Hunters

di dimest
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Capitolo 1

 
La mattina è il momento della giornata che meno preferisco.
Odio il trillo acuto della sveglia che mi strappa dal sonno e il saper di dovere abbandonare le calde lenzuola per appoggiare i piedi sul pavimento gelido ed iniziare così una nuova ed entusiasmante giornata. Trovo irritante la voce di mia madre che, dalla cucina, impartisce ordini a tutti, e trovo assolutamente fastidioso fare la fila al bagno, specialmente quando ad occuparlo è mia sorella.
Mi chiedo come faccia la maggior parte delle ragazze a svegliarsi presto la mattina, indossare una maschera di fondotinta ed altri cosmetici che soffocano la pelle, acconciarsi i capelli e scegliere i vestiti più belli ed alla moda solo per andare a scuola. Capisco l’età, la voglia di apparire carine di fronte al sesso opposto, ma non capisco l’enorme dose di vanità con cui sembrano andare costantemente a braccetto; quello che, invece, mi confonde più di tutto è la quotidianità del fatto ed il suo continuo ripetersi, giorno dopo giorno, fino alla probabile morte (e nemmeno per allora sono certa che questo ciclo vizioso possa arrestarsi) di una ricerca di finta perfezione e bellezza. Insomma, dopo tanto tempo passato davanti allo specchio, dovrebbe diventare stressante tentare di apparire gradevoli agli occhi della gente senza poter indossare ciò che più si preferisce, giusto?
Niente di più sbagliato.
La routine assume la sfaccettatura di “dipendenza cronica”: aumenta con il passare dei giorni e i suoi effetti sono irreversibili. Una volta che cominci, sei perduto. O almeno questa è la conclusione a cui son giunta.
Da canto mio preferisco indossare vestiti comodi, sottolineare le palpebre con dell’eyeliner ed applicare un sottile strato di correttore per coprire le occhiaie. Veloce, semplice e, soprattutto, alla fine della giornata sono sicura di non aver trucco sbavato o pelle appesantita dagli inutili eccessi.
Batto i piedi a terra, infastidita dal lungo tempo d’attesa. Inveisco contro mia sorella nella speranza che questa decida di affrettarsi, ma è tutto inutile: dalla porta sento provenire solo parole provocatorie e di giustificazioni campate per aria in cui mi rinfaccia di fatti mai esistiti e di altri ingigantiti solo per comodità, così prendo la mia roba e mi avvio verso il “bagno dei maschi”. Essendo tre donne e due uomini in famiglia, i miei genitori hanno pensato bene di trasferirsi in un appartamento con due bagni. Decisione saggia visto che la mattina il tempo è tiranno ed ognuno ha le sue esigenze.
Fortunatamente riesco ad intercettare mio padre poco prima che entri. Mi giustifico addossando la colpa a mia sorella, poi chiudo la porta a chiave. In cinque minuti sono già pronta: vestita e lavata mi affretto a lasciare il mio posto agli altri.
Prendo zaino, bici e, con un frettoloso saluto, mi avvio verso la fermata dell’autobus.
- Anche oggi sarà una giornata fredda. - penso, mentre l’aria gelida continua a sferzarmi il viso.
Guardo fisso la strada davanti a me evitando di alzare gli occhi al cielo e all’orizzonte, è una vista a me troppo dolorosa. Mi fa pensare a chi non c’è più e a quanto sia lontano.  
- Colpa tua. Potevi almeno prendere i guanti. - mi rinfaccia prontamente Magic.
Magic è il mio demone personale, uno spirito immaginario insomma, che mi aiuta a superare i momenti di solitudine. Ha un carattere ironico, pignolo, talvolta provocatorio ed è parecchio sgarbato. Ha l’aspetto di una sfera luminescente o opaca (dipende dal mio distacco mentale dal mondo circostante), due occhi triangolari allungati biancastri ed accusatori; una striscia zigzagante forma la linea di una bocca che non apre mai. È il prodotto del mio subconscio, una piccolissima parte del mio carattere che vorrei mostrare al mondo, ma che continuo a tenermi dentro come fosse uno squallido segreto. Magic non mi lascia mai: mi rammenta ogni cosa, anche quella più insignificante e mi rimprovera su tutto; davvero poche son le volte in cui mi conforta. L’ultima psicologa a cui ho raccontato della sua esistenza, mi ha rassicurata sulla normalità dei fatti (dicendo anche che è un tratto comune, soprattutto nei bambini, in quanto visto come un utile esercizio di dialogo), complimentandosi infine per la mia volontà di non cedere alla depressione. Da allora ho smesso di andarci: c’è già il mio subconscio a ricordarmi il mio aspetto infantile e folle, non mi serve sentirmelo ripetere da qualcun altro.
Quando arrivo alla fermata fatico ad aprire e chiudere le mani. Impiego più tempo del necessario per chiudere la bicicletta e ne impiego altrettanto per raggiungere gli altri studenti.
C’è chi chiacchiera vivacemente, chi sta’ per i fatti suoi, chi invece rimane avvinghiato al proprio fidanzato o fidanzata, scambiandosi baci umidi e rumorosi.
- Dannate coppiette. Credono che il freddo sia una giustificazione valida per stare così appiccicate? - esplica Magic tutto ad un tratto e non posso evitare di sorridere.
Probabilmente Giorgia sarebbe stata d’accordo con lui. Ed il sorriso scompare totalmente dal mio viso, lasciando il posto ad un’espressione triste e cupa.
All’incirca un anno fa è morta la mia migliore amica, forse l’unica che avevo.
Giorgia era bellissima: aveva un carattere solare, ironico, forte ed espansivo; il suo sorriso poi sembrava scaldarti l’animo. Ogni mattina, alla fermata dell’autobus, mi si avvicinava per chiedermi se stavo bene e, nonostante i miei sforzi per apparire al meglio, lei mi abbracciava sussurrandomi all’orecchio che era lì per me.
Di sera uscivamo spesso: ci accampavamo su una panchina al parco e parlavamo con gli occhi rivolti al cielo, persi in un’immensità che non abbiamo mai compreso, ma che affascinava entrambe. Aveva un ragazzo che amava tantissimo, eppure questo fatto non l’ha mai portata via da me. Se avevo bisogno di lei, mi bastava mandarle un messaggio oppure telefonarle, dopo poco giungeva a casa mia con il fiatone e un caldo abbraccio.
E per questo l’amavo.
Non gliel’avevo mai confessato, avevo troppa paura di perderla, in più a scuola c’era anche un’altra persona che m’interessava da alcuni anni; un amore a senso unico in ambedue i casi comunque, ma non me ne sono mai lamentata. Adoravo starle accanto e sparlare di quello stesso ragazzo. Poi, una mattinata, mentre Giorgia stava passando sulle strisce per corrermi incontro, l’autobus non si è fermato. Un colpo di sonno dell’autista forse, una piccola distrazione, e la mia amica è stata risucchiata dalle doppie ruote del veicolo. Mi è morta davanti agli occhi, tra le mie braccia mentre le dicevo che l’amavo, che non volevo se ne andasse, che restasse con me, ma fu tutto vano. Le sirene dell’ambulanza, mia madre che mi stringeva forte a sé e che mi accarezzava i capelli, il pianto disperato della madre di Giorgia… in quel momento tutto il mondo era scomparso, risucchiato da un vortice oscuro fatto di dolore e incredulità.
Misero fu il tempo che passava; le parole degli psicologi pagati da mia madre e le attenzioni dei compagni di classe. Squallido fu il suo ragazzo che le raccontava di amarla, che aveva pianto al suo funerale e che si era messo con una sua compagna di classe qualche mese dopo.
Enorme, invece, fu il dolore, il senso di vuoto, la rabbia… e fu quest’ultima che mi portò a compiere un gesto avventato. Era una mattina di scuola, ero in ritardo e mia madre non faceva che urlarmi contro, così afferrai il primo oggetto appuntito sulla scrivania e, con forza, lasciai alcuni tagli sul braccio. La sensazione di benessere e sollievo che ne seguì fu la mia rovina. Da allora, quasi ogni sera mi rifugio nella doccia alla ricerca di quello stesso stato. Senza accorgermene ne sono diventata completamente dipendente, ma, mentre la mia mentre s’inebriava di quella nuova sensazione ed il mio corpo si riempiva di cicatrici, la mia depressione aumentava. Non aiutarono i pensieri tetri, le fantasie su una possibile morte, i desideri che continuavo a formulare tra un pianto ed un altro.
Ed eccomi qui, oggi, incapace di guardare il cielo come facevo tempo addietro, additata come sfigata dalla mia nuova compagna di classe e piena di sentimenti contrastanti. Vorrei solo far la finita, stare finalmente bene… non penso di chiedere troppo all’universo.
Mi stringo nel cappotto, afferro il braccio sinistro, stringendomelo al petto: alla fine tutto ciò finirà, devo solo resistere.
Poi vedo in lontananza l’autobus e, in un gesto istintivo, mi volto. Se fossi rimasta a guardare, probabilmente, sarei scoppiata a piangere ed urlare, il che avrebbe portato ad accrescere le malelingue che circolano sul mio conto. I ragazzini sanno essere crudeli quando si radunano in gruppetti. Salgo per ultima sul veicolo e occupo posto su uno dei sedili davanti. Alzo il cappuccio sulla testa, la musica nelle orecchie e dimentico il mondo per tutto il resto del tragitto. Vorrei solo piovesse.
 
La mattinata è stata lunga e faticosa, così quando torno a casa la prima cosa che faccio è sdraiarmi sul letto con la faccia rivolta sul cuscino. Anche oggi i miei compagni hanno trovato uno stupido pretesto per deridermi. I professori tentano ogni qualvolta di fermare questo loro bullismo, ma cominciano a demordere nell’impresa: il loro atteggiamento protettivo non fa altro che acuire l’invidia degli studenti. Ho raggiunto il limite anch’io.
Dalla sala mi giunge la voce di mia sorella e di mio fratello; stanno litigando sul programma da vedere in televisione. Prendo l’mp3, scelgo una canzone a caso e m’isolo dal mondo. Senza accorgermene mi addormento.
Al mio risveglio, però, in casa non c’è nessuno. Mia madre dev’essere uscita un’altra volta con una sua amica, mio padre è al lavoro e, probabilmente, i miei fratelli sono usciti già da qualche ora. Solo io resto in casa tutto il giorno, chiusa in camera a dormire o a non fare nulla. Ormai questa è divenuta la mia deprimente quotidianità.
Mi alzo dal letto con fatica, stiracchiandomi e facendo scrocchiare qualche osso, e quasi mi dimentico di avere le cuffiette nelle orecchie. Fortunatamente sento il filo tendersi, così la caduta dell’mp3 è sventata poco prima che questo raggiunga il confine ultimo del materasso. Assicurato il fedele-compagno-di-vita nella tasca dei pantaloni, mi avvio verso l’armadio, prendo il costume dal cassetto, infine, indossando una comoda tuta, esco dalla camera alla ricerca del mio borsone.
Al fine di allontanarmi dal dolore continuo, mia madre mi iscrisse al corso di nuoto: immergermi totalmente nell’acqua aiuta a rilassarsi. Talvolta riesco perfino a dimenticare tutto ciò che mi circonda.
Ogni passo che risuona nel corridoio buio aumenta il senso di vuoto nel mio petto. Cerco di non pensarci troppo, vorrei evitare una crisi prima di uscire.
Prendo il borsone e ci infilo tutto ciò che mi serve. Faccio una fermata anche al bagno per lavarmi i denti, la faccia e legarmi i capelli, poi esco di gran fretta. Siamo in inverno e, anche se sono solo le sei del pomeriggio, la luna splende alta nel cielo. Camminare nel paesaggio notturno mi rilassa: è come se ogni mio problema, ogni fibra del mio essere fosse inglobata dalla piacevole oscurità.
All’improvviso avverto una corrente gelida strisciarmi sulla schiena provocandomi spiacevoli brividi, eppure non c’è vento e nessuna macchina mi è passata accanto. Mi guardo attorno, ma non vedo nulla; solo le ombre nascondono l’ orizzonte.
- Stai ancora sognando ad occhi aperti? – mi sussurra Magic.
- Mi era parso di sentire qualcosa. – gli mormoro di rimando.
Continuo a camminare, frettolosa e a disagio.
Un altro brivido mi costringe a voltarmi, tuttavia, ancora una volta, vedo solo ombre.
Stringo i manici del borsone e, con il cuore in gola, inizio a correre. Ho poco fiato e la mia resistenza sull’asfalto è pessima; i polmoni iniziano a bruciare dopo pochi metri, ciò nonostante voglio arrivare almeno in prossimità della strada principale. È stata una follia imboccare la scorciatoia, perché solitamente la prendo durante il percorso di ritorno dalla scuola ed anche a quell’ora è frequentata da poche persone.
Ancora qualche metro mi separa dal primo incrocio, proprio sotto al lampione.
Rallento e mi volto per vedere se qualcuno mi ha seguito, poi ecco che finalmente un’ombra si muove sullo sfondo.
O almeno così credevo.
L’attimo dopo sono sbalzata in aria ed il colpo è tale da togliermi il fiato oltre a provocarmi un forte dolore alla spalla e alla cassa toracica. Ritrovo il borsone qualche metro più avanti, i manici rotti come la giacca che indosso. Noto quelli che paiono essere segni di artigli, ma non ho visto animali, non ho urtato contro alcun albero o cespuglio nella caduta.
Osservo una scia grigiastra spostarsi dietro di me con velocità. Il cuore prende a martellarmi furiosamente nel petto e sudore freddo inizia a imperlarmi la pelle. Decido di ignorare la confusione e tento di mettermi a correre, ma le gambe sono paralizzate dalla paura. Provo ad alzarmi puntellando le mani al terreno, facendo forza sui polsi e sulle ginocchia, però nulla pare funzionare.
Così prendo un respiro profondo ed urlo a pieni polmoni sperando che qualcuno nelle vicinanze riesca a sentirmi; non m’importa del dolore insistente alla gola e continuo ad urlare mentre cerco di coprirmi il viso con il braccio prima di ricevere un nuovo colpo.
Questa volta sento il bruciore degli artigli sulla carne: è una sensazione sgradevole, peggio di qualsiasi ferita io mi sia autoinflitta. Guardo il braccio e vedo chiaramente tre striate nette che partono dal polso per finire al gomito. La pelle è sbrindellata sulla superficie, non sembra essere profondo, anche se il sangue sgorga a fiotti e sembra non volersi fermare presto.
Inizio a piangere, a gridare per la ferita, tuttavia non vedo nessuna persona accorrere in mio soccorso. Ciò che vedo ora è un mostro alto tre metri, nero, con occhi cha paiono i fanali di un’auto. Dalla sua bocca s’intravedono denti aguzzi, la bava ne ricopre quasi integramente la mandibola ossuta e affusolata. Le braccia sono lunghe al termine delle quali sono attaccate tre (altrettanto) lunghe lame affilate. Il corpo bitorzoluto lascia intravedere le ossa. Si erge sulle zampe ricurve posteriori; i passi sono lenti ed incerti, deve aiutarsi con gli artigli delle braccia per rimanere in equilibrio.
Lo fisso atterrita. Sta per scagliare un altro colpo, ma questa volta, non so come, riesco a mettermi in piedi ed evitarlo di poco.
Scappo via tenendomi stretto il braccio ferito, pregando di raggiungere la strada principale… il mostro però mi è davanti in un attimo: le zampe ricurve devono servire da molla, permettendogli così di spostarsi in pochi istanti. Anche se corro con tutte le mie forze, questo potrebbe ributtarmi al suolo con estrema facilità.
Mi affloscio sulle ginocchia in preda a spasmi di puro terrore: finalmente lascerò questo mondo, anche se a causa di una morte atroce (oltre all’essere inspiegabile). Potrò finalmente rivedere Giorgia, stare con lei, abbracciarla… eppure una parte di me ora si attacca disperatamente alla vita. Non voglio arrendermi alla morte in modo passivo senza nemmeno aver tentato di difendermi.
Avverto il bisogno di lottare, in fondo è nella natura animalesca dell’uomo il tentare di sopravvivere in qualsiasi situazione ed in qualsiasi modo, ed è forse questo il motivo per cui non mi sono ancora decisa a mettere in pratica tutti quegli scenari macabri con cui ho condiviso i miei sogni e pensieri negli ultimi mesi.
Cerco nelle tasche un qualsiasi oggetto possa tornarmi utile. Non ho coltelli con me, né armi contundenti, le chiavi sono troppo corte, rischierei di morire al primo assalto.
Sono alle strette, non ci vorrà molto prima che il mostro mi divori.
Poi mi balena nella testa un’idea folle.
Torno indietro e mi dirigo rapidamente verso il borsone alla ricerca del telefono a cui avevo attaccato le cuffiette. Nell’istante in cui ero stata sbalzata via, il filo degli auricolari deve essersi staccato a causa dalla stessa violenza con cui si sono lacerate le maniglie del borsone. Spero solo non si siano rotte.
Sento il mostro atterrare davanti a me, ho pochissimo tempo prima che mi scagli contro un altro fendente, così sposto ripetutamente lo sguardo sul suolo intorno a me con impazienza. Ringraziando il cielo, quando le ho acquistate, le ho scelte bianche quindi, se non sono finite tra l’erba alta, dovrebbero risaltare almeno un poco.
Il mostro avanza il colpo e, non so come, riesco ad evitarlo. Nel pugno stringo le cuffiette e, se vorticato ad una certa velocità, anche un piccolo filo può far davvero male. Forse un cavo alla cui estremità è attaccato il jack dovrebbe provocare qualche danno in più. So bene che sarà un colpo debole, non sufficiente a scalfirne la pelle, per questo motivo all’altra estremità lego le chiavi, rimaste (fortunatamente) all’interno della tasca chiusa della giacca.
Prendo slancio e gli sferro il jack sull’arto. Il mostro lancia un urlo rabbioso e la bava gli cola giù per la gola; il colpo deve aver sortito il suo effetto. La sensazione deve essere stata quella di una frustata, comunque troppo debole da provocargli tagli profondi o ferite abbastanza gravi da riuscire ad abbatterlo.
Presa dall’adrenalina, mi scaglio su di lui infierendo più volte sugli arti usando entrambe le estremità del cavo. Le chiavi riescono a penetrare la pelle, anche se con squarci superficiali. L’epidermide squamosa fa rimbalzare ogni colpo, non importa con quanta forza e rabbia lo aggredisca.
Il mostro si riprende dall’assalto improvviso, intravedo il suo sguardo furioso, nonostante ciò, presa come sono dalla foga del momento, non gli presto particolare attenzione; quello mi si avventa contro con un colpo tale da togliermi il fiato.
Ha colpito il torace, probabilmente deve avermi incrinato una costola o due. L’aria non entra pienamente nei polmoni, fatico a fare qualsiasi gesto, specie il respirare la cui semplice azione diviene una vera tortura; vorrei accasciarmi al suolo, mettermi a piangere e scavarmi la pelle con le unghie.
È questa la mia fine?
- Devi combattere. In piedi, forza. – m’incita Magic a pochi centimetri da me.
È una strana situazione perché, essendo oggetto del mio subconscio, non dovrei essere capace di vederlo date le attuali circostanze. Eppure eccolo qui. Nitido come non lo è mai stato prima. Mi fissa intensamente con i suoi piccoli occhi bianchi e l’averlo accanto mi dà forza.
Posso farcela, devo solo volerlo.
Artiglio la terra, cerco di rialzarmi in fretta anche se ogni movimento è una fitta atroce che risuona in tutto il corpo, ma non mi arrendo. Il lungo dolore, la depressione, il non arrendermi all’idea del suicidio mi ha irrobustita, temprata al perseverare a combattere. Afferro le cuffiette e gli sferro le chiavi in pieno viso un istante prima che quello possa attaccarmi nuovamente.
Il mostro lancia un urlo rabbioso al cielo, tenta di coprirsi il volto con gli artigli e questo mi dà il tempo di aggirarlo. Gli tiro un calcio alle gambe abbastanza forte da fargli perdere l’equilibrio. Gliene assesto un altro nello stesso punto e, finalmente, cade al suolo. Lo vedo far forza con gli arti superiori al terreno per tentare di rialzarsi, ma con una frustata alla schiena ossuta riesco a tenerlo fermo per qualche altro secondo, giusto il tempo di arrampicarmi sopra di lui e ad allacciargli il filo alla gola. Puntello un ginocchio alla base della testa e poi tiro e cuffiette verso di me. Stingo la presa finché non sento le mani iniziare a dolermi per la pressione, sempre di più finché le ossa del mostro iniziano a cedere sotto la pressione della mia rotula.
Questo si accascia a terra ormai privo di vita e, sarà a causa dell’adrenalina o della paura mista ad una svariata serie di emozioni che rimango ferma dove sono con il filo degli auricolari stretto nei pugni decisa a non lasciare andare la presa. Ho come l’impressione che, se lo facessi, morirei.
Non ho idea di quanto rimanga qui, in ginocchio sul cadavere di un incubo che non avrebbe mai dovuto avverarsi; non m’interessa delle ferite riportate, di quelle brucianti sopra e sotto la pelle, tutto diviene ininfluente davanti all’accaduto ed il mondo assume una sfaccettatura nuova, completamente sconosciuta e priva di realtà.
- Ehi tu, tutto bene? - domanda all’improvviso una voce a qualche metro da me.
Mi volto spaventata, stringendo contemporaneamente il nodo sulla gola del mostro. Sento gli occhi pungermi dal gran che li ho spalancati e il fianco mandarmi fitte pungenti in tutto il corpo.
Dapprima non riesco a vedere nulla, la vista è offuscata dal vortice di sensazioni che mi hanno sopraffatta in questi pochi minuti, e solo quando metto a fuoco l’obiettivo, mi accorgo che un gruppo di cinque persone mi si è avvicinato. Un uomo vestito di nero è a pochi passi da me e mi fissa incredulo. Non so dire con precisione se stia effettivamente fissando me o il mostro ai miei piedi.
Ed è solo ora che comprendo la situazione. Rivolgo lo sguardo verso il basso, vedo il mostro ormai morto al cui collo sono avvinghiate le mie cuffiette. Osservo la scena senza riuscire a vederla realmente.
Sono stata davvero io a fare questo?
Libero la presa, balzo in piedi come una molla e sento le mani pulsarmi. Il sangue torna a circolare nelle vene ed il formicolio che crea mi disgusta. Non posso credere di essere capace di una simile violenza.
- Io… cosa…? – balbetto, sconcertata dalle mie stesse azioni.
- Tranquilla, muoviti con calma. – mi dice l’uomo avanzando un passo verso di me, le mani leggermente alzate nel tentativo di non spaventarmi.
Non sono un animale rabbioso e violento, in circostanze normali non sarei capace di azioni simili e, anche se in questo momento sono completamente spaesata, riesco a distinguere chiaramente un uomo da un mostro oppure cosa sia giusto e cosa, invece, sia sbagliato. Sto per rinfacciargli la cosa quando un giramento di testa mi coglie alla sprovvista. Inciampo nei miei stessi piedi e se non fosse per l’azione repentina di quell’uomo nell’afferrarmi, probabilmente sarei finita col culo a terra. Vorrei liberarmi dalla sua presa, allontanarmi dalla scena, tornare a casa e dimenticare questa vicenda, anche se so che finirei con l’avere incubi per tutta la vita, eppure non ne ho le forze. Sento il corpo pesante, la testa mi duole, mentre le ferite riportate continuano a bruciarmi intensamente. Ogni secondo che passa queste sembrano ardere di più, tanto da diventare insostenibili. Vorrei urlare per quanto mi facciano male, ma le costole rotte me lo impediscono. Riesco a malapena a respirare, figuriamoci emettere dei suoni.
Magic è al mio fianco, mi fissa derisorio. È tornato ad essere la solita sfera semi-visibile di prima, eppure sembra quasi sporco. Forse la mia mente sta elaborando uno scenario in cui anche Magic è stato coinvolto. Pensare è faticoso, così rinuncio a pormi domande.
Mi sento patetica, debole ed ipocrita verso me stessa: avevo l’opportunità di morire, di raggiungere Giorgia e l’ho scartata per poter lottare una volta ancora. Probabilmente ho un’indole masochista.
Osservo l’uomo parlarmi: le labbra si stanno muovendo e le sue sono parole dovrei riuscire a comprendere perfettamente, ma chissà a causa di quale motivo, non riesco a capirne il significato nonostante stia parlando la mia stessa lingua ad un soffio da me. Mi sforzo di comprendere qualche stralcio di conversazione… nulla da fare, sono troppo stanca. L’unica cosa che riesco a fare ora è lasciarmi andare all’oscurità.
Perdo i sensi tra le braccia di uno sconosciuto.

 


N.A:
Salve a tutti.
Non mi dilungo ulteriormente, ma ci terrei a ringraziare chiunque di voi sia arrivato a leggere fino a qui.
Spero che la storia non vi paia fin troppo banale e se avete critiche positive, neutre o negative da rivolgermi, non fatevi scrupoli ad inviarmele (sia per recensione che per messaggio).
Vi ringrazio e spero di sentirvi presto nel prossimo capitolo.
Dimest.

 





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