Ad Arianna, che mi ha
introdotto a ‘sti due ciccini
Galeotto
fu Enrico VIII e la sua autobiografia
Frandszk
non poteva credere ai suoi occhi. Le braccia gli caddero mollemente lungo i
fianchi e il quaderno degli appunti dell’Università scivolò dalle sue mani,
impattando il pavimento al rallentatore – i fogli volanti si sparsero sul
parquet scuro, aggiungendo ulteriore disordine al caos in cui era immerso il
piccolo appartamento. Il tic all’occhio si risvegliò in un nanosecondo quando
ebbe il fegato di guardarsi intorno e osservare il disastro in cui era ridotto
il bilocale: vestiti, vestiti ovunque. I sudici abiti del suo altrettanto
sudicio coinquilino erano sparsi letteralmente dappertutto – sulle sedie, sui
tavoli, addirittura c’erano un paio di ridicole mutande a quadri bianchi e
azzurri appese sul lampadario! E dire che era stato chiaro quella mattina,
quando aveva urlato a Tomas di rimettere tutto in ordine per quando sarebbe
tornato dai corsi universitari – quel lituano bastardo intanto si trovava
allegramente stravaccato sul sofà a leggere e aveva mugugnato un verso
d’assenso alle sue raccomandazioni “da mammina”, come le chiamava lui. Ah, ma
lo avrebbe sentito, stavolta! Lo avrebbe sentito eccome, quel fottuto bastardo!
Questa volta non sarebbe riuscito a sfuggirgli, a costo di prenderlo a
sprangate su quel brutto muso fino a rompergli quei dannati occhiali che,
diamine, stavano così bene su quella sua faccia di merda che avrebbe voluto
spaccarglieli con un pugno. E non importava quanto poco coerenti fossero i suoi
pensieri in quel momento, il suo unico obbiettivo era quello di fargli pulire
immediatamente quello scempio volente o nolente! Lo avrebbe preso a calci in
culo se non si fosse subito messo a riordinare di buona lena tutte le stanze.
«
Tomas! » Sbraitò, marciando e battendo forte i piedi sul pavimento in un
tentativo poco maturo di annunciarsi al (purtroppo) compagno di disavventure –
gliel’avrebbe fatta pagare cara, a quello stronzo lavativo. Giunse
gloriosamente sulla soglia del salotto, mani sui fianchi e un cipiglio
intimidatorio che face uggiolare di paura il piccolo labrador paffuto che aveva
adottato da qualche tempo. Occhieggiò con tentazione quella dolce palla di
ciccia dagli occhi teneri, ma, risoluto, resistette all’istinto di gettarsi a
terra e coccolarlo. Aveva prima un compito da svolgere, poi avrebbe
tranquillamente potuto accarezzarlo stando sdraiato sul divano e osservando con
infinita soddisfazione Tomas intento a fargli da cameriera – oh sì, il gusto
della vendetta sarebbe stato dolcissimo!
Diresse
infine lo sguardo di ghiaccio verso il divano e un ghigno malefico si disegnò sul viso, deformandone i tratti
affilati, quando intravide lui, Tomas Laurinaitis, studente universitario di
ventidue anni, un paio di odiosi occhiali da vista blu oltremare e piercings e
tatuaggi a ricoprire il corpo statuario sempre avvolto da abiti formali che
stonavano terribilmente col suo carattere rozzo e arrogante e disgustoso. Gli
venne quasi da ridere quando se lo ritrovò nella stessa e identica posizione di
quella mattina: spaparanzato supino sul divano, con gli occhiali inforcati e un
libro in mano. Dalle maniche della camicia spiegazzata si intravedevano i
colorati e appariscenti disegni su pelle e aveva il medesimo sguardo perso
nella lettura di qualche ora prima – era così concentrato che sembrava quasi
non si fosse accorto della sua presenza, nonostante la fracassosa entrata in
scena di Frandszk.
Il
polacco attraversò il salotto con passi lenti e cadenzati e un sogghigno
inquietante a solcargli il viso niveo fino a pararsi dinanzi al bastardo
scansafatiche. A quel punto l’espressione di Frandszk cambiò repentinamente,
come quando il cielo già grigio si rannuvola e inizia a illuminarsi dai lampi e
a vibrare dai tuoni:
«
Tomas, noi non ci siamo proprio capiti! Cosa ti avevo detto stamattina riguardo
i tuoi stracazzo di vestiti, eh?! Eh, Tomas?! » E nonostante le occhiaie
profonde dal troppo studio gli conferivano un aspetto abbastanza inquietante, i
capelli biondi e arruffati e l’enorme maglione sformato che portava indosso lo
facevano rassomigliare di più a un buffo pulcino strepitante – tenero e per
niente autoritario.
Con
un tono di disappunto, il polacco iniziò a declamare un’arringa degna di
Cicerone, tutta sbraitata col tono più irritante possibile per far smuovere in
qualche modo l’odioso lituano. Fu una vera e propria predica degna di questa
definizione, condita con insulti abbastanza grevi – le mani non smettevano di
muoversi, Frandszk gesticolava furiosamente e le guance gli divennero rosse
dallo sforzo. Concluse fieramente la sua Filippica e, incrociate le braccia,
stette a guardare l’altro che, in tutto quell’arco di tempo, non si era smosso
di un solo fottuto millimetro. Il biondo soffiò via una ciocca che gli
penzolava davanti al viso e, soddisfatto, stette a guardare la reazione del
moro.
Tomas
mosse pigramente le iridi penetranti, fissando per due secondi il polacco con
quei suoi occhi verdi, di un verde slavato così conturbante che ogni volta
faceva andare in apnea il coinquilino – e Frandszk si odiava in quei momenti
perché il cervello andava in pappa e finiva sempre col balbettare penosamente
qualche insulto in lingua madre e arrossire come una scolaretta. Il contatto
visivo durò per pochi secondi ma furono abbastanza per far sprofondare la
stanza in un pesante silenzio interrotto solo dal giocoso ansimare di Cloruro di
Carbonile (Clocl, un nome la cui stranezza era direttamente proporzionale
all’adorabilità di chi lo portava) che, tutto allegro per un motivo solo a lui
conosciuto, continuava a scodinzolare così forte da dimenare qua e là il
culetto peloso e a fissare i suoi padroni. Dopodiché, con la stessa flemmatica
lentezza di prima, Tomas tornò a leggere, come se non fosse successo nulla.
Frandszk
batté un paio di volte le palpebre prima di realizzare. Clocl uggiolò. Il tic
all’occhio si fece più violento di prima. E, alla fine, il polacco si irrigidì
tutto, rabbioso come una belva feroce, e, con gli occhi iniettati di sangue,
spalancò le fauci per poter ruggire contro tutta la sua frustrazione a quel
bastardo:
«
Tu! Brutto figlio di una gran puttana, bastardo pezzo di merda, feccia umana, …
– qui seguì una lunga, lunghissima lista dei più variopinti e blasfemi insulti
del suo infinito repertorio – Tu! Sì, proprio tu, possibile che la tua unica
fottutissima occupazione qui sia quella di leggere i tuoi cazzo di libri?! »
Ansimò, con le guance rosse dalla collera e una vena pulsante sul collo –
l’imperturbabilità di Tomas durante la sua sfilza di insulti lo fece avvampare
d’ira, ma frenò l’impulso di afferrare una sedia e di spaccargliela in testa.
Anche quella volta il lituano si limitò a voltare lo sguardo verso il suo
visetto arrossato, inarcando un sopracciglio:
«
Fran. » E, al nomignolo tanto odiato, percepì il retrogusto amaro di bile
invadergli le papille gustative; incrociò le braccia e incassò la testa nella
spalle in un modo che lo faceva sembrare una civetta spelacchiata e si morsicò
la lingua per evitare di scoppiare di nuovo:
«
Forse non ti è chiaro che, rispetto a te, persino il libriccino dell’alfabeto
per bambini risulta più interessante » Tomas lanciò quella stilettata con
estrema, sadica, lentezza e, man mano che pronunciava le parole, un ghigno
ferino si aprì sulle labbra screpolate – quelle stesse labbra che, in notti
deliranti, probabilmente dopo un’indigestione, il biondo polacco aveva sognato
di baciare e mordere a sangue.
A
quella frase pungente, Frandszk non reagì male. Reagì malissimo: digrignò i denti bianchi e la cravatta scura annodata
mollemente al collo del lituano gli fu molto d’ispirazione al suo intrinseco
istinto violento. Con uno schiaffo che parve più la zampata di una bestia non
esattamente amichevole, fece volare la pesantissima e corposa autobiografia di
Enrico VIII via dalle mani callose del coinquilino – il tomo di novecento
pagine attraversò l’aere tracciando un lungo arco per poi impattare il
pavimento con un tonfo sordo, le pagine tutte spiegazzate e rattrappite.
Il
lituano aveva osservato il tutto con espressione sgomenta: le pupille nerissime
si erano ridotte alla dimensione della capocchia di uno spillo e la bocca si
era schiusa in una smorfia oltraggiata – mai, mai interrompere Tomas nella
lettura, soprattutto in un modo così brusco! Perché, nonostante sembrasse così
pigro e pacato, nel giro di neanche due secondi poteva trasformarsi in un
individuo alquanto pericoloso. Era
sempre stato una bomba pronta ad esplodere, lui, e Frandszk aveva appena
innescato quell’ordigno. Peccato non avesse fatto conto dell’irruenza del
polacco che, appena stappatogli il libro dalle mani, si era gettato su di lui
senza tanti complimenti, afferrandogli la cravatta e tirandola verso di sé con
la chiara intenzione di fargli fare una brutta fine. Si ritrovò quindi con un
biondo strepitante a cavalcioni che, con vani strattoni, cercava di
strangolarlo – cosa che fece rimanere Tomas di sasso per due secondi buoni,
considerato che la cravatta era annodata lenta e che l’unica cosa che poteva
rischiare in quel modo era una cervicale.
Dal
canto suo Frandszk era tutto convinto di liberarsi una volta per tutte di
quell’insopportabile individuo e, ignorando che, senza un nodo scorsoio, la
cravatta non si sarebbe mai stretta al punto da strangolarlo, continuava
imperterrito a tirare la stoffa verso di sé, muovendosi così tanto da sembrare all’occhio
esterno di CloCl che, in realtà, il suo padroncino stesse facendo ben altro con
Tomas – anche perché in quel momento il suo gracchiare irritato poteva essere
frainteso per un altro tipo di urla.
«
Bastardo! » Ansimò, già in debito di ossigeno per quella rabbiosa e
involontaria cavalcata, con tanto di briglie strattonate e di cavallo
imbizzarrito che, nonostante la posizione, cercava di scalciare e nitriva
insulti altrettanto coloriti in risposta. E in tutto questo Clocl, impassibile,
campeggiava sdraiato a stella sul pavimento, spazzando il parquet con la coda e
osservando la scena. A quanto pare era l’unico che pareva divertirsi davvero.
Il
rodeo durò pochi secondi a causa del nobile
destriero imbizzarrito che, con un violento colpo di reni, invertì le posizioni
e sovrastò l’inerme fantino. Frandszk strabuzzò gli occhi, ancora con le dita
ossute strette attorno alla maledetta cravatta. Una smorfia irritata gli
deformò le bianche labbra sottili: quel bastardo lituano era ancora vivo!
Orrore e disgusto! Dal canto suo, Tomas, con uno sguardo incendiario e le
guance paonazze di rabbia, gli afferrò malamente i polsi e li premette sul
materasso, accanto al visetto allibito del polacco:
«
Ma ti sei fottuto il cervello?! » Gli sbraitò in faccia, irritato per essere
stato interrotto nella lettura. Lo scrutò coi suoi occhi di giada, perdendosi
un secondo nell’osservare i tratti affilati di quel volto niveo che, ora che ci
faceva caso, non aveva mai osservato veramente. Gli sembrò bello, delicato. Di
porcellana, quasi, ma si vergognò dei suoi stessi pensieri e preferì pensare a
quanto fosse erotico Frandszk ansante – e incazzato – sotto di lui. Sogghignò:
oh, forse c’era un modo per fargliela pagare. Lo avrebbe colpito nell’orgoglio,
sì, rimuginava tra sé e sé mentre scrutava le labbra rosse dell’altro con
tentazione.
Intanto
Frandszk non se ne era stato con le mani in mano, affatto: in men che non si
dica, aveva iniziato a scalpitare e a strepitare imprecazioni e insulti in
polacco stretto, convintissimo di poter, in qualche modo, ferire l’anima di
Tomas – nonostante, sotto sotto, neanche ci sperava di poterlo smuovere a suon
di improperi e non era nella posizione più adatta per potersi liberare e
dargliele di santa ragione. Stava per lanciare un coloratissimo “Figlio di una
scatoletta di tonno andata a male e scaricata nel cesso!” quando qualcosa lo
interruppe bruscamente. Lanciò un verso acuto paragonabile a quello di
un’aquila reale quando si rese conto che quel “qualcosa” non erano altro che un
paio di labbra calde e screpolate. Fu così improvviso e inaspettato che il
cervello andò completamente in black-out: tutti i muscoli si tesero per poi
rilassarsi di colpo. Si abbandonò tra i cuscini del divano, con gli occhi fissi
e spalancati come quelli di un pesce palla e le labbra che si muovevano da sole
a ricambiare quel bacio in modo impacciato. Non riuscì a controllare il suo
corpo, e forse fu questa la cosa che lo fece incazzare di più: l’essere debole,
mera argilla tra le mani di Tomas – quel fottuto bastardo! – che, con sapienza,
aveva violato le sue labbra e stava solleticando divertito la sua lingua con la
propria. Durò relativamente poco, ma per Frandszk quei secondi parvero secoli
tanto furono intensi e traumatizzanti.
Quando
Tomas si allontanò per osservare con aria tronfia il risultato e godere nel
vedere la sua espressione sperduta, il biondo si lasciò sfuggire un vergognoso
mugolio insoddisfatto che non fece altro che allargare il già ampio ghigno
impresso sulla bocca del lituano.
Il
giovane polacco batté un paio di volte le palpebre, mettendo a fuoco la stanza
e il brutto muso del suo coinquilino. Una luce strana e pericolosa balenò nei
suoi zaffiri, ma l’altro, con la guardia abbassata, non lo notò, troppo
occupato a gongolare per aver piegato Frandszk ai suoi loschi voleri:
«
Allora, Fran, piaciuto il ba— AAAH! »
Una
zampata da micio arruffato e il volto sogghignante di Tomas fu attraversato da
un’aggressiva artigliata degna di una belva feroce – l’unghiata aveva infierito
sulla fronte e sulla guancia, creando un segno rosso e bruciante che faceva incredibilmente
rassomigliare il lituano a Scar de “il Re leone”, film tra l’altro adorato dal
polacco. Poi, il silenzio. I due si fissarono per qualche secondo e il visetto
contratto di Frandszk, ancora arrossato, si distese lentamente. Le labbra
tremarono, e il biondo se le dovette mordere per impedire di scoppiare a ridere
in faccia a Tomas che, allibito, aveva stampata in volto l’espressione più
offesa sulla Terra.
«
Sembri ancora più coglione del solito. » Riuscì solo a pronunciare, con la voce
mezza tremante che tratteneva il riso. Si alzò e, dopo essersi pulito con un’espressione
disgustata palesemente fasulla, andò ad afferrare l’autobiografia di Enrico
VIII che ancora giaceva inerme sul pavimento. Lanciò un’occhiata carica di
malcelato sadismo a Tomas:
«
Questo è sequestrato. Pulisci tutto, tutto,
e forse, se fai il bravo bambino, te lo ridò. » Piegò il capo di lato,
sorridendo in quel modo che ricordava tanto un bimbo malefico e Tomas si
ritrovò ad imprecare mentalmente: sarebbe stato un lungo pomeriggio.
NON
CHIEDETEMI CHE È STA ROBA PERCHÉ NON LO
SO. Se devo incolpare qualcuno, quel qualcuno è la mia cara _Rouge che mi
fa venire in mente idee strane e che mi ha tartassato così tanto con questi due
che, alla fine, mi ha contagiato. Ed ecco perché questo piccolo sclero.
Vado
via prima che mi lancino pomodori, adieu!
La Tigre Blanche
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