.

Lo vide annuire. Continuava a fissarla con sfacciataggine o forse era aria di sfida: un'aggressiva curiosità di scoprire fin dove la sua faccia tosta si sarebbe spinta. Chi le aveva dato il permesso di presentarsi sulla soglia di casa sua? Come aveva potuto cedere tanto facilmente all'insopportabile voglia di rivederlo, di sapere cosa ne era stato della sua vita?

Quelli non erano più affari suoi da tanto tempo, da quando aveva deciso di stare dalla parte di Tony Stark e del Ministero della Difesa durante quella che, a cose fatte, era stata chiamata Guerra Civile – solo la seconda più popolare della storia americana.

Perché avrebbero dovuto, comunque? Si sarebbe dovuta accorgere in tempo che la situazione non si sarebbe mai risolta pacificamente, che la tensione che separava i due schieramenti avrebbe portato ad una deflagrazione d'imponderabili dimensioni. Come aveva potuto fidarsi del governo degli Stati Uniti? Come aveva potuto credere che un ammasso di burocrati avrebbero agito ragionevolmente ed evitare che si arrivasse al peggio?

Steve Rogers era morto anche per colpa sua, perché era stata troppo stupida, troppo scandalosamente ottimista per analizzare correttamente la situazione. Era stato un modo ingenuo, forse, di tenere insieme l'unica famiglia che avesse mai avuto.

E quando era stato troppo tardi non aveva potuto far altro che rimediare – male e inadeguatamente – al danno compiuto. Si era assicurata che Clint e chiunque avesse sostenuto Steve trovasse il modo di correre al riparo e di sfuggire alle grinfie del sistema nelle cui mani si era messa tanto inavvertitamente.

Per questo l'aveva condotto fino al confine col Canada. Per questo gli aveva detto di andarsene senza guardarsi indietro. Per questo aveva ignorato le sue domande e le sue richieste di accompagnarlo. Per questo gli aveva consegnato un borsone contenente pochi effetti personali, documenti falsi, qualche migliaio di dollari, e l'aveva lasciato.

A quei tempi non aveva immaginato che la decisione sarebbe stata tanto definitiva, ma col passare dei mesi aveva capito di non poter fare altrimenti.

Tutte le cose buone che era sicura di essersi guadagnata – perfino meritata – negli anni dello SHIELD, degli Avengers, si erano polverizzate davanti ai suoi occhi. Impossibili da recuperare.

E poi c'era stato il senso di colpa, talmente forte e schiacciante da impedirle di dormire per più di tre ore consecutive a notte.

A tutto questo ormai si era adattata, ma non senza pagarne le conseguenze.

«Certo che li ricordo», confermò Clint con evidente disinteresse.

Natasha era sicura che guardarla in faccia gli fosse più che sufficiente per leggerle negli occhi tutti i pensieri che le stavano ingombrando la mente. Si sentì dolorosamente vulnerabile e pure un po' ridicola per l'avventatezza di quella decisione (per quanto avventato potesse essere, in retrospettiva, un viaggio durato più di quarantotto ore che avrebbe potuto interrompersi in qualsiasi momento se solo l'avesse voluto).

Deglutì, cercando di non lasciar intravedere l'agitazione: «Sono riemersi qualche mese fa a Minsk. Siamo sicuri si tratti degl-»

«Chi è noi?» le chiese, facendo fatica a nascondere un improvviso disprezzo. Se per lei o per il fatto che stesse parlando di missioni e operazioni come se niente fosse successo, questo Natasha non seppe dirlo o valutarlo.

«Il nuovo SHIELD.»

«Vuoi dire il governo», la corresse.

Non rispose, né ribatté; tutti sapevano che il nuovo SHIELD non era altro che un'organizzazione fantoccio che si assicurava di proteggere gli interessi strategici degli Stati Uniti; la sicurezza mondiale non era più la priorità.

Sostenne a fatica il suo sguardo carico di disprezzo, delusione, derisione... o forse si stava immaginando tutto. Forse pretendeva di vedere nei suoi occhi quello che lei stessa provava nei propri confronti; non sarebbe stata la prima volta, ma non voleva illudersi che Clint avesse dimenticato – che l'avesse perdonata.

«Le modalità sono le stesse,» si costrinse a dire, «e nessuno conosce quell'operazione meglio di te».

«Credi che mi ricordi i dettagli di una missione di più di quindici anni fa?» le chiese, l'ombra di un sorriso incredulo ad increspargli le labbra.

«Ho portato il fascicolo,» alluse, «per rinfrescarti le idee».

Clint bevve un lungo sorso di caffè dalla tazza fumante appoggiata sul bancone, limitandosi ad osservarla in silenzio. Tutto ciò che c'era di storto in quella spiegazione era così evidente che quasi avrebbe desiderato essere smascherata e messa davanti alla realtà dei fatti; avrebbe voluto che Clint le ricordasse che riusciva a vedere attraverso le sue stronzate senza la minima difficoltà, che poteva mentire con chiunque, ma non con lui.

Ma tutto quello che fece fu annuire, amaramente divertito da una situazione che lei stessa trovava a dir poco surreale.

«Ti dirò tutto quello che mi ricordo», disse, prendendo posto al tavolo, davanti a lei. «Hai intenzione di prendere appunti?» chiese, non scontroso, ma indifferente.

«Pensavo di registrarti, se non ti dispiace.» Estrasse un vecchio registratore dalla tasca del cappotto.

«E quel pezzo d'antiquariato dove l'hai trovato?»

«I pezzi d'antiquariato non sono hackerabili o rintracciabili», spiegò; solo un patetico tentativo di fargli sapere che non era stata maldestra, che nonostante tutto la sua incolumità le stava ancora a cuore.

«Fa' pure», le concesse.

 

*

 

«Hai tutto quello che ti serve?» le domandò mentre Natasha si stava rimettendo la sciarpa.

Annuì senza rispondere. Tutto quello che voleva fare era uscire all'aria aperta e respirare a pieni polmoni: se fosse rimasta un altro secondo là dentro, temeva che il panico le avrebbe serrato la gola e non aveva la benché minima intenzione di dare spettacolo.

Dopo che ebbe recuperato il fascicolo, Clint le fece cenno di precederlo fino alla porta sul retro. Non ebbe neanche la prontezza di riflessi per mettere gli occhi su quanti più angoli possibili della casa, tanto l'angoscia minacciava di prendere il sopravvento.

Fu lui ad aprirle la porta in un eccesso di cavalleria un tantino grottesco; forse per prenderla in giro, realizzò Natasha, ma abbandonò il sospetto non appena l'ebbe formulato (non perché lo credesse falso, ma perché non era in grado affrontarlo).

«Natasha», la richiamò Clint, bloccandosi sulla soglia della baita. Aspettò che si voltasse verso di lui (atto che richiese energie che ormai scarseggiavano pericolosamente) per parlare di nuovo: «Perché sei venuta fin qui?»

Si bloccò, le mani in tasca e il file sottobraccio, e sperò che non si fosse accorto del pallore del suo viso, del cuore che continuava a battere troppo rapido. Forse gli anni trascorsi avevano arrugginito il loro legame al punto da impedirgli di leggerla come un libro aperto.

Perché era ovvio che non aveva guidato per più di due giorni per ottenere informazioni sul crimine organizzato polacco ricollocatosi in Bielorussia. Avrebbe potuto chiamarlo, contattarlo in qualsiasi altro modo; o – meglio ancora – servirsi dei verbali redatti a suo tempo: era pur vero che le scartoffie non erano la specialità di Clint, ma vi avrebbe comunque trovato l'essenziale.

Ma non l'aveva fatto. Aveva preferito partire da Washington sulla sua vecchia Corvette, raggiungere il Missouri dove il suo contatto le aveva fatto trovare una jeep dalla targa finta, registrata a nome di un illustre sconosciuto e discretamente blindata nel caso avesse fatto spiacevoli incontri lungo la strada.

Sapeva che la cosa migliore da fare era essere sincera, dirgli chiaro e tondo che aveva voglia di vederlo, che aveva combattuto contro se stessa per anni pur di vincere una tentazione che, alla fine, aveva comunque avuto la meglio.

Invece gli mostrò il registratore, come a ribadire – vigliaccamente – che era stato il lavoro a portarla fin lì. Un lavoro che, a ragione, Clint aveva imparato a disprezzare.

Non le parve sorpreso, solo riconfermato in una delusione che non aveva smesso un secondo di adombrargli gli occhi.

«Ti trovo bene», le disse però, colpendo dove sapeva di poter far male: combattere la menzogna con la sincerità – che altro?

«Anch'io», ammise, lo stomaco contorto in un groviglio inestricabile. In tempi diversi avrebbe risposto con una battuta ad effetto, ma era troppo occupata ad ignorare una nuova, improvvisa e ridicola voglia di piangere per pensare a qualsiasi altra cosa.

«Ci vediamo, Clint», esalò dopo aver raccolto l'ultimo briciolo di convinzione che le restava.

«Romanoff», disse solo, dandole indirettamente il permesso di voltargli le spalle e andarsene una volta per tutte.

Non le credeva. Non le aveva creduto neppure per un attimo.

Natasha annuì, combattuta tra la voglia che aveva di guardarlo il più a lungo possibile – quando le sarebbe ricapitato? – e quella, altrettanto forte, di andarsene. Fu quest'ultima a vincere; se ne accorse solo quando realizzò di essere tornata all'auto praticamente di corsa.

«Vigliacca,» bisbigliò a mezza voce, «vigliacca, vigliacca, vigliacca».

Lanciò il fascicolo sul sedile del passeggero e mise in moto: voleva essere abbastanza lontana da Clint e dal lago per il momento in cui ignorare l'attacco di panico sarebbe diventato impossibile.

 




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