Autore: _E r i s_
Titolo: Drawing your
life
Fandom:
Tokyo ghoul
Genere:
malinconico
Personaggi:
Suzuya Juuzou.
Rating:
verde
Introduzione:
"Aveva
ricominciato a provare dolore, quella volta, quella in cui il suo
mentore, colui che l'aveva spinto ad essere sé stesso e non
Rei,
aveva ceduto. E lui non voleva provare dolore, non voleva soffrire, non
voleva perdere nuovamente tutto. Non era sofferenza fisica, quella non
la provava da anni. Era un peso, un fardello all'altezza del petto e
del cervello, che premeva incessantemente in lui come a volersi fondere
in una consapevolezza atroce. L'aveva avvertita, quella stessa
consapevolezza,
quel "è
successo per colpa tua"
nella sua testa. Voleva scappare, aveva sempre voluto scappare."
DRAWING
YOUR
LIFE
- Mamma, di che colore
è il cielo? - i suoi occhi scarlatti fendevano le tenebre.
La pelle di
sua madre era ruvida, non gli piaceva averla così vicina.
- Azzurro,
Rei-chan.
- Ed
è bello?
- Certo che
lo è, ma è sempre oscurato dalle nuvole.
Aveva
alzato gli occhi cremisi su quelli nascosti da due spesse lenti scure
della donna, scrutandola con curiosità. Aveva dimenticato
del dolore
che poco prima aveva avvertito ai polsi, quando quella stessa "mamma"
che tanto adorava li aveva infreddoliti con delle dure catene. Non
gli piaceva nemmeno indossarle, erano troppo pesanti e lui non era
forte, si muoveva a malapena. Ma sua mamma diceva che era necessario,
che le catene potevano solo fargli bene e quindi lui, per
accontentarla, non proferiva parola. Sorrideva e basta.
-
E cosa sono le nuvole? - aveva nuovamente chiesto curioso, stringendosi
lievemente nelle spalle per riscaldarsi dal freddo pungente di quella
cella. Avvertiva ancora la sensazione appiccicosa del liquido coagulato
poco sotto il labbro, lì scottava.
- Nulla. -
lei aveva sorriso, ma Rei non comprendeva il perché di
quell'espressione.
- Allora
perché esistono?
- Per
macchiare il cielo, come tu macchi la terra con la tua presenza,
Rei-chan.
-
Quindi io sono come una nuvola? - era una considerazione infantile,
nemmeno lui la comprendeva a pieno e non sapeva il perché
l'avesse
pronunciata ad alta voce, temendo la risposta di sua mamma. Ma
nuovamente quel sorriso sornione si era dipinto su quel volto serafico
e scavato dall'età, dalla bruttezza.
-
Sì.
Aveva taciuto
qualche secondo per metabolizzare quella replica concisa che lo aveva
fatto lievemente sobbalzare.
- Allora non
sono nulla?
- Esatto.
Sin
dall'epoca in cui era solo un infante, una gracile e fievole creatura,
la sua irrilevante vita era sempre stata disegnata da una calca di
ignoti.
La pitturavano di bianco e di nero, la rendevano grigia, neutra,
uniforme alla sua veduta, statica, inalterata man mano che le stagioni
passavano e tornavano.
La disegnavano con la grafite, con la lapis, che si sbiadiva dopo poco
tempo, pochi anni - la sua ancor più velocemente, dato che
il
suo disegno vecchio e deforme era stato conservato tra quelle quattro
mura ruvide, buie, spoglie e gelide.
Strinse tra le dita lunghe e affusolate la vecchia matita, quella che
era riuscito a mantenere, contro le sua aspettative, anche dopo tutti
quegli anni passati dalla conclusione delle lezioni all'accademia -
nonostante lui si rifiutasse categoricamente di parteciparvi; non
sopportava quegli sguardi.
La punta era ormai arrotondata - la utilizzava quasi ogni dì
e
raramente ricordava di temperarla - e la gomma era pressoché
inesistente, consumata e decorata da quel mantello grigio scuro che la
grafite cancellata da qualche foglio aveva lasciato come un marchio.
I suoi occhi tondi - quelli tipici dei bambini, eppure lui era sicuro
di essere cresciuto almeno un po', lentamente, gradatamente in quegli
anni - e di quelle tonalità vermiglie si alzarono verso il
cielo
ceruleo, quasi a volersi protendere verso esso.
Si posarono delicatamente sui contorni sfumati - quasi fossero stati
anch'essi abilmente disegnati da uno sbalorditivo artista - delle
nuvole candide, studiando la loro forma astratta.
Da quando la sua vita si era dipinta di colori vivaci - il verde dei
prati, il turchese del cielo o anche solamente il dorato e il rosso di
quelle sue strambe bretelle -, poco dopo essere stato ritrovato col
coltello sporco di cremisi tra le mani, adorava guardare la volta
celeste. La riproduceva su quei fogli candidi e scribacchiava in fondo
ad essi quella che sarebbe dovuta essere la sua firma, quel "Suzuya
Juuzou"
che, scritto a penna, non si sarebbe mai cancellato, era indelebile -
chissà se un giorno anche lui sarebbe divenuto un artista,
un vero artista, non di morte come chiunque amava
definirlo, lì.
Si riconosceva vagamente nelle nuvole, in quelle forme non tangibili
dall'aspetto puro - eppure di lui si poteva dir di tutto, che fosse
solo uno squilibrato, l'ingenuo e sorridente ragazzino, ma non era
minimamente paragonabile al concetto di purezza -, erano dinamiche,
mutavano la propria forma, i propri contorni, anche il proprio colorito
quando pioveva.
Juuzou riproduceva quel comportamento da tempo
immemore: cambiava il proprio aspetto - i filamenti rossi sulle braccia
diafane erano opere di un vero artista -, non stava mai fermo, ogni
occasione per lui era buona per scappare via da tutto, dalla
realtà soffocante, da quegli "è
stato lui",
"è
stato lui",
"è
stato lui".
Ed infine cambiava.
Si lasciava distruggere interiormente, con lentezza
estenuante, da quegli sguardi, da quegli occhi che lo accusavano di
azioni che lui non aveva mai commesso - almeno a quanto rammentava. Il
suo colore mutava: la sua pelle diafana si tingeva di scarlatto, i suoi
capelli albini presentavano schizzi vermigli, ma il sorriso era sempre
lì.
Sempre sulle sue labbra sottili e rosse.
Poi ricominciava tutto, un ciclo continuo.
Suzuya ripose il proprio sguardo sul foglio, ormai non più
candido come le nuvole che sempre osservava, ma pitturato di
tonalità celesti, simili a quelle del cielo estivo.
In qualche tratto, principalmente negli angoli della carta che gli
portava sempre Shinohara-san, era presente qualche spazio bianco,
probabilmente a causa della spossatezza di quella mattina che gli
impediva di concentrarsi a fondo - il giorno prima aveva lavorato per
tutta la giornata e, ormai, aveva compreso di soffrire d'insonnia -, o
magari aveva solamente voglia di lasciarlo così, nel
tentativo
di riprodurre goffamente i cristalli di ghiaccio condensati in grumi e
globuli.
Qualche tratto bianco e solitario nell'immensità del blu,
proprio come lui.
Lui era quella macchia bianca nel cielo perfetto di tutti, quella
indelebile e insistente, quella che nemmeno un soffio di vento avrebbe
potuto spazzare via - perché le nuvole ci sono sempre, anche
se
il sussurro del vento è così prepotente da
mandarne via
qualcuna.
Scrutò per qualche secondo l'elemento cartaceo tra le
proprie
candide mani, per poi lasciarsi sfuggire un debole sorriso, uno di
quelli falsi, di circostanza, insensati.
Ripose con
lentezza il foglio sulle ginocchia, afferrò il portacolori a
lato delle proprie gambe e trafficò qualche attimo con la
cerniera, alla ricerca di una penna.
Quando la trovò, la prese e se la rigirò qualche
secondo
tra le dita bianche, per poi stapparla e scrivere in fondo "Suzuya"
come prova che il disegno era suo, per dimostrare che oltre a porre
fine ad una moltitudine di vite sapeva fare anche altro - era anche
solo un miracolo che sapesse scribacchiare rozzamente il suo nome, sua mamma non
gli faceva toccare nemmeno un libro. All'accademia era stato complesso
imparare, soprattutto se messo sotto pressione in quel modo.
- Finito. - asserì solamente, come se qualcun altro fosse
stato
lì per contemplare i suoi capolavori. I suoi capelli albini
danzarono al sussulto del vento, seguendo l'elegante volteggio delle
nuvole.
- Perché non provi a
rappresentare il cielo?
Si era
voltato con un
cipiglio curioso verso il mentore, in piedi alle proprie spalle. La
punta che poco prima stava delineando il contorno di chissà
quale figura astratta sul foglio stropicciato si era bloccata. Aveva
alzato lo sguardo verso la volta celeste, scoprendola coperta da spesse
nuvole. Era rimasto qualche secondo in silenzio, per poi scrollare le
spalle.
- In cielo vi sono sempre le nuvole e mamma
diceva che
sono inutili. Non ha senso disegnarle. - si era giustificato con
ovvietà, non curandosi dell'espressione di Shinohara. Era un
sorriso, ma non comprendeva il significato.
- Le nuvole sono come i sogni, sembrano sfuggevoli e irraggiungibili,
ma, se non provi a seguirle, non riuscirai mai a raggiungerle.
Suzuya lo aveva scrutato perplesso, non comprendendo.
Forse era la mancanza di empatia che veniva accusata da tutti a
complicare la sua visione delle cose.
Ciò che vedeva era distorto, falso, eppure tutti lo
dipingevano come un quadro allegro.
Non aveva proferito parola, attendendo che il mentore si spiegasse.
Dopo qualche attimo, infatti, egli aveva scrollato le spalle e
ridacchiato notando la smorfia del "tirapiedi".
- Sono portatrici di ideali. - aveva mormorato, inclinando di poco il
capo. - Sono libere.
Non vedo perché sia così tanto impensabile
disegnarle.
"Libero" non gli piaceva come parola, non gli era mai piaciuta.
Sua madre diceva che non era libero, anche Shinohara-san gli ripeteva
costantemente che non era libero, che era legato al passato, che non
avrebbe potuto essere libero fin quando non avrebbe scordato tutto.
Lui non voleva scordare, non voleva dimenticare le braccia forti e
robuste di sua mamma che lo sorreggevano quando lui era troppo stanco e
debole per reggersi in piedi.
Non voleva scordare la sensazione di appartenere a qualcuno, anche se
di razza diversa.
Poi, per gioco, un giorno, aveva calcato una linea immaginaria su un
foglio, tingendo di turchino il resto.
Aveva pensato a come sarebbe stato essere libero, senza costrizioni,
non essere "quello che uccide gli animali", "il ragazzino
problematico", "il tizio cresciuto dai ghoul". Era bello, pensava, non
dover essere "quello", ma poter essere "Juuzou", solo "Juuzou" e nient'altro.
Ogni
tanto gli era capitato di pensare a come sarebbe stata la sua vita se
non fosse stato rapito, se avesse avuto una famiglia, una vera
famiglia.
Se sua madre lo avesse imboccato quand'era piccolo, se suo padre gli
avesse dato il bacio della buonanotte ogni sera prima di dormire... ma
pensava fosse inutile crogiolarsi in una fantasia che mai si sarebbe
avverata.
La sua esistenza, la sua condanna, era stata scelta da chi si era
appropriato di lui, del suo corpo e della sua mente.
Avevano pianificato tutto, quegli ignoti che da piccolo tanto lo
tormentavano, avevano scelto come sarebbe dovuto crescere.
Poi quell'ombra, quella che a lui era sembrata tanto simile ad un
fascio di luce, lo aveva portato via con sé, lo aveva
portato in
accademia, quella che avrebbe dovuto definire "casa" - non gli piaceva
nemmeno quel termine; era stato privato di ciò.
Ed anche allora la sua vita era stata dettagliatamente pianificata da
tutti tranne che da lui, il legittimo proprietario.
Non sapeva come doveva muoversi, cosa doveva fare per decidere da solo,
autonomamente, senza l'aiuto -
l'imposizione - di altri.
Poi era arrivato quel giorno, quello in cui avrebbe dovuto dimostrare
che esisteva, quello in cui avrebbe potuto lottare affiancato dallo
stesso fascio di luce che aveva parzialmente illuminato la sua
esistenza quando era solo un bambino.
Quelle parole - "se tu
morissi, io sarei triste"
- risuonavano forti e concise nella sua mente, aveva il terrore di
lasciarle scappare via. Ed era avvenuto l'inevitabile, l'impensabile.
Quella luce si era spenta davanti ai suoi occhi, lui era di nuovo
capitombolato giù nelle tenebre.
Aveva urlato talmente forte da graffiarsi la gola, aveva combattuto ma
l'unica cosa che era riuscito a rimediare era una gamba amputata. Aveva
ricominciato a provare dolore, quella volta, quella in cui il suo
mentore, colui che l'aveva spinto ad essere sé stesso e non
Rei,
aveva ceduto. E lui non voleva provare dolore, non voleva soffrire, non
voleva perdere nuovamente tutto. Non era sofferenza fisica, quella non
la provava da anni. Era un peso, un fardello all'altezza del petto e
del cervello, che premeva incessantemente in lui come a volersi fondere
in una consapevolezza atroce. L'aveva avvertita, quella stessa
consapevolezza,
quel "è
successo per colpa tua"
nella sua testa. Voleva scappare, aveva sempre voluto scappare.
Scappare da sua madre, dalle sue braccia fredde e dai suoi sorrisi
falsi, da Shinohara, dalle sue lievi risate, quelle che dedicava solo a
lui. Da quando gli avevano insegnato che doveva legarsi a qualcuno si
sentiva orribilmente peggio. Tutto gravava sulle sue spalle: doveva
proteggere, doveva eseguire gli ordini, ma lui non voleva. Voleva
essere libero, voleva districarsi dal suo passato, dal suo presente e
da tutto ciò che per lui era stato programmato; voleva
essere
intangibile ed ammirabile come una candida nuvola. Voleva essere Suzuya
Juuzou.
Era giunto il momento di disegnare da solo la propria vita.
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