Dal Diario Di Una Mamma
Lo sapevo io
che non dovevo accettare questa missione. Lo sapevo bene. Eppure lo
avevo fatto.
Avevo deciso di mettere
a rischio la mia vita, la mia sanità fisica e mentale, tutto
per onore, bhè, anche per qualcos’altro…
Privarmi di ore vitali
con la mia piccola Nessie, magari non sarei più
tornato…
Mio padre me lo
ripeteva ogni volta, “E’ un tuo dovere
Jake!” ed alla fine era riuscito a farmelo fare.
La peggiore cosa che un
ragazzo, un adolescente, un licantropo! Potesse fare: svuotare la
cantina.
Banale, direte voi,
aspettate di salire in una cantina amministrata dal sottoscritto da
circa quattro anni… affrontare un gruppo di vampiri pazzoidi
e vendicativi vi sembrerà una passeggiata.
Lo devo ammettere, sono
stato uno stupido, infognarmi in questa situazione per quanto?
Venticinque dollari!
Ma i soldi mi servono,
ne ho un urgente bisogno, fare un regalo a una bambina multimiliardaria
è un’impresa assai ardua.
Così quel
giorno, dopo essermi sistemato per andare incontro a tutto quel caos
che mi pesava sulla testa, salii al secondo piano e titubante tirai
giù la scaletta che conduceva al solaio.
Avevo creato un mostro.
Emisi un lamentio
sommesso, cosa diamine avevo fatto?! L’idea di gettare le
cose alla rinfusa si era rilevata una scelta pessima, eppure mi
sembrava tanto geniale al momento: poco spreco di tempo, massimo
risultato.
Sbuffai e mi diressi
verso i primi scatoloni che mi accolsero sornioni, sì, ne
sono sicuro! Quei maledetti cartoni risero sbeffeggiandomi!
Sarebbe stata una
missione kamikaze, ne ero sicuro.
Passai dentro quel
posto polveroso e buio per più di quattro ore,
sì, avete ragione, ma io lo avevo detto che era un suicidio!
Padre traditore! Lui e i suoi ricatti!
Ormai potevo essere
considerato parte integrante del mobilio assai scarso, ero pieno di
polvere! I capelli ormai erano diventati grigi, gli occhi mi bruciavano
e le mani… sorvoliamo sul colorito dei miei polpastrelli:
non vorrei scandalizzarvi.
Sospirai girandomi,
dando appuntamento per il giorno dopo al mio piccolo inferno personale,
ma proprio in quel momento notai una scatola che mi era sfuggita fino
ad allora.
Era di colore giallo,
che in passato doveva essere acceso, sbiadito, sui lati erano disegnate
delle figure di persone stilizzate, mi avvicinai incuriosito e la tolsi
da sotto un vecchio tavolo. Dentro era piena di giochi. Le due bambole
di Beck e Rachel, con i bottoni al posto degli occhi, i
capelli di lana colorata, ed il vestitino perfettamente cucito,
sembrava un capo di alta sartoria. Sorrisi malinconico e le posai
nuovamente dentro, attirato da un altro oggetto: Puddy. Il mio Puddy.
Il mio piccolo peluche, di quando ero bambino, il mio migliore amico,
il mio orsacchiotto, non mi ero mai diviso da lui, non fino a quando
non avevo incontrato Quil, devo ammetterlo, ricorda proprio un Teddy
Bear.
Trattenendo una lacrima
lo rimisi insieme agli altri ricordi, avevo intenzione di andarmene
veramente questa volta, però… cosa era quel
quadernino? Con la copertina arancione, e una foto davanti…
troppa polvere lo copriva, lo pulii velocemente ed osservai la
fotografia.
Smisi di respirare per
degli attimi eterni.
Noi.
Papà,
Rebecca, Rachel io e le… la mamma. Come mai si trovava qui?
E soprattutto… cosa c’era scritto dentro? Lo aprii
bramoso, la troppa foga mi fece strappare il primo foglio, imprecai
sottovoce e lo rigirai tra le mani, cercando di farlo combaciare
nuovamente con il resto… era datato 1982…
precisamente il 16 Maggio. A circa un mese dalla nascita delle gemelle,
che cosa strana, sembrava un diario.
Cosa feci? Ma logico!
Iniziai a leggere! Con tutta la voglia di questo mondo.
La
Push 16-05-82
Mi
sembra di tornare a dodici anni, quando tenevo un diario con tutte le
mie cotte, e gli amori del cinema, eppure eccomi qui a
scrivere… L’idea che mi è balenata
questa mattina ascoltando le gemelline scalciare nel pancione non si
sarebbe placata finché non avessi iniziato a scrivere.
Vedermi
ogni giorno allo specchio, notare come la mia pancia cresca, i dubbi,
le domande di ogni momento, la paura, l’ansia di diventare
mamma, il desiderio di avere una guida, mi fanno venire voglia di avere
un libretto di istruzioni da consultare nei momenti di bisogno.
Purtroppo
non lo ho. E lo vorrei tanto avere… Ma se le mie figlie
invece avessero questa fortuna?
Ho
la pazza idea di annotare qui ogni giorno, ogni momento, ogni istante
in cui potrò dire di essere una mamma.
Fissai sconvolto il
pezzo di carta, era… un vero e proprio diario, il diario di
una mamma. Ansioso e bramoso mi misi a sfogliare: le prime pagine
parlavano di come risolveva i problemi con il pancione, sorvolai con
disdegno riguardo alle questioni private tra lei e papà,
molto, molto imbarazzante.
Arrivai velocemente a
pochi giorni dopo la nascita delle gemelle…
La
Push 16-06-82
Sono
tornata da una settimana dall’ospedale, stare a casa ora ha
un nuovo senso. Il tabacco delle sigarette di Billy non si sente
più, ormai è stato sostituito dal profumo delle
bambine, dal talco…
Sorridiamo
sempre, mi sembra quasi stupido. Ci guardiamo e le labbra non fanno che
piegarsi all’insù, ci ripetiamo che
siamo l’uomo e la donna più fortunati del mondo:
siamo mamma e papà, cos’altro possiamo desiderare?
Ho
sempre pensato che il dolore e la felicità fossero due
sensazioni ben distinte, due opposti che si guardano in cagnesco.
Eppure mi sono dovuta ricredere, credo di non aver mai sofferto tanto
quanto durante il parto: pensavo di dover morire, le ore non
passavano, lo scoccare di ogni minuto mi sembrava l’alba di
un nuovo giorno; ma la gioia… quella sensazione di
felicità infinita che si prova nel vedere il viso rosso e
urlante delle proprie figlie, i loro capelli neri ed arruffati, gli
occhi chiusi, i pugnetti stretti. Si completano. Arrivano insieme,
l’una a scacciare l’altra.
Allegria,
gioia, felicità… nonostante il dolore, ricordo
solo quella…
Avevo una
paura tremenda di tornare alla nostra casetta, all’ospedale
ero sicura che per qualunque evenienza qualcuno mi avrebbe aiutato,
perfino quel infermiera indisponente e truccata pesantemente, che tanto
non sopportavo.
Billy era
venuto a prendermi, tremava da capo a piedi, sembrava essere ritornato
al nostro primo appuntamento. Quando parcheggiò nel nostro
vialetto mi costrinsi di respirare profondamente, sentivo che una volta
aperto lo sportello, posato il piede fuori dall’auto sarebbe
iniziata una nuova vita, la nostra nuova vita. Fatta di nottate
insonni, problemi, ma felicità, tanta, troppa
felicità. Mi domandavo infatti se il solo vederle, le mie
piccole gemelline, mi procurasse così tanta
gioia… il sentirle parlare, l’osservarle crescere,
mettere un piedino dietro l’altro, camminando
impacciatamene… Sarei stata pronta per tutto questo? Dubbi,
dubbi, unicamente dubbi. Fissavo la strada intensamente, stringendo
forte la cintura di sicurezza, aggrappandomi a quella fascia di stoffa,
credendo di potermi salvare. Sarei caduta?
Sospirai e mi
mossi, Billy era ormai vicino all’entrata, teneva in mano una
culla enorme, con dentro le due piccole, gli parlava con voce dolce e
gentile.
Li raggiunsi
in poco tempo, lui mi strinse a se con il braccio libero, aveva i piedi
sopra il nostro zerbino, “Welcome”, i capelli corti
e neri erano leggermente bagnati dalla pioggia che aveva preso per
proteggere Rachel e Rebecca.
-Pronta?-
chiese con un sorriso rassicurante baciandomi la fronte.
Avevo ancora
le occhiaie per le notti passate a rimuginare sulle centinaia di future
domande, e insicurezze.
-A
cosa, amore?- domandai di rimando sollevando la testa.
-Ad essere
mamma!- esclamò divertito lui baciandomi la fronte leggero.
Inspirai
nuovamente. Ero pronta? Poi pensai: ma qualcuna nasce veramente pronta
ad affondare la più grande sfida della propria vita?
I gemiti delle
bambine mi risvegliarono dal mio pensare, sembravano essere contente,
mi convinsero.
Orgoglio,
quanto ne provavo in quel momento.
…credo
quindi che la festa abbia avuto un buon esito, Billy era riuscito a
preparare tutto alla perfezione.
Il racconto
dell’arrivo mi fece rimanere senza fiato, veramente una madre
poteva provare tutto questo? Non veniva più…
naturale? Stupito sfogliai nuovamente le pagine: le prime pappine, i
disastri causati dalle gemelle recidive ad accettare la pappa, le
smorfie di papà, e la dolcezza di mamma. Me la ricordavo
così, però pensavo fosse una distorsione della
mia mente, troppo infantile e manipolata dai sentimenti intensi che
provavo per lei.
Mi fermai quando mi
accorsi di una macchia di caffè, che copriva metà
pagina rendendola più scura. La scrittura era confusionaria,
veloce, quasi affrettata. Incuriosito lessi, rimanendo stupito.
Orlando
15-08-88
Credo
di non essere mai stata tanto vicino alla morte quanto ieri. La paura
che ho provato non l’ho mai sentita, quel adrenalina pura che
mi scorreva per le vene, così pura da far male, colpirmi il
cuore direttamente, bloccarlo per almeno un attimo, facendomi sentire
finita.
Lo
sapevo che non avrei dovuto mai, e poi mai dare il permesso a Rebecca
di salire su quella macchina di morte…
Non
siamo mai stati una famiglia molto ricca, il mio lavoro al giornale
locale e la piccola officina di Billy ci davano il giusto per vivere
felici senza stenti. Solitamente non andavamo in vacanza
l’estate, ci recavamo ogni giorno, se il tempo permetteva, a
First Beach, dove le gemelle si divertivano a prendere in giro le onde
per poi farsi rincorrere. Quando amavo quei momenti, in cui tutto era
perfetto, dove il sole un po’ coperto dalla nuvole cercava
imperterrito di far fuggire i suoi raggi, che cadevano sui capelli
bagnati delle piccole, facendoli risplendere. Come erano
belle… delle volte mi sembravo stupida, credevo fosse
impossibile pensare sempre la stessa cosa, così
ossessivamente, eppure non riuscivo a non farlo. Quando esageravo
arrossivo, borbottando poi tra me e me un rimprovero.
Quel
anno però, per festeggiare l’ottima promozione di
entrambe al primo anno delle elementari, avevamo deciso di esaudire un
loro piccolo desiderio, una preghierina che ogni notte facevano ai
piedi del loro letto, e che io, silenziosamente ascoltavo, cercandone
qualcuna da poter realizzare.
Erano
così dolci, quando chiedevano di poter essere brave a
scuola, quando sussurravano alle loro manine giunte che io e mio marito
continuassimo a stare bene. Sentivo il cuore sciogliersi, tutto per
loro.
Ai
primi di Agosto, quindi, decidemmo di portarle ad Orlando, a
Disneyland, il loro piccolo sogno proibito.
Non
sapevano nulla, pensavano che fosse l’ennesima gita fuori
porta, al massimo a Seattle, ma quando notarono che non proseguivamo
per il centro della città, bensì verso
l’aeroporto, cominciarono a fare domande.
Io
e Bill non riuscimmo a trattenerci per molto, non potevamo resistere ai
loro occhi scuri che ci fissavano supplicanti. Forse, però,
sarebbe stato meglio. Alla notizia della nostra destinazione
cominciarono a saltare sui loro sedili, lanciando urletti di gioia, si
abbracciavano tra di loro, non riuscendo a formulare frasi di senso
compiuto, ma solo parole scomposte che esprimevano tutta la loro
felicità.
Sentii
due braccine flebili e calde che mi strinsero da dietro, attaccandomi
allo schienale, Rachy, che mi gridava tutto il bene che mi voleva.
-Oh!
Mamma! Grazie, grazie, grazie!- esclamava ogni cinque minuti, ripetendo
la scena.
Billy
sbuffò sonoramente, mettendoli broncio mentre parcheggiava e
tirava fuori le valige, che avevamo preparato di nascosto, sfruttando i
due giorni di bel tempo che avevano allontanato le bambine da casa.
-Ed
io? Chi sono?- mugugnò passando attraverso le porte.
Le
bambine scoppiarono a ridere e lo rincorsero per abbracciargli le
gambe, con improvvisa ilarità, per poco non cadde, perdendo
l’equilibrio a causa di quelle pesti.
Vederli
insieme, loro tre, mi rendeva la donna più felice del mondo.
Di questo mio piccolo, magnifico, e personale mondo.
…partimmo
in perfetto orario, e quando arrivammo nella città ci
accolse il sole. Facendo comparire sul volto di tutti un sorriso
entusiasta.
E così quei
quattro non mi avevano portato a Disneyland! Tradtori! Ringhiai
sommessamente, a me avevano sempre rifilato la scusa che non avevamo
abbastanza soldi, e le solite stupidaggini, perfino per
l’ammissione alle medie, e loro due? Per una promozione in
prima elementare… a Orlando! Mondo crudele ed ingiusto.
Però non
riuscivo a capire perché la mamma avesse avuto paura,
cioè… sembra andare tutto bene. Cosa era successo
per rovinare tutto? Lessi frettolosamente tutta la descrizione della
giornata, fino a quando non notai un cambio di scrittura, molto
più simile a quella dell’inizio. Mi fermai e
sistemandomi la testa fra le mani, poggiate sulle ginocchia, ripresi a
leggere.
…Se
non avesse insistito per salire sul bunging jumping, non glielo avrei
mai permesso. D’ora in avanti mi riprometto di non cedere mai
più alle suppliche di Rebecca, mai più!
…
La
giornata era passata magnificamente, era favoloso vederle correre di
qua e di là con i loro cappellini gialli, con le orecchie di
Pluto che saltellavano insieme a loro. Non riuscivano a stare ferme
più di un attimo, era più forte di loro. Ogni
tanto però si bloccavano al centro della
“via”, si voltavano e ci sorridevano, venendoci ad
abbracciare.
Io
le stringevo a me, il più forte possibile, sperando che
questi attimi di gioia pura non finissero mai, li volevo conservare,
metterli nel mio cuore, e fare in modo che non se ne andassero mai via.
Impressi
indelebilmente nel mio animo, insieme a loro, la mia vita, le miei
gioie.
Le
lasciai, anche quella volta, e proseguimmo. Non lo avrei dovuto fare,
no. Ancora adesso mi sento in colpa, in dannatissima colpa, eppure in
quel momento non mi sembrava così sbagliato…
Superammo
le montagne russe e ci ritrovammo davanti ad uno di quei gonfiabili,
che io tanto odiavo. Avevo sentito di bambini che erano caduti,
rimanendo poi paralizzati, così negai immediatamente, quando
mi chiesero di poter salire.
Iniziarono
a guardarmi un po’ rancorose, gli occhi che si inumidivano
poco alla volta, fino a far scendere delle lacrime, completamente
finte, lo so bene, ma una madre non capisce il confine che
c’è tra dolore vero e quello improvvisato dai suoi
figli: per lei è dolore. E non deve esistere.
Mio
marito, inoltre, non mi fu di molto aiuto. Avrebbe fatto di tutto per
essere considerato il padre perfetto, e soprattutto non riusciva a
sopportare le lacrime di quelle due sgrinfie.
A
malincuore, perciò, gli concessi il permesso di salire.
Mai
farlo, mai e poi mai.
Salirono,
togliendosi le scarpe. Erano felici come non le avevo mai viste, e
così lo fui anche io, di conseguenza. Eravamo come uno
specchio, loro il soggetto, io il riflesso. Non riuscivo a provare
sentimenti che non fossero uguali ai loro, gioivo se trovavano una
figurina mancante, soffrivo se la maestra esagerava con i compiti.
Non
è vero che le madri sono mature, tutt’altro.
Quando si partorisce si ritorna bambine, perché dopo tutto
la maternità non è nient’altro che
amore, e l’amore fa diventare tutti più piccoli.
Iniziamo ad apprezzare nuovamente le piccole cose, vedere il mondo in
modo diverso… Da mamme diventiamo anche figlie.
Le
osservavo saltare allegramente da destra a sinistra, poi successe tutto
in un attimo: la spinta troppo forte, la parte sbagliata, e
quegli interminabili secondi in cui Rebecca venne sbalzata fuori dal
jumping.
Sentii
il cuore perdere un battito, i polmoni smettere di battere, il mio
corpo fermarsi di colpo. Come morto.
E
lei era ferma, a terra, sul cemento, non parlava, non faceva nulla.
E’
finita, pensai, finita per tutti. La mia vita, quella della mia
famiglia, perfino del mondo. Perché non riuscivo ad
immaginare un luogo senza la mia bambina.
Mi
gettai su di lei urlandone il nome, avevo la mente completamente fuori,
stavo pensando a tutte le alternative nel caso in cui lei…
non riesco neanche a pensarlo. Mi sarei uccisa, non avrei sopportato il
dolore.
-Beck!
Oddio parla- gridai, non dovevo toccarla, ne spostarla, potevo
peggiorare la situazione nel caso di rottura.
Billy
aveva gli occhi fuori dalle orbite, piano, piano un capannello di gente
ci aveva circondato e sussurrava.
Rebecca
respirava a fatica, aveva gli occhi sbarrati e guardava in alto.
Io
ero in piena crisi isterica.
-BECK!
BECK!- urlavo, senza ritegno, non mi importava nulla delle persone
intorno a noi. Piangevo, sentivo la gola secca, la pelle formicolarmi.
Lei
socchiuse la bocca ed in un soffio parlò, mai suono mi fu
più caro, mai voce fu più gradita.
Era
come ascoltare la più dolce poesia, invece era solo un nome:
il mio.
-Mamma-
sussurrò impercettibilmente, per tutti, tranne che per me.
-Oddio
Beck! Parla! Ti prego di qualcosa!- pregai sfiorandole la guancia.
-N…non
ci riesco- mormorò affranta.
Mi
bloccai terrorizzata. Non poteva essere. Non doveva essere.
Aspettai
altri interminabili minuti in cui l’immagine di Rebecca sulla
sedia a rotelle mi tormentò, lo scricchiolio delle ruote sul
nostro pavimento, immaginavo come sistemare la camera in modo
più pratico, il suo sguardo triste mentre guardava le amiche
giocare a campana.
E’
possibile che una madre pensi sempre il peggio? E per quale motivo poi?
Non lo saprò mai.
Fu
un istante e mosse la testa, lamentandosi un po’, aveva le
guance rigate da numerose e sempre nuove lacrime, eppure dopo un
po’ riuscì a mettersi seduta.
Avevo
vinto. L’avevo raggiunta nuovamente, la mia vita, la mia
esistenza. Non ho mai creduto nei miracoli, o almeno, non ne avevo mai
provato uno in prima persona; ma il sorriso un po’ timido e
impacciato, che allo stesso tempo cercava di consolarmi, era
ciò che più si è avvicinato al
paradiso.
Aveva
ripreso a respirare regolarmente, si teneva una mano dietro la schiena
dolorante e la testa bassa, come se non volesse guardarmi in volto.
Titubai
ad abbracciarla, pensavo di poterle fare male. Bill la guardava con uno
sguardo che sembrava appartenere ad un uomo che aveva appena visto Dio,
indescrivibile.
-Mamma,
scusa, mi dispiace- balbettò in difficoltà,
sapeva bene che non l’avevo mai approvato quel gioco, che
temevo sempre il peggio: questo.
Scossi
la testa, mi asciugai velocemente le lacrime e scoppiai a ridere, senza
però smettere di singhiozzare.
Felicità,
quanto è vicino il suo confine con il dolore.
…ritornammo
a casa dopo una settimana, Becks aveva passato i giorni dopo
l’incidente privandosi dei giochi che sballottavano di
più, non si fece mancare però le mille foto con i
personaggi creati da Disney.
Sbattei le palpebre
sorpreso. Possibile che una persona potesse provare tutti questi
sentimenti? O meglio, io li provavo per Nessie, ma era
un’altra storia, quello era Amore. Mi ritrovai a riflettere
sul fatto che forse l’amore di una madre è
veramente la cosa più forte ed indissolubile del mondo. Dopo
tutto il mio era imprinting, qualcosa di eccezionale, che solo noi
licantropi potevamo provare, invece questi erano dei
sentimenti… comuni. Di tutti, anzi, di tuttE.
Le gemelle dovevano
essere due pesti, tutte le pagine seguenti erano simili, riportavano
danni e ansie di mamma, insieme alla mille e mille cure per bernoccoli,
ginocchia sbucciate, e attimi di panico davanti a nasi sanguinanti.
Ma voi non sareste
stati curiosi di sapere un po’ di più sulla vostra
infanzia? Io sì. Così sfogliai rapido fino al 96,
data della mia entrata alle elementari, e soprattutto della comparsa
dei due miei migliori amici: quei due scapestrati di Embry e Quil.
La
Push 05-06-09
Amo
Jacob, lo amo con tutto il cuore. Amo il suo sorriso, le sue fossette
sbarazzine, gli occhi neri che non erano mai fissi, ma sempre pronti a
scattare su qualcosa di nuovo o interessante. Le mani perennemente
sporche, o impiastricciate. Quell’aspetto birichino, dovuto
anche al mento tondeggiante, che tanto mi piaceva.
Ed
era per lui che facevo tutto questo. Io amo i bambini, sono tutto
ciò che mi rende viva. Anche se delle volte, lo ammetto, mi
sento stanca, e le loro urla, ed i loro schiamazzi mi fanno saltare i
nervi.
Ma
era per lui che facevo tutto questo, così mi ripetevo, era
per lui che ogni settimana invitavo i suoi migliori amici, e facevo in
modo che casa mia diventasse un campo da guerra…
Adoravo le
risate dei bambini nel giardinetto dietro a casa mia, rapiti a giocare
con il pallone colorato, oppure intenti a inseguire il cane dei vicini
che attendeva come un martire questi momenti di svago.
In quei
giorni, considerati di fuoco, le gemelle scappavano, se c’era
il sole, cosa assai rara, uscivano semplicemente, nel caso di pioggia
si recavano come povere esuli a casa delle amiche. Logicamente il
giorno dopo l’invito era ricambiato, questo faceva
sì che casa nostra non fosse priva di ospiti, di tutte le
età; anche gli amici di Billy non scherzavano in fatto a
visite.
Questo era
però uno dei mille aspetti della vita nella riserva, ed a
me, in fin dei conti, piaceva.
Visto che,
sfortunatamente, nello stato dell’Oregon la pioggia
è un’ospite poco gradita, ma sempre pronta a
presentarsi, quel giorno i bambini dovettero accontentarsi di
divertirsi a casa.
Era
pomeriggio, e fuori soffiava il vento, nonostante fosse giugno,
così avevo deciso di preparare ai piccoli una torta.
Quella al
cioccolato, che tanto gli piaceva. Sorridevo facendola immaginavo
già le loro facce sporche di panna, ricoperti fino al naso
da uno strato di cacao, ridendo divertiti, ed io? Esattamente come
loro, mi sedevo di fronte ai “tre moschettieri”,
come li chiamavo, poggiavo i gomiti sul tavolo e li osservavo, ridendo
senza ritegno.
Quel giorno
erano in salotto, riusciti ad ottenere il Twister da Becks, si stavano
divertendo a contorcersi sul tappetino di plastica a pois. Ogni tanto
gli lanciavo delle occhiati ammonitrici, fingendomi severa, se
esageravano con le urla, per poi ritornare in cucina, dove scoppiavo a
ridere, silenziosamente certo. Recitare la parte della mamma
bacchettona mi faceva sempre questo effetto, anche perché la
faccia confusa e stupita di Jacob era la migliore delle barzellette.
Sentendo
l’odore del dolce propagarsi per la piccola stanza mi piegai
e lo tirai fuori dal forno, sorridendo orgogliosa. Ed esattamente in
quel momento sentii il rumore.
Un sonoro,
agghiacciante e rumoroso crack.
Mi precipitai
di corsa nella camera da pranzo, quello che vidi fu agghiacciante, Jake
in piedi su una sedia, con in mano una palla, a terra dei cocci rotti e
lui completamente coperto di polvere.
Ma quella non
era semplice polvere, erano le ceneri di mia madre, defunta da pochi
anni, riposte in un’urnetta di ceramica, che ora si trovava
frantumata per terra, il coperchio da una parte e il resto frammentato
sotto la sedia.
-JAKE!- urlai
agitatissima, poteva essersi tagliato, fratturato, o chi più
ne ha più ne metta! Mi fiondai su di lui portandolo
giù velocemente dalla sua postazione da piccolo
arrampicatore, i suoi due amici stavano dietro di noi, con un
sorrisetto, anche se potevo notare la paura che potessi arrabbiarmi.
Non lo feci. Non ci riuscii.
La testa mi
martellava insistentemente, le mani tremavano, e sentivo il fiato
corto. Dovevo assolutamente calmarmi, lo feci solo quando notai che non
usciva sangue e che l’unica cosa che poteva essere pericolosa
era la quantità spropositata di cenere sulla sua faccia, in
particolare sul naso. Starnutiva, mi sembrava un pulcino spiumato.
Gli accarezzai
dolcemente i capelli, spolverandolo letteralmente, poi sospirai e
fingendomi più severa possibile gli ordinai di andare
immediatamente a lavarsi.
Lo fece in
poco tempo rapido come un razzo per essere pronto, come sempre, a nuove
avventure con Quil ed Embry. Li spedii in camera di Jaky dove, per lo
meno, se combinavano qualche danno si notava meno con il caos che
regnava.
…
La cosa che più mi ha colpito oggi è che io mi
sono preoccupata per mio figlio, unicamente per lui. I resti di mia
madre sono passati improvvisamente in secondo piano, qualcosa di
superficiale in confronto a lui, il mio piccolo spruzzetto di sole. La
paura che ho avuto per una stupidaggine mi ha fatto capire
che… quando sei mamma non esiste un attimo di
tranquillità, ma non certo per ciò che ti
circonda, ma per loro. I compiti a scuola, i loro amici, i loro timori.
E’ come se d’un tratto il tuo asse di orbita si
sposta improvvisamente, ora sei tu che giri intorno a loro, e basta.
Sono il tuo sole, la tua pioggia, il tuo riso, il tuo pianto,
ciò che più ti rende felice, e ciò che
più ti fa preoccupare.
Il
tuo epicentro. Ecco.
Il
tuo magnifico ed unico epicentro.
Scoppiai a ridere
leggendo quel episodio, ricordandomi la paura improvvisa di quando il
vaso mi era scivolato dalle mani, non ricordo di preciso il
perché fossi salito, tutto ciò che mi ritorna in
mente sono i suoi occhi colmi di terrore e di ansia. Le mani che mi
accarezzavano ovunque cercando una ferita inesistente. Il sorriso colmo
di sicurezza e gioia, così dannatamente materno.
Senza rendermi conto
sentii due lacrime scendermi lente sulla guance, e cadere delicate sui
fogli, inumidendoli, lasciando scappare l’inchiostro
intrappolato da troppi anni. In pochi attimi le gocce di tristezza si
trasformarono in un fiume in piena, il mio corpo era scosso dai
singhiozzi.
Lei, la mia mamma, il
MIO vero ed unico sole era morta. In un incedente banale, per un
capriccio del destino.
Non ho mai pianto per
la sua morte, ho sempre pensato che fosse una cosa…
sbagliata, avrei tradito il suo desiderio: che nessuno, al mondo,
piangesse. Ma ora, davanti ai ricordi, a quelle sensazioni che avevo
deciso di accantonare per sempre in un angolo remoto del mio animo non
potevo fare altro.
Con gli occhi offuscati
dalle lacrime continuai a leggere, il diario si interrompeva
il 14 Marzo 2000, pochi giorni prima della tragedia.
Da ogni pagina
trapelava l’amore che provava per noi, nonostante i disastri
che combinavamo, le paure che le facevamo prendere, le bugie innocenti
che le raccontavamo. Lei, semplicemente, ci amava.
Ora sapevo cosa sentiva
una madre ad essere tale. Ma per me, cosa era?
Tutto.
Quando piangevo sentivo
che lei sarebbe stata vicino a me, le sue dita, con quel anello
d’oro tanto bello, avrebbero tolto le lacrime dai miei occhi,
le sue braccia mi avrebbero stretto a se, il suo sorriso consolato
semplicemente apparendo. Quando è morta io mi sono sentito
finito. A soli dieci anni sentivo un peso massiccio sul cuore, lei se
ne era andata.
Mi aveva salutato prima
di uscire, trafelata, era in ritardo per il lavoro, colpa mia, avevo
lasciato in disordine, un bacio sulla fronte e via.
Fortunatamente mi
ricordavo ancora il suono della sua voce, il più dolce e
melodioso, era come sentire mille campanellini suonare insieme, quando
cantava si fermava tutta casa, pronti ad ascoltarla.
Alzai la testa, gli
occhi arrossati, il piccolo oblò impolverato mostrava le
nuvole tingersi di arancione, era il tramonto. Avevo passato tutto il
pomeriggio qua dentro, a leggere, dato il marasma che ancora mi
circondava. Con uno sbuffo esausto mi alzai, un colpo veloce di mano e
le lacrime erano sparite, gli occhi rossi sarebbero stati facilmente
giustificati con la polvere.
Uscii da quel luogo
pieno di ricordi e portai giù i sacchi di cianfrusaglie che
ero intenzionato a buttare, una per una, senza fretta iniziai a
portarle fuori, dentro il bidone della spazzatura.
Al secondo giro spostai
lo sguardo verso destra, mi dovetti bloccare, una figura piccolina si
faceva pian piano più nitida, e non dovetti sforzarmi troppo
per capire chi fosse: Leah.
Correva a
velocità umana, anche se sembrava trafelata, agitata per
qualcosa, quando me la ritrovai davanti stentai nel credere alla mia
vista: sorrideva.
Non era un sorriso
cinico, sarcastico o triste, era un sorriso… felice.
La fissai sospettoso,
concentrandomi sugli occhi: brillavano eccitati.
Piegai leggermente la
testa e notai solo in quel momento che teneva in mano una busta del
supermercato, agitandola continuamente.
Si fermò
davanti a me e mostrò il migliore dei suoi sorrisi.
-Sono arrivate!-
esclamò portandomi davanti al naso il sacchetto. La guardai
stranito, delle volte mi chiedevo se il fatto che lei parlasse solo con
me fosse un segno… magari ero strano pure io.
-Chi, di grazia?-
risposi scettico allontandomi un po’.
A quel punto, come per
magia tirò fuori dalla sacca di plastica un pacchetto viola.
Ancora più confuso spostai il mio sguardo
dall’oggetto a lei.
-Ma come chi?! Le
cose!! Quelle cose! Le mestruazioni, la settimana no, del
ketchup, ovulazioni, come diavolo le vuoi chiamare?!- mi
ammonì ridendo. Sembrava veramente felice.
-Ti sono venute?-
deglutii allarmato, se lei era nervosa in situazione di
normalità, cosa potevo aspettarmi da una Leah in piena crisi
ormonale?!
-Esatto!- un urletto di
gioia uscì dalle sue labbra, non credevo che fosse capace di
emetterlo come suono.
-Dio Lee-lee,
promettimi che non mi scannerai- borbottai posando dentro il cassonetto
la scatola stracolma.
Mi fulminò
gelida aiutandomi con gli ultimi rimasugli: -Non provocarmi-
Risi e la feci entrare,
fortunatamente non si era accorta che avevo pianto.
Mi gettai esausto sul
divano e lei seguì il mio gesto con più grazia e
portanza, wow, non credevo che una volta al mese, da quel giorno,
sarebbe stata una gentile donzella.
Stemmo in silenzio per
un po’, riflettevo su quello che avevo appena letto, il
diario di mia madre. Con lei mi risultava facile stare così,
semplicemente noi due, senza troppi problemi, dopo tutto quel caos con
i vampiri italiani si era pian piano ripresa, certo, con gli altri si
comportava sempre come la solita zitella scorbutica, ma con me era
diversa. Più semplice, più Lee-lee.
Ad un certo punto si
contorse sul divano, dolorante.
-Ai! Avevo dimenticato
quanto facesse male- si lamentò portandosi una mano sulla
pancia.
-Ti fa male?- chiesi
incuriosito.
-Sì,
parecchio- si strofinò il basso ventre, coprendoselo con un
cuscino.
-E allora
perché le volevi così tanto?- era una domanda
banale, cioè, perché desiderare di soffrire per
tutti i prossimi anni?
Lei non
parlò, mi fissò sconvolta, poi scosse la testa
rassegnata.
-Tu non puoi capire,
sono cose da donna, io sopporto tutto questo per diventare mamma-
spiegò semplicemente, con il tono pacato e tranquillo.
Mi bloccai mordendomi
un labbro, il quadernino arancione stava sul tavolino, ero dannatamente
tentato di prenderlo e leggerlo nuovamente.
-Ma è
davvero così bello?-
-Non lo so,
però ora è la cosa che più desidero,
è …come sapere che alla fine della corsa ci
sarà la vittoria, il sole alla fine della notte, non so di
preciso come sarà, se mi piacerà, per ora lo
voglio e basta- disse a bassa voce, stendendosi.
La sua faccia sognante
e timorosa, quella paura che avevo percepito nelle prime righe scritte
da mia madre, si incarnava nei gesti della mia amica, un po’
titubanti e insicuri, ma dettati da una forza primitiva, la
più potente di tutti.
-Cosa hai Jake?-
domandò curiosa tirandosi su con una smorfia.
-Tieni- avevo preso il
diario ed ora glielo porgevo sicuro. Lei ne aveva molto più
bisogno di me.
Mi guardò
sbigottita, lo afferrò leggermente e lo aprì
sulle sue gambe.
-Cosa è?-
domandò sfogliandolo timida, come se avesse paura di
romperlo.
-Un diario, credo ti
servirà in futuro- spiegai con un’alzata di spalle.
Rimase così,
leggendolo avida fino all’ora di cena, io
l’osservavo in silenzio.
Avevo conosciuto molte
mamme: mamme attive, mamme morte, mamme che sapevano amarti perfino
attraverso pagine aride di un quadernino logoro; ma non avevo mai visto
una mamma che doveva ancora nascere.
Forse sarebbe stato
bello diventare madre, una cosa unica da come dicono tutte.
Un grido soffocato di
Leah per il dolore del ciclo mi fece rabbrividire.
No, meglio lasciare il
compito più difficile alle donne.
Non vorrei combinare
guai.
Angolo autrice:
Ok, prendo fiato... Seconda classificata. Non ci credete? Nemmeno ioXD
Mi è piaciuto veramente tanto scrivere la ff, anche
perchè sono tutti fatti realmente accaduti, o alla
sottoscritta o ad amici^^
Non ho molto da dire, tranne che amo Sarah alla follia,
questa donna è la mia idolaXD
Basta stupidaggini, vi lascio al commento e vi chiedo come sempre di
lasciare anche voi il vostro!
Seconda
classificata: Princess
of vegeta6 con Dal diario di una mamma
Livello ortografico: grammatica: (5) sintassi(5) 8
Lessico e stile (10) 8.5
Originalità (10) 9.5
Trama (10) 9.5
Personaggi IC (5) 5
Gradimento personale (5) 5
45.5/50
Giudizio:
Partiamo dalla grammatica e la sintassi. Ho riscontrato
qualche piccolo errore di battitura dovuto sicuramente alla
distrazione, ad esempio: mettendoli broncio, asso di orbita, i suoi
occhi colpi di terrore, allontandomi un po’.
Ho riscontrato anche alcuni errori sintattici e ad un certo punto
dall’uso del singolare sei passata a quello del plurale.
Delle
frasi sono difficili da capire cosa probabilmente dovuta a una
correzione durante l’ultima rilettura e quindi poi non
ricontrollata.
Ad un certo punto ho notato una parola che non ho mai sentito:
sgrinfie. Magari ignoro io quel termine, ma sei sicura non sia una
parola dialettale?
La storia è molto originale e il tema del contest
è decisamente centrato.
Il
fatto di parlare, però, di un personaggio a noi quasi
sconosciuto,
come Sarah Black, da un lato ti ha un po’ facilitato il
compito, potevi
più agevolmente delle altre scrivere un testo abbastanza
introspettivo
senza la paura di rendere i personaggi OOC.
Per questo, ho deciso di considerare la caratterizzazione di Sarah e
non i personaggi di contorno.
Hai
presentato il tutto molto bene e Sarah è semplicemente
perfetta,
grazie alla lettura del suo diario si riesce a comprendere, quasi in
pieno, la sua personalità.
L’idea di far parlare prima Jacob, poi il diario ed infine la
mamma l’ho trovato un punto a tuo favore, hai reso,
così, la storia più
convincente e l’’entrata in scena finale di Leah
è stata semplicemente
eccezionale(io adoro Leah e mi hai fatto sorridere con il dialogo tra
lei e Jacob)
La tua storia mi è piaciuta molto, la trama è ben
sviluppata,
ma voglio chiederti una cosa che esula dal mio giudizio questa
è
semplice curiosità dovuta alla tua e-mail: quali degli
avvenimenti che
hai fatto raccontare a Sarah è successo realmente a te?
Spero non
quello di Rebecca XD
Comunque ancora complimenti^^
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