That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Hogwarts - II.010
- Sogni
Sirius
Black
Castello di Hogwarts, Highlands - lun. 25 ottobre
1971
L’atmosfera nella scuola era a dir poco elettrica, ormai
mancava meno di una settimana alla famigerata prima partita di
Quidditch dell’anno, niente di meno che
“Grifondoro/Serpeverde”: anche se a me importava in
maniera molto relativa del Quidditch, almeno di quello
“scolastico”, in breve mi resi conto che non
riuscivo a restarne completamente immune. Anche e soprattutto per
l’entusiasmo con cui James Potter ci stava coinvolgendo.
Tutto ciò che non avevo ancora appreso da solo o grazie agli
Sherton, mi fu snocciolato da Potter che, nei rari momenti in cui non
stavamo insieme, aveva saputo tutto sugli ultimi campionati di
Quidditch lì a Hogwarts dagli studenti più
grandi: erano ormai anni che Serpeverde spadroneggiava, i Grifondoro
erano riusciti a vincere l’anno prima solo per il rotto della
cuffia e gli Slytherins erano ancora parecchio infuriati per questo.
Col passare dei giorni, i loro sfottò e i loro agguati si
facevano sempre più pesanti e ricorrenti, lasciando
presagire che avremmo assistito a una partita, e soprattutto a un
dopo-partita, piuttosto esagitati. Appena aprii la porta della mia
stanza, alla fine di quella lunga giornata di scuola, - il
lunedì, non c’era niente da fare, era il giorno
che odiavo di più-, mi ritrovai davanti ad una
“epifania” rosso/ oro tale da far male agli occhi.
Come spesso facevo, recitando la mia parte di “Black
recalcitrante”, finsi di avere un mancamento, gracchiando con
vocetta stridula e facendo così ridere tutti quanti. La mia
“calda” imitazione della mia cara mammina era
qualcosa che ormai allietava spesso le nostre fredde serate, su nel
dormitorio maschile di Grifondoro. Quando riprendemmo fiato, osservai a
fondo il “capolavoro” realizzato da Potter,
restando impalato sulla porta: James aveva fatto un incantesimo che
rendeva rosso e poi immediatamente dorato tutto quello che era presente
nella nostra stanza. Proprio tutto, persino l’austero
calamaio Serpeverde di mio nonno Arcturus e la foto di famiglia che
avevo esposto esitante sulla mia consolle: vedere mia madre vestita con
i colori che odiava tanto, era uno spettacolo degno di essere
tramandato ai posteri. Un ghigno furfantesco andò a
sollevarmi gli angoli della bocca. Alla fine entrai, calamitato da
qualcosa che mi aveva colpito all’istante, poi mi voltai
offeso verso James; Remus e Peter, fermi sull’ingresso, erano
rimasti a occhi sbarrati, osservando i gagliardetti inneggianti la
squadra di casa affissi in pratica ovunque.
“E questo che
cos’è?”
Feci la faccia disgustata e risentita, prendendo schifato il
gagliardetto più grande per un angolo e sollevandolo appena:
Potter l’aveva esposto, logicamente, proprio sopra il mio
letto, a titolo beneaugurante, diceva lui, io sospettavo fosse
piuttosto un gesto scaramantico. Quella, infondo, non era stata la
prima “attenzione” del genere che mi aveva rivolto,
da quando era stata annunciata la data ufficiale della partita: i primi
giorni, ero rimasto basito, non sapendo se sentirmi offeso o
considerarlo un gioco come tutti gli altri. Appena partito Frank,
infatti, James non aveva più avuto remore e aveva iniziato a
corrermi dietro e a tendermi imboscate, cercando poi di strofinarmi
sulla faccia la mia sciarpa rosso-oro: “La tieni troppo
lontana dalla bocca, rischi di prendere freddo!”Questa la sua
ridicola giustificazione, alla quale credetti solo per mezzo secondo,
il tempo di cogliere quel lampo malandrino in fondo ai suoi occhi
castani dorati e capire che in realtà cercava di
esorcizzare, tra le risate, il Serpeverde che era nascosto dentro di
me: un po’ come certi detti popolari babbani, che
suggeriscono vanamente di usare l’aglio per allontanare le
streghe… Quando però, la sera precedente,
l’avevo preso per le gambe e inchiodato sotto di me sul
pavimento, aveva compreso che i suoi strani esorcismi non sortivano
alcun effetto: casualmente, pochi giorni prima, avevo scoperto quanto
fosse sensibile al solletico, così gli avevo dimostrato in
modo inequivocabile quanto ci fosse di irrimediabilmente Serpeverde
nell’animo di Sirius Black, costringendolo a chiedere invano
pietà, mentre rideva e si divincolava a terra fino alle
lacrime.
“E’ solo il mio
gagliardetto più prezioso! Non è
meraviglioso?”
James represse la sua solita risata da discolo e mi rispose con
un’alzata di spalle e un ghigno divertito, ma vidi che
cercava di farsi scudo dietro Remus, probabilmente temeva che potessi
vendicarmi come la sera precedente. Gli rimandai indietro una smorfia
poco raccomandabile: per il momento non gli avrei fatto niente, ma ero
sicuro che quella notte avrebbe dormito con almeno un occhio aperto. Lo
lasciai in pace e mi ritirai in bagno: quella era una delle poche
abitudini che non disprezzavo della famiglia Black, la cura del mio
aspetto veniva prima di tante altre cose. Non che avessi bisogno di
grande “manutenzione” ma, dopo una giornata piena,
non mi piaceva apparire in pubblico, e soprattutto in Sala Grande per i
pasti, con la faccia stanca. Tanto più che, sempre
più spesso, quelli erano gli unici momenti della giornata in
cui riuscivo a incontrare Meissa. Quel giorno, quel maledetto
lunedì, però, non ero riuscito a vederla nemmeno
a cena, per questo mi sentivo triste e al tempo stesso arrabbiato: a
volte mi sembrava che il destino mi strappasse lentamente via da lei e
che non riuscissi in nessun modo a mettere un freno a questo lento
scivolare degli eventi. A farmi infuriare ancora di più,
poi, nemmeno io sapevo contro chi, non capivo perché non
riuscissi a fare con lei tutte quelle cose che riuscivano facilmente a
quello stramaledetto Snivellus in compagnia della Evans: eppure avevamo
le stesse identiche opportunità. Sbuffai e mi passai acqua
fredda sulla faccia: un modo l’avrei trovato, me ne dovevo
solo convincere.
Quando rientrai in camera Potter stava arringando gli altri, seduti sul
tappeto a bocca aperta, mentre lui si esibiva nella dimostrazione
pratica di come Jarvis Brent, l’anno precedente, avesse
afferrato il boccino dopo nemmeno due minuti, assicurando la vittoria
ai Grifondoro. Mi tornò il sorriso all’istante:
personalmente pensavo che James Potter mettesse paura, sapeva a memoria
tutte le formazioni dei Grifoni dall’inizio del secolo ai
giorni nostri, il numero e le date dei campionati vinti, i nomi dei
cercatori e i tempi di “cattura del boccino”, oltre
al punteggio di tutte le partite dal 1900 a oggi. Sospirai: se amare il
Quidditch significava tutto questo, io non sarei mai stato un vero
amante di quello sport. Tutto quello spreco di energia… No,
era tutto davvero troppo stancante per me. Al contrario, Remus vedeva
in queste abilità di Potter un’occasione persa:
sosteneva che se James avesse mostrato per lo studio lo stesso
trasporto che mostrava per la memorizzazione delle statistiche, avrebbe
avuto una valida spalla su cui contare, quando doveva mettere in salvo
uno di noi da un’interrogazione. Ghignammo: in effetti, Remus
era un vero santo, un martire che ci aveva già tolto dai
guai, a turno, in vari compiti e interrogazioni, soprattutto con
Slughorn e con la McGonagall. Non che avessi chissà quali
difficoltà a capire o a studiare, ma avevo già
appreso tutto dal precettore, e finché non fossimo arrivati
a temi nuovi e stimolanti, la noia avrebbe continuato spesso a farmi
distrarre nei momenti meno opportuni.
Mi avvicinai agli altri e mi sdraiai pancia sotto sul mio letto:
sorrisi vedendo quanto impegno ci metteva James nella recita, lo
sguardo perso in un orizzonte lontano, in cui secondo i racconti doveva
celarsi il boccino. A volte mi chiedevo se in futuro sarebbe stato in
grado di dimostrare con i fatti tutto quest’amore per il
Quidditch e per la nostra Casa: sapevo già che se un giorno
James Potter fosse salito veramente su una scopa da Quidditch come
cercatore di Grifondoro, anch’io sarei riuscito ad apprezzare
appieno il campionato di Hogwarts. Tremai quando, per la prima volta,
compresi che consideravo davvero Grifondoro la mia Casa. Finito il
racconto, scoppiammo in un applauso: Remus richiese il bis, io fischiai
in segno di approvazione e Peter, immancabilmente, sembrava avere le
stelline che gli scintillavano negli occhi. Ci conoscevamo da appena un
paio di mesi, ormai, ma sapevo già che quello che Minus
provava per Potter poteva chiamarsi venerazione. Ora che, partito
Frank, eravamo soli nella nostra stanza, il clima
“cospiratorio” tra noi si stava consolidando giorno
per giorno e sentivo crescere sempre più la stima che
provavo per i miei compagni. Iniziava a piacermi persino Peter, che
finora avevo sempre compreso poco e che all’inizio accettavo
solo perché vedevo quanto Remus tendesse a proteggerlo e
aiutarlo: era un ragazzino timido e impacciato, che si affidava
completamente a noi, ma se fino a qualche settimana prima lo
consideravo solo come una palla al piede, col tempo, stavo scoprendo
che era anche una presenza gentile e discreta, qualcuno con cui ridere,
incredibilmente generoso e con guizzi spontanei e imprevedibili di
assoluta creatività. Io stesso mi sentivo protetto e
accettato da tutti loro, come raramente ero stato nella mia vita: solo
con Alshain mi ero accorto di essere apprezzato, anche se in modo molto
diverso. Ora sapevo di essere parte di qualcosa che stavo creando con
gli altri, ero tra pari e, in certi momenti, mi vedevo tanto al sicuro
grazie a loro, da riuscire a pensarmi al riparo persino dalle ire della
mia famiglia. Complice il tempo, ormai tristemente autunnale, e il
carico di compiti sempre più minaccioso, stavamo di solito
sempre insieme. E studiavamo, - o fingevamo di farlo - sempre insieme.
James si prendeva spesso il compito di dirottarci dalla retta via, con
il suo entusiasmo e la sua curiosità: aveva sempre mille
idee da mettere in pratica e nei tempi morti, sotto la sua insistenza,
avevamo iniziato una perlustrazione attenta del settimo piano, per
verificare se c’era davvero qualcosa da scoprire. Remus
all’inizio la considerava una perdita di tempo, ma poi doveva
essersi attivato qualcosa nel suo animo, sempre un po’ troppo
controllato per un ragazzino di undici anni, perché in breve
aveva iniziato a divertirsi anche lui per quelle nostre
“missioni”. Peter, invece, era per natura dubbioso
e un po’ spaventato ma, il fatto che finora ce la fossimo
sempre cavata egregiamente, iniziava a infondergli un po’ di
sano coraggio: stare con noi gli stava facendo scoprire quella sua
natura “Grifondoro” in cui ancora credeva poco. Di
solito, quando Peter usciva con qualche osservazione entusiasta sulle
nostre bravate, Remus ci riprendeva bonariamente, dicendo che avevamo
traviato Minus e che se non fosse stato per lui, che a fatica riusciva
ancora a controllarsi, in breve tempo saremmo diventati una manica
d’incoscienti. A quel punto io e Potter ci guardavamo
ghignanti: James perché le considerava “le sacre
parole del nostro profeta”, io perché capivo
quanto finalmente fossi libero e felice. Non solo potevo fare tutto
ciò che mia madre mi aveva sempre impedito, ma ero tanto
fortunato da aver trovato dei veri amici con cui dividere quelle
meravigliose avventure. In genere le nostre missioni terminavano
improvvisamente perché ci scontravamo con Gazza o con la sua
gatta: allora la nostra esplorazione si tramutava in una corsa
all’ultimo respiro per scale e corridoi, pregando di non
essere beccati. Spesso, poi, durante la fuga eravamo finiti nelle mire
di Pix che ci aveva bersagliato con scherzi e lazzi, alcuni davvero
carini e utilizzabili ai danni di qualche Serpeverde, alla prima
occasione; altre volte ci eravamo imbattuti in studenti di altre case.
E quando si trattava di Serpi, naturalmente, la situazione prendeva
pieghe più o meno imprevedibili.
L’ultima volta, il mercoledì precedente, ci
eravamo scontrati con Snivellus, noi cinque, da soli, vicino alla
biblioteca: quell’idiota aveva cercato di affatturare James
per vendicare la Evans ed io, per distrarlo, ero riuscito a rubargli la
sciarpa di Serpeverde, con un semplice “Accio”,
richiamando poi in ritirata gli altri e fuggendo per le scale. Una
volta raggiunta la salvezza nella nostra Sala Comune,
c’eravamo quasi rotolati a terra dalle risate, ripercorrendo
con la memoria quei momenti radiosi e ingigantendoli sempre di
più, ogni volta che raccontavamo la storia ad altri Grifoni,
fino a farne un’avventura leggendaria. Non ci accorgemmo
subito che Lily Evans aveva seguito i nostri racconti insieme agli
altri Grifondoro, e ora aveva una ragione in più per
guardarci con odio e disgusto. Nei giorni seguenti, ne era nata una
vera e propria disputa, che si era aggiunta alla faccenda
già spinosa della fattura lanciata contro Yaxley e dirottata
sulla Evans: Snape mi aveva continuamente teso agguati per riprendersi
la sciarpa, che di giorno tenevo come trofeo legata al fianco. Io mi
ero sempre battuto come un leone, riportando solo lievi ammaccature e
bruciacchiature poco rilevanti: dovevo ammettere, ahimè, che
Snivellus era proprio bravo con le fatture. Molto più bravo
di me. Nonostante tutto, dal mio punto di vista, quella situazione
poteva rivelarsi interessante e divertente, infondo, se c’era
una cosa che mi aveva sempre messo paura, era la noia. Purtroppo,
invece, quell’occasione così interessante non era
durata a lungo. Remus, infatti, la notte precedente era intervenuto, mi
aveva rubato la sciarpa che tenevo annodata alle colonne del
baldacchino e, per non correre ulteriormente rischi inutili,
l’aveva abbandonata durante il giorno su una statua dei
sotterranei alla fine della lezione di Pozioni, sordo alle mie continue
lamentele e abbastanza abile da sfuggire alle trappole che gli avevo
teso per riprendermela.
“E ora che cosa porto a mia
madre per Natale, Lupin? Ti rendi conto che quella sciarpa era il mio
unico lascia-passare per rientrare a Grimmauld Place? Se mi troveranno
congelato davanti alla porta di casa, sarà solo colpa tua,
ricordatelo!”
Finita l’esibizione di James, quella sera toccava anche a me
declamare la mia solita scena madre, quella del figlio rinnegato che,
finito a Grifondoro, trovava le proprie cose sbattute fuori dalla
porta, causando le risate di tutti. Ero bravo a recitare, ma nel
profondo dell’anima non ero poi tanto sicuro che non mi
avrebbe aspettato davvero qualcosa di simile, una volta tornato a casa.
Dal primo settembre avevo ricevuto dalla mia famiglia solo tre lettere:
quella da parte di mia madre, con gli insulti per il mio smistamento,
cui si erano aggiunte tre righe trasudanti delusione, firmate da mio
padre; la sorprendente lettera di Regulus, che mi era stata stranamente
consegnata non da un gufo ma da Rigel Sherton, in cui mio fratello
voleva assicurarsi delle mie condizioni di salute dopo il mio
“incidente”; infine una lettera
“tradizionale” di mio padre, allegata a un pacco
contenente alcuni abiti invernali. Sapevo di aver preso da lui la mia
fastidiosa tendenza a essere freddoloso, ma quel pacco di abiti non
richiesti mi aveva scaldato il cuore prima che il corpo: anche se nella
lettera c’era il suo solito tono di voce autoritario e
distaccato, apprezzavo quella “imprevedibile” forma
d’interesse nei miei confronti… Magari,
però, mi stavo solo facendo influenzare da Meissa, che senza
motivo alcuno aveva una vera e propria venerazione per mio padre.
“Certo che a volte sei un
idiota, Black… Quanto pensavi di portarlo per le lunghe,
quello stupido scherzo?”
Tornai con i piedi per terra, mentre Remus stava a braccia conserte di
fronte a me, io ero rimasto steso nel mio baldacchino, lo sguardo perso
nei miei pensieri lontani. Alzai gli occhi su di lui e ghignai: fosse
stato per me, l’avrei portata molto per le lunghe, a scuola
nulla mi divertiva di più che far avvelenare Snape. Era raro
trovare in giro un tipo altrettanto pomposo e permaloso.
“Faceva bene a tenersela,
Snivellus se le cerca… Secondo me è giusto dargli
una lezione!”
“James! Ti ci metti anche tu?
Io non capisco, perché vi siete fissati con lui?”
“Remus…
Remus… Ma non lo vedi? E’ Snivellus! Ed
è pure un Serpeverde!”
“No! Non l’accetto,
è una motivazione stupida! Davvero stupida!”
James mi guardò condiscendente, ghignando, sapeva che
riguardo Snivellus avrebbe trovato il mio assoluto sostegno qualunque
argomentazione avesse tirato fuori.
“Hai ragione,
Remus… Nessuno più di te può parlare
così bene delle Serpi… Tu… Quello che
non è mai maltrattato e preso in giro da Mulciber e
compagni…”
“Che discorsi fai, James! Vuoi
abbassarti al loro livello? E vuoi fare scontare a Snape quello che ci
fanno gli altri?”
“Oh sì…
Santo Snivellus!Quello che non prende mai in giro Peter a lezione,
quello che non fa mai versi strani quando vede passare
Black… proprio un bel soggetto!”
Me la stavo proprio godendo, era davvero buffo vedere come ragionavano
dei veri Grifondoro: Remus era il Grifone perfetto, per lui il senso di
rispetto, onore e lealtà andavano mantenuti anche nei
confronti del nemico. James sosteneva invece che con il nemico, il
rispetto poteva esserci solo se era reciproco. Io, in cuor mio, ancora
non mi capacitavo di cosa ci fosse di Grifondoro nella mia anima, a
parte quel gesto d’incosciente
“generosità”, più o meno
interessata, rivolto a Meissa. Ero stato, di fatto, abituato a ridere
sul concetto di lealtà e perdono; se pensavo di aver
ricevuto un torto, poco importava se di fronte avevo un amico o un
nemico, un estraneo o un fratello: se un Black si sentiva offeso,
l’unica reazione possibile era
“Vendetta!”. A volte, però, mi chiedevo
quanto credessi davvero a quel tipo di insegnamenti.
“Basta chiacchiere, pivellini!
Il vero problema di Snivellus è che lunedì scorso
si è spostato, facendoti centrare in pieno la Evans, dico
bene Potter?”
Lo guardai, era diventato improvvisamente rosso in viso. Ebbene
sì, ormai per James Potter la povera Emily Bones era solo un
nome tra tanti, ormai c’era una bella chioma rosso fuoco a
fargli battere il cuore. Se n’era accorto non appena aveva
rovinato il suo futuro radioso per salvare me. Ghignai. Dal fattaccio
era passata ormai una settimana, James da allora cercava di chiedere
scusa in tutti i modi a Lily Evans, che non voleva saperne di lui,
Snivellus cercava di affatturarci per vendetta e Meissa Sherton non mi
parlava e faceva di tutto per evitarmi. Aveva chiuso con me il
mercoledì precedente, prima che rubassi la sciarpa a Snape,
sostenendo che avevo amici stupidi e pericolosi e che se ci tenevo alla
sua amicizia, dovevo smetterla di difendere quell’idiota di
James Potter. L’unica cosa positiva era che in quei giorni
non l’avevo più vista parlare nemmeno con Yaxley,
anche se non sapevo perché: mi prendeva una rabbia assurda,
però, quando pensavo di aver combinato quel casino immane
senza che ce ne fosse davvero alcun motivo. Sospirai e mi rigirai sul
letto mentre James e Remus continuavano a bisticciare e Peter ci
guardava tutti, silenzioso e attento. Alla fine fu proprio lui a
rompere quello strano silenzio carico di tensione che si era creato tra
noi.
“Dovresti mandarle un regalo
carino insieme a un biglietto con scritto “Scusa”,
altrimenti non riuscirai mai a dirglielo… e questo vale pure
per te…”
Mi puntò addosso quegli occhietti celesti e acquosi, con la
sua vocetta acuta e sottile, Peter cercava di rendersi utile: parlava
poco e sembrava sempre in un mondo tutto suo, in realtà,
tenendosi al di fuori, aveva una visione semplice e precisa degli
eventi.
“E dovreste entrambi smetterla
di azzuffarvi con Snape, visto che le ragazze che vi piacciono sono
entrambe sue amiche…”
“Che cosa? Ma figurati! Io a
quello lì non gli chiedo scusa nemmeno sotto tortura!
Né ora né mai!”
Detto questo, chiusi a scatto la tenda del mio baldacchino, come avevo
fatto spesso i primi giorni, lasciandoli al di fuori del mio mondo e
dei miei pensieri, a bocca aperta, se non scioccati, di certo basiti.
Figuriamoci se avrei mai chiesto scusa a Snivellus… Non io!
Non Sirius Black! Rimasi ancora un po’ a seguire i loro
discorsi attutiti dalle pesanti tende di broccato, infervorato da
quella strana rabbia che mi sentivo addosso e dalla figura di Snape,
che sembrava un’ottima valvola di sfogo per tutte le mie
frustrazioni represse. Poi stanco per la giornata e sfinito da
quell’onda di pensieri fastidiosi, la mia mente
scivolò per pensieri sempre meno coerenti e alla fine mi
addormentai.
***
Salgo
la scalinata. Le gambe pesanti di chi ha corso a lungo.
Devo fare in fretta, più in fretta.
Urla, urla cupe. Due figure si fronteggiano sulla torre.
Devo fare in fretta, più in fretta.
La scala interna è infinita. La mano irrazionale tocca la
maniglia e la ruota. La porta è socchiusa.
Entro in un mondo vuoto. Abbandonato da anni.
Un urlo mi esce dal cuore. L’urlo di una bestia ferita a
morte.
Chiome bianche emergono dal fondo della stanza. E un volto, millenario
di storie e sofferenze. Si avvicina e mi stringe il polso.
Osservo l’oggetto freddo che pone nella mia mano riarsa.
E’ la mano di un uomo, non più quella di un
bambino.
“Ora è tua”.
Il senso di quelle parole mi getta a terra. Il mio urlo disperato
adesso è completamente muto.
Mi svegliai. La stanza, la mia stanza nella torre dei Grifondoro, era
immersa nell’oscurità e nel sottile respiro
regolare dei miei compagni. Ero stordito, sudato. Arrancai
fino al bagno per rinfrescarmi la faccia e capire il senso di quello
che avevo sognato: ma di tutto il sogno che, sfilacciandosi
s’immerse rapido di nuovo nella confusione della mia mente,
ricordavo solo le rune tatuate sulle dita del vecchio:
Fear
***
Sirius
Black
Castello di Hogwarts, Highlands - mar. 26 ottobre
1971
“Per me questo qui soffre di
confusione mentale, Magda... Dì un po’, ragazzino,
quante volte ti abbiamo beccato qua sotto ormai? So che è
difficile da accettare, io al tuo posto mi sarei già buttato
dalla torre per la vergogna, ma visto che non hai scelto quella strada,
devi fartene una ragione, questo non è il tuo
posto!”
Sapevo che era una grandissima cavolata stare lì, nei
sotterranei dei Serpeverde, da solo, in attesa, già in una
giornata normale: l’avevo sperimentato sulla mia pelle. Ora
che mancava meno di una settimana alla partita Grifondoro/Serpeverde,
la mia sembrava davvero la scelta di un pazzo scatenato. Eppure restavo
immobile, mani in tasca ed espressione tipicamente Black, convinto
della mia decisione, con gli occhi fissi in quelli di Rabastan
Lestrange, mostrandomi molto più sicuro e saldo di quanto in
realtà non fossi. In fondo lui era l’amico di
Rigel e Sherton mi considerava un fratello, giusto? E per colpa di
Bellatrix eravamo pure, alla lontana, parenti… Non avrebbe
osato mai mettermi le mani addosso!
“Aspetto Rigel
Sherton!”
“E chi ti dice che vuol
vederti, ragazzino? A meno che tu non abbia per noi notizie di prima
mano sulla formazione dei Grifondoro!”
I suoi occhi simili a mercurio si staccarono dai miei, gettando
un’occhiata complice e lasciva sulla sua compagna: la
“ragazza del giorno” di Basty Lestrange
ghignò, mentre lui le arpionava possessivo il fianco. Da
quando, ormai due mesi prima, avevo iniziato a vederlo quasi
quotidianamente, quel ragazzo aveva cambiato
“fidanzata” almeno due volte per settimana: non
sapevo se provavo più ammirazione o paura, nei suoi
confronti. A Grifondoro si diceva che fosse uno dei più
feroci e sleali battitori della storia del Quidditch a Hogwarts. Che
fosse una persona sleale e un pessimo soggetto anche al di fuori del
campo di gioco, come tutti i Lestrange, l’avevo sentito dire,
invece, da Meda e da Cissa in più di un’occasione
sia a Grimmauld Place, sia a casa degli zii. A quel punto era naturale
chiedersi perché i fratelli Lestrange fossero i migliori
amici dei fratelli Sherton. Sinceramente avevo paura ad andare a fondo
in quella questione. Deglutii, mentre mi passavano per la testa almeno
dieci fatture dolorosissime e prive di manifestazioni esterne che
Rabastan poteva lanciarmi addosso solo per far divertire la sua bella.
Se io, inesperta matricola ne conoscevo già così
tante, mi chiedevo quante altre e quanto peggiori ne conoscesse uno
come lui, più grande, più esperto e ben
più cattivo di me.
“Che cosa succede
Lestrange?”
Mi bastò sentirne la voce per capire che era proprio una
pessima giornata per me: ma non poteva restarsene in Sala Grande a
spettegolare con le sue amiche come faceva sempre? Infondo, in due
mesi, ci eravamo scontrati per le scale pochissime volte. Restando
sempre silenziosi e imbarazzati.
“Nulla d’importante,
mademoiselle… Vi lasciamo alla vostra riunione di
famiglia… ciao Cissa!”
Lestrange, ghignante, ci lasciò soli lungo i corridoi del
sotterraneo, presso l’aula di Pozioni, mi chiedevo impaziente
tra quanto sarebbe uscito Sherton. A disagio, mi guardai la punta delle
scarpe, come facevo sempre, sia a Grimmauld Place sia a casa degli zii,
quando mi sentivo addosso lo sguardo pieno di rimprovero di mia cugina:
non era pazza ed esaltata come Bella, ma nemmeno dolce come Meda. Era
una persona fuori dal mondo dei comuni mortali, troppo superiore a
tutti noi, e da ancor prima del mio smistamento, amava ricordarmi, da
brava Black, quanto fossi inadeguato rispetto al nome che portavo e al
ruolo di salvatore della nostra famiglia che dovevo ricoprire per
nascita, a causa dei miei atteggiamenti poco conformi alle regole. E
lei era un caso da manuale, parlando di conformismo... Alzai gli occhi
verso Cissa, in tempo per vedere i suoi meravigliosi lineamenti tirarsi
nella classica smorfia di disgusto mal celato. Quanto assomigliava alla
mamma con quell’espressione di rimprovero. Pur diverse nei
“colori” rifulgevano entrambe di una bellezza
indescrivibile. E della stessa smisurata freddezza. Non era poi tanto
incredibile che la bellissima e altezzosa Narcissa Black non mi avesse
rivolto più di dieci “ciao” offesi e
disgustati dalla sera del mio smistamento. La sua natura perfettamente
Black non poteva che rivoltarsi nel vedere il presunto erede designato
vestito con gli odiati colori dei Grifoni.
“Cugino…”
“Cugina… Dove hai
lasciato il tuo biondo “consorte”?”
Ghignai. Non potevo evitare di comportarmi così, non
sopportavo lei come non sopportavo mio fratello, per la loro supina
sottomissione alle regole di famiglia e per la tacita accettazione
delle conseguenze nefaste che quelle regole avrebbero prima o poi
arrecato al loro futuro e alla loro felicità. Vidi appena un
accenno di rossore imporporare le guance, sostituendo il disgusto con
una nota di compiacimento e al tempo stesso di pudore. Dopo il
risultato dello smistamento di Meissa, di sicuro, a casa mia, non si
aveva più alcun pudore a parlare di quella
possibilità. Mi chiedevo, però, se davvero quello
che provava per Malfoy fosse un sentimento autentico e non soltanto
soddisfazione all’idea dell’invidia e
dell’ammirazione che avrebbe causato in tutto il mondo
magico, legandosi a una famiglia così ricca e potente.
“Va tutto bene,
Sirius?”
Alzai di nuovo gli occhi su di lei, sorpreso, mi aspettavo una delle
sue solite battute acide nei miei confronti, non certo quella nota
apprensiva nella sua voce.
“Direi che è tutto
normale, tutto come sempre, da quando sono qui…”
Volevo rimarcare che era lei a comportarsi in modo diverso, quel
giorno, non io: in quasi due mesi mi aveva sempre ignorato, persino
quando ero finito in infermeria, malridotto, non mi era venuta a
trovare. Troppo importante salvare l’onore della famiglia,
mostrandosi scostante verso quello scherzo della natura in cui mi ero
trasformato agli occhi degli Slytherins. Molto più
importante sottolineare il distacco, che assicurarsi che a suo cugino,
quello che aveva il suo stesso sacro sangue, non fosse accaduto
qualcosa di grave.
“Perché sei
qui?”
“Voglio parlare con Rigel
Sherton.”
Mi voltai appena vidi l’aula di Pozioni aprirsi, volevo
finirla con quel siparietto il prima possibile, non mi ero mai reso
conto di quanto mi graffiasse dentro pensare che fosse quel gelo,
d’ora in poi, ciò che mi avrebbe aspettato a
casa… In fondo ero abituato, non dovevo pensarci. Non
c’era nulla di diverso.
“Sirius…”
Mi voltai nuovamente verso di lei, guardai la bella mano di mia cugina
arpionarmi con grazia mista a urgenza la manica della giacca, gli occhi
non erano gelidi come al solito, c’era qualcosa
che… Forse poteva essere preoccupazione, di sicuro non era
rimprovero né disprezzo.
“… Stai lontano dai
sotterranei nei prossimi giorni… E stai alla larga dai
Serpeverde, da qualsiasi Serpeverde che non conosci più che
bene, d’accordo?”
“Temi che qualcuno provi di
nuovo a spezzarmi il naso, cugina?”
Ormai, col passare delle settimane, pur non avendo ricordi
più nitidi, mi ero convinto di non essere caduto
accidentalmente, ma di aver subito un agguato. E anche molti altri,
persino tra i Serpeverde, lo credevano.
“Io ti ho avvertito
Sirius… altro non posso fare…”
“Ah no?”
La guardai quasi sfidandola, lei si morse un labbro. Che strano, avevo
sempre visto Cissa sicura di sé. Ora, invece…
Forse avermi lì, vicino a lei, simile a lei, la faceva
dubitare che i suoi comportamenti nei miei confronti, dovuti al colore
di un cravattino, fossero poi così giusti. Non sembrava
più molto convinta che stesse facendo tutto ciò
che era possibile e giusto per suo cugino. Vidi uscire Rigel e mi
fiondai da lui ma, prima di andarmene, le strappai un altro sguardo
strano: non se l’aspettava di certo che io, un pestifero
ragazzino, quello che spesso agiva in modo inadeguato, e aveva fatto
vergognare tutti, sapessi comportarmi meglio di lei. Sì, era
proprio meraviglia quella che si era stampata sul bel viso di Narcissa
Black.
“Salutami gli zii e le cugine,
quando scrivi a casa, buona giornata, Cissa…”
*
“Sei proprio un pazzo, Sirius
Black! Dopo quello che ti è successo, torni nei sotterranei
da solo?”
Rigel mi aveva accolto sorridente e scherzoso, mi aveva dedicato subito
la sua attenzione, liquidando con un paio di cenni e due battute i suoi
compagni, poi mi aveva messo la sua mano protettiva sulla spalla e,
raccontandomi qualche sciocchezza divertente sul professor Pascal, mi
aveva accompagnato fuori dai sotterranei. Ora stavamo al riparo sotto i
portici del cortile d’ingresso, intabarrati nei nostri
mantelli, in un posto coperto eppure battuto dal vento carico di
pioggia che saliva dal Lago Oscuro: io, col freddo, al solito mi
sentivo a disagio, Sherton, come suo padre, sembrava trovare il suo
ambiente preferito in mezzo alle intemperie.
“Avevo bisogno di parlarti e
di farti vedere una cosa…”
L’avevo tracciata quella notte stessa, su un pezzo di
pergamena scartata, rapidamente, prima che il sonno e la confusione me
la strappassero dai ricordi. Rigel da curioso si fece serio quando
prese il foglio scarabocchiato che gli tendevo e vide la runa che avevo
tracciato.
“Ho sognato un vecchio con
queste rune sulle dita, dai libri di mio padre so che quei segni si
pronunciano “Fear”, ma non so quale sia il
significato…”
Capii subito dal colorito improvvisamente pallido che l’avevo
colto alla sprovvista e che la storia che stavo tirando fuori aveva
qualche connotazione poco allegra. Estrasse la bacchetta dalla manica e
per prima cosa incenerì la pergamena, poi mi
fissò addosso, serio, i suoi occhi d’acciaio.
“Prima regola… non
tracciare mai e dico mai le rune del Nord su fogli che estranei
potrebbero trovarti addosso… Mio padre ti avrà
detto che non devi far capire a nessuno che hai intenzione di unirti a
noi…”
“Scusami…
io…”
Sorrise, tornando a guardare lontano: la Foresta Proibita sembrava
emergere dal respiro ovattato di un drago addormentato, la nebbia si
sollevava dalla terra e si staccava leggera, in piccole colonne labili
che scivolavano via dalla cima degli alberi.
“Non ti sto rimproverando,
Sirius, te lo sto solo ricordando, perché finché
siamo qui, sta a me tenerti al sicuro…
D’accordo?”
“Sì…
ma… il sogno… dovevo parlartene: cercavo di
salire sulla torre di Herrengton e poi appariva questo
vecchio…”
“Stai tranquillo, Dumbledore
ha esteso su Hogwarts degli incantesimi potentissimi, nessuno da fuori
può influenzare e mettere a rischio in alcun modo, la salute
fisica e mentale di tutti noi. Alcuni dicono che qui, al contrario che
nel resto delle Terre del Nord, questa protezione ci impedisca persino
di fare sogni premonitori… E comunque… Questo
sogno di sicuro non potrebbe avverarsi…”
“Perché? Chi era
quel vecchio?”
Mi puntò di nuovo addosso i suoi occhi, ora il pallore aveva
lasciato il posto a un lieve rossore soffuso, e la classica luce
giocosa era tornata nel suo sguardo.
“Non lo so, ma quella
è la runa della famiglia MacPherson, probabilmente il vecchio
era il leggendario Reginald MacPherson… sarebbe stato
più credibile però se l’avessi sognato
a Herrengton, alcuni dicono che il suo fantasma dimori ancora nei
nostri sotterranei dal lontano XIII secolo. Quei maghi si sono estinti
molto prima della nostra nascita, Sirius, per questo difficilmente i
tuoi possono essere sogni premonitori…”
“Oh… E
perché il suo fantasma dimorerebbe proprio nei vostri
sotterranei?”
“Perché era un
prigioniero di guerra degli Sherton ed è morto nelle segrete
di Herrengton… Probabilmente hai visto le rune su qualche
arazzo a casa nostra, quest’estate... Ora è meglio
andare, però, o ti prenderai un raffreddore e perderai la
partita di sabato… Fossi in te, inviterei una certa persona
ad andarci insieme: per far pace, le partite di Quidditch sono
l’ideale…”
Mi fece l’occhietto e scoppiò in una sonora
risata, mentre diventavo porpora fino alla punta delle orecchie; al
tempo stesso, una nota dolorosa mi punzecchiava dal fondo dello stomaco.
“Rigel… prima hai
detto che i sogni che si fanno a Herrengton possono essere sogni
premonitori…”
“La maggior parte, in effetti,
si avvera… Per questo nostro padre ci dice sempre
“Occhio a cosa sognate!” come saluto della
buonanotte, ma lo fa per prenderci in giro, non ti
preoccupare… Perché?”
“No…
niente…”
Mi puntò addosso due occhi enigmatici: assomigliava
tantissimo ad Alshain in momenti come quello, con in più,
però, quell’aria maliziosa e pestifera che gli
erano propri.
“Dai…
Andiamo… E ricordati, non far vedere in giro questi colori
nei sotterranei nei prossimi giorni, o rischi di nuovo di rovinarti
questo bel naso Black! Poi chi la sente tua madre?”
Rise e di corsa raggiunse i suoi amici che iniziavano a uscire sul
cortile per cercarlo. Io ormai non badavo più a
lui… Se tutti i sogni fatti a Herrengton si
avveravano… Una smorfia mi accompagnò per tutto
il resto della giornata.
“Snape…
Evans…”
Li avevo attesi per tutta la lezione… Avevo
trovato una scusa per liberarmi degli altri e fare quello che mi
sembrava la cosa giusta. Di certo James me l’avrebbe fatta
pagare a lungo prendendomi in giro per mesi, appena l’avesse
saputo. Non avevo seguito nemmeno una parola del professor Pascal e
avevo rischiato l’ennesimo rimprovero, ma la mia mente
fibrillava d’impazienza dalla mattina, quando avevo parlato
con Rigel… Dovevo affrontarli e farla finita. Mi ero
preparato il discorso, l’avrei detto parola per parola, non
m’importava dei loro sguardi carichi di odio e disprezzo. Una
voce nella mia mente mi diceva che stavo facendo una cavolata. Eppure
mi rendevo conto che forse Peter aveva ragione. Intercettai gli occhi
di Meissa, preoccupata e incuriosita al tempo stesso, ancora ferma al
suo posto, aveva mosso un passo, poi un altro, pronta a difendere i
suoi amici. Non sarebbe stato necessario.
“Volevo scusarmi per
lunedì scorso… dico davvero… Potter
non c’entra nulla, sono stato io a fare tutto…
e… nemmeno volevo colpire uno di voi due, a dire il
vero… E’ stato… E’ stato
tutto uno stupido errore… Scusatemi…”
“Sei proprio un idiota Black,
su questo non c’erano dubbi… e puoi star sicuro
che non te la caverai con queste due paroline e la faccia da cane
bastonato…”
Nemmeno udii la voce nasale e pomposa dell’unticcio, nemmeno
notai il suo ghigno prima sorpreso e poi abitualmente caustico, tanto
meno m’interessai alle parole cariche di malcelato disgusto
della Evans: l’unica di cui m’importava era lei.
Meissa sembrava colpita e disorientata. Se tutti i sogni fatti a
Herrengton erano destinati a trasformarsi in realtà, Severus
era colui che rischiava di farmi cadere: ero pronto a tutto per lei,
l’avevo detto al Cappello… Se potevo affrontare la
mia famiglia, potevo affrontare anche un idiota come quello. Bastava
volerlo. Me li lasciai alle spalle, incurante che potesse lanciarmi una
fattura alla schiena e mi rivolsi a lei… Era quasi una
settimana che non ci parlavamo.
“Mei…
Ascoltami…”
Non ci misi molto a convincerla, anzi… Fu lei che mi prese
la mano, fece un gesto di saluto ai suoi amici e mi ritrovai fuori
dall’aula come sospeso tra le nuvole. Che cosa stava
succedendo? Mi ero preparato un lungo discorso in cui le parole
“pentito” e “scusa” e
“idiota”, si sarebbero ripetute come una litania
per ore… E invece?
“Mei…”
“Pensi di riuscire a
convincere i tuoi amici a seguire la partita dagli spalti dei
Tassorosso? Emily e le altre hanno detto che sarebbero contente di
ospitarci… E’ una buona soluzione per seguire la
partita tutti insieme senza incorrere nelle fatture dei Grifoni o delle
Serpi…”
La guardai, non era uno scherzo, diceva proprio sul serio. Ma
continuavo a non capire. C’eravamo trascinati fino ai
corridoi che portavano al cortile di trasfigurazione, era quasi ora di
rientrare e prepararsi per la cena quindi c’erano pochissime
persone e tutte andavano di fretta, ci fermammo vicino al ritratto di
un mago sonnolento, nella sua veste ottocentesca, le antiche vetrate
erano rigate dalle prime scie di pioggia, che lente e pigre scivolavano
a terra. La luce delle fiaccole dava alle persone, alle pietre e ai
quadri un aspetto intimo e segreto.
“Io… Vuoi davvero
invitare anche Remus, James e Peter?”
“Sì…
Naturalmente prima voglio scusarmi con loro…”
“Non ti
capisco…”
“Tu hai mirato a Yaxley e
James ha impedito che la tua fattura andasse a segno… poi si
è preso la punizione e i pugni al posto tuo… Dico
bene?”
Merlino… Sapeva tutto, non immaginavo come, ma sapeva tutto:
probabilmente mi aveva portato lì, perché non era
nei suoi modi mandarmi al diavolo in mezzo alla gente. Deglutii,
rapidamente pensai a quanto fosse lontano da lì un qualsiasi
bagno: forse se fossi stato abbastanza veloce, l’avrei
raggiunto prima di scoppiare a piangere.
“Quindi hai invitato
loro… non me… Ora è di me che pensi
tutte quelle cose che hai detto di James…”
La guardai, smarrito. Era quindi l’ultima volta che la tenevo
per mano e sentivo da vicino il suo profumo e riuscivo a vedere quella
luce strana che a volte emergeva dal profondo dei suoi occhi verdi?
“No, nemmeno tu sei un idiota,
bastardo e immorale… come non lo è
Potter… Io… Mi sono limitata
all’apparenza, come tutti… Anche se ormai dovrei
conoscerti meglio degli altri… Sono io che devo chiederti
scusa…”
Accadde in un attimo. Si sollevò appena sulle punte e mi
baciò delicata sulla guancia, in segno di pace, ma io
l’afferrai quasi con prepotenza, stampandole un bacio sulle
labbra e stringendola talmente forte a me da non darle alcuna
possibilità di fuga. Quando la sentii forzare la mia presa e
riuscire a sfuggirmi via, muta e rossa in viso, io non capivo
più niente. Rimasi come uno stupido appoggiato alla colonna
dietro di me, scivolando a sedere a terra, osservando in preda a un
tremore strano quella figura che correva via nel corridoio, il suo
profumo di fiori che ancora mi circolava nelle vene insieme al sangue.
Non potevo crederci.
Ero riuscito a dare un bacio vero a Meissa Sherton.
*continua*
NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, hanno aggiunto a preferiti/seguiti/ecc,
hanno recensito e/o hanno proposto/votato questa FF per il concorso sui
migliori personaggi originali indetto da Erika di EFP (maggio 2010). L'immagine a inizio
capitolo è di Interlude-four.
Valeria
Scheda
Immagine
|