L'ultima Alba
L'Ultima
Alba
Capitolo
Uno
Ho passato tutta la vita nascondendomi dagli umani. Loro, con quel buon
profumo... girare per strada è uno strazio perfino di notte
oramai, quando la sola luce della luna e dei lampioni illumina il mio
volto cinereo.
Adesso mi tocca abitare in un appartamento all'ultimo piano
di uno dei quartieri più malfamati della città.
Non è stato difficile entrarne in possesso. Prima veniva
usato da un trafficante di armi illegali come magazzino, ma dopo che
melo sono... bevuto, nessuno è mai più venuto a
reclamare la proprietà dell'appartamento.
Oramai saranno una decina di anni che mi rintano in questa topaia, ma
non mi lamento. Le ore passano lente ed inesorabili e so che, oramai,
non mi porteranno da nessuna parte. Di giorno leggo qualche libro o
guardo la televisione. Che grande invenzione che è stata!
Prima passavo ore a fissare il soffitto coricato su un letto o un
giaciglio di paglia, mentre ora posso farmi due risate mentre aspetto
che cali la notte.
Nutritrmi non è un problema. Ho scelto questo posto
perché se sparisce qualche persona, nessuno ne viene mai a
rdenunciare la scomparsa. Prostitute di basso livello, spacciatori e
drogati bazzicano la notte da queste parti: la feccia, insomma.
Con tutti i soldi che gli ho rubato negli ultimi anni potrei comprarmi
un bell'appartamento e tornare in questo luogo maleodorante ed
abbandonato da Dio solo per mangiare, ma sono diventato troppo pigro
pure per questo. E poi, qui nessuno mi viene mai a disturbare.
Non sopporterei di avere come vicina di casa una vecchietta
impertinente che ogni ora viene a suonare con la scusa di aver finito
il sale, solo per poter curiosare in casa a vedere se c'è
qualche bella ragazza che gironzola in vestaglia per l'appartamento, o
cercare il motivo per cui non esco mai di casa.
Qui è successo solo una volta che qualcuno suonasse al mio
campanello, circa tre anni fa. Erano un gruppo di ragazzine mezze
svestite che cercavano un appartamento vuoto dove dormire e farsi gli
affari loro.
Sono comunque sempre vissuto in vicoli malfamati nel corso della mia
lunga esistenza e si, anche della mia breve vita.
Ricordo che un centinaio di anni fa ero andato a vivere nella romantica
Paris, in compagnia di una giovane vampira che avevo
conosciuto appena arrivato in città. Giovane nel senso che
aveva incontrato la morte da meno di una decina di anni, dato che
anagraficamente avrebbe almeno venticinque anni più di me.
Lei era ancora presa dalla foga di bere sangue umano, come lo siamo un
po' tutti nei primi anni, e io l'ho aiutata a reprimere la sua brama
per proteggere la sua identità e salvarle, in un certo
senso, la vita.
Ovviamente, se noi vampiri ci accorgiamo che qualcuno sta abusando
troppo di vite umane per il proprio piacere a rischio di smascherare la
nostra identità, ci vediamo costretti a rivoltarci contro i
nostri simili.
Pertanto, all'epoca vivevamo nel ben noto quartiere di Mont
Martre e le persone di cui ci nutrivamo erano pressoché le
stesse che spirano adesso sotto la morsa dei miei denti.
Ricordo ancora chiaro come l'acqua il giorno in cui la mia
esistenza arrivò ad una svolta.
Mi trovavo seduto sul divano a fissare fuori dalla finestra le nuvole
nere e minacciose che si rincorrevano frenetiche sospinte dal vento
gelido. Nonostante fosse pieno pomeriggio, fuori era già
buio e il mio umore rispecchiava un po' quella cupezza.
All'improvviso qualcuno bussò alla mia porta. Incerto mi
avvicinai e guardai dallo spioncino chi fosse venuto ad infastidirmi,
ma non vidi nessuno. Sulla difensiva aprii di qualche centimetro il
portone e notai una figura gracile che stringeva tra le mani una
piantina.
-Chi sei?-, chiesi con voce più dura del dovuto.
Riuscivo a sentire i battiti del suo cuore accelerare e notai che
strinse la presa sul vaso.
-Sono la nuova inquilina dell'appartamento qui a fianco...- disse
incerta, -Volevo portarle un pensiero e dirle che per qualunque
problema può venire pure da me-.
Non so perché, ma qualcosa in quell'esile figura mi
colpì a tal punto da non sbatterle la porta in faccia come
avrei fatto con chiunque altro. Al contrario, la aprii e invitai la mia
nuova vicina ad entrare in casa con un silenzioso gesto della mano.
-Non sei di qui, vero?- domandai incuriosito. Evidentemente non era
inglese poiché non ne aveva né l'accento,
né l'aspetto. Troppo alta e snella, al contrario della gente
di qua e i capelli biondissimi si confondevano quasi con l'incarnato
pallido della fanciulla. E i suoi occhi... Che straordinaria
tonalità azzurra che avevano. Se non avessi sentito
chiaramente il caldo pulsare del suo cuore l'avrei confusa quasi
sicuramente per una di noi.
-Vengo da Oslo. Mi sono trasferita qui per studiare.-
Annuii in silenzio, fissandola forse più del dovuto, e la
invitai ad accomodarsi sul divano. Cauta
appoggiò il cactus sul tavolino di fronte a lei e si diede
una rapida occhiata intorno sempre più intimorita.
Effettivamente, visto con gli occhi di un essere indifeso come un
mortale, il mio appartamento non doveva sembrare molto accogliente. I
mobili erano coperti da uno spesso strato di polvere che non mi ero
quasi mai curato di togliere; un vecchio gatto, che abitava qua da
quando avevo ucciso il vecchio proprietario, sedeva immobile sempre
sopra un videoregistratore abbandonato per terra e residui di candele
consumate erano sparsi sul pavimento e sul tavolo.
Non accendevo mai la luce, ma per cortesia pigiai l'interruttore e il
lampadario iniziò ad emettere un sibilo sordo e
poco rassicurante mentre la luce cercava di farsi strada tra
le tenebre nella stanza.
Visti al chiaro, notai che la ragazza aveva gli occhi azzurri come il
cielo estivo che non vedevo oramai da secoli e impiantarono una certa
nostalgia in quel che rimaneva nel mio cuore di pietra.
I battiti del suo cuore rallentarono quando le chiesi se desiderava un
po' d'acqua e, quando gliela porsi, lei mi domandò
come mi chiamassi.
-Ditrich- sussurrai, quasi avessi paura di pronunciare quel nome.
Oramai non era più di moda nemmeno da dove venivo io. Avrei
fatto meglio a inventarmene uno da tempo, ma ero ancora affezionato, in
un certo senso, alla mia famiglia e consideravo un tradimento rinnegare
il nome che mia madre aveva scelto per me tanto secoli prima.
-Non sei inglese nemmeno tu, immagino.- Fortunatamente lei non si mise
a ridere e non fece nessuna delle domande imbarazzanti che mi sarei
aspettato e ne fui molto grato.
-No, infatti. Vengo da un paese della Germania del sud. Vivo qui oramai
da una decina di anni-, cosa che in fondo non era poi una bugia
così grossa.
-Beh, qualcosa ci accomuna allora- disse la ragazza sorridendo
timidamente, -Comunque il mio nome è Rebekka.-
Quando strinsi la mano che lei mi porse presentandosi, notai
un brivido scorrere lungo il suo corpo. Il freddo innaturale del mio
organismo doveva averla colpita. Nei suoi occhi intravidi una vena di
curiosità e la presa della sua mano sulla mia si fece
più stretta.
Passammo una mezz'oretta piacevole e le raccontai la vita del quartiere
senza ricadere nei dettagli più sordidi. Lei, mi
spiegò, veniva da una famiglia non molto ricca e questa era
stata l'offerta di affitto più vantaggiosa che aveva
trovato, ma il venditore non aveva minimamente accennato al fatto che
si trovasse in uno dei quartieri più disastrati di Dover e,
sorprendendomi di me stesso, mi ritrovai a darle alcuni consigli del
tipo “non accettare caramelle dagli sconosciuti”.
-Ora vado a casa che devo finire di preparare alcune cose. Ci si vede,
ok?- disse quando oramai si era fatto tardi e molto probabilmente lei
iniziava a sentire i morsi della fame.
Dopo tanti anni, sorrisi a questa ragazza che in fondo non era molti
più che una sconosciuta e la accompagnai alla porta ed
aspettai sul pianerottolo che entrasse nel suo appartamento.
Quando mi richiusi la porta alle spalle, non riuscii a fare a meno
scoppiare a ridere pensando a quello che era appena successo.
Io che lasciavo entrare in casa uno sconosciuto e, per di
più, lo lasciavo uscire illeso?
Come mai, nonostante riuscissi chiaramente a sentire il calore del suo
sangue pulsante nelle vene, non mi era venuta alcuna tentazione di
appoggiare le mie labbra nel caldo incavo del suo collo che si trovava
a pochi metri di distanza da me?
Come mai, quando mi ha toccato, nei suoi occhi è comparsa
una vena di curiosità nei miei confronti?
Come mai mi ero esposto alla luce e lei non aveva provato ribrezzo nel
notare il mio cinereo incarnato?
Possibile che non si fosse accorta del pericolo che stava correndo?
Qualunque animale quando si trova di fronte ad un predatore tenta di
fuggire, ma lei no.
-La solitudine deve farmi proprio male...- bisbigliai rivolto al grasso
gatto che mi fissava irritato, probabilmente svegliato dalle mie risate.
Per la prima volta dopo anni, presi da uno scaffale una videocassetta e
la infilai nel videoregistratore, stupendomi del fatto che funzionasse
ancora dopo così tanti anni di inattività, e mi
guardai un film, cullandomi nello stato di pace in cui mi aveva
trascinato quello strano incontro.
Da quel pomeriggio non sarei mai più stato lo stesso e devo
tutto a Rebekka.
Lei sarebbe diventata la mia alba.
Ringrazio
tutti coloro che sono riusciti ad arrivare a leggere fino a questo
punto e spero che veniate a visitarmi di nuovo quando
pubblicherò il resto della storia.
nel frattempo potreste leggere qualche altro mio lavoro ^^
http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=70620
Grazie!
Kajsa
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