1# Dependence: Absintium
Una raccolta senza pretese sulle varie dipendenze che si possono avere. Diciamo più un esperimento che altro.
Le ambientazioni sono nel nostro mondo e sparpagliate nel tempo.
Ecco la prima, incentrata su Neji e sul rapporto con la sua famiglia o meglio con le due donne della sua vita.
Introduzione: Seconda Guerra Mondiale; l’epoca
del dolore, delle separazioni e della vita o della morte, la vita raccontata
dagli occhi di un capitano, che si abbandona ai piaceri della sua droga per non
dimenticare la sua vita.
1# Dependence: Absinthium
“L’Assenzio è un
distillato ad alta gradazione alcolica all’aroma di anice derivato da erbe
quali i fiori e le foglie dell’assenzio maggiore, dal quale prende il nome.
Talvolta viene erroneamente definito un liquore, ma non lo è; essendo
l’Assenzio prodotto da una trasformazione a caldo tramite alambicco e imbottigliato
senza l’impiego di zucchero, perciò è classificato come distillato.”
“Sta zitto Neji! Chi se ne frega di quello che stai dicendo! È alcol, è
buono, e questo basta.”
“Basta ai drogati e gli insulsi, come te Kiba. Questo non è solo alcol,
questa è un’arte mortale.”
§§§
Durante quei tempi di guerra era a dir poco impossibile
trovare un carico così ricco, pregiato e raro.
Però era successo. Kiba e Naruto avevano fermato una
camionetta sospetta, credendo di trovarci sicuramente dei rifornimenti per le
truppe tedesche, e invece avevano trovato quelle cinque casse.
Erano sicuramente destinate a generali, ufficiali o
comunque di alto rango tra i nemici.
Incredibile come quei due fossero stati attenti a
nascondere le casse, non farne parola con nessuno, soprattutto a me, il loro
capitano.
Versai con cura e precisione il liquido verde dentro il
bicchiere a forma di ampolla raggiungendo il segno limite.
Quei due bigotti avevano addirittura negato di averlo
trovato loro quando li avevo scoperti in pieno, ubriachi fradici, in preda a
visioni e tremori.
Una droga ardita, che sicuramente avrebbe fatto gola a
qualsiasi soldato, di qualsiasi nazionalità, durante quei tempi bui.
Perché ognuno ha bisogno di poter dimenticare i propri
dolori, le proprie ferite, e distrarsi da questo mondo infame, lasciando
scivolare il dolce veleno dentro sé.
Per sopravvivere.
Presi un cucchiaino specifico appoggiandolo sopra il
bicchiere, in bilico. Era strano, piatto, largo nella testa, quasi come una
spatola, e traforato con decorazioni varie.
Mio zio, Hiashi, mi aveva insegnato a dosare e a preparare
questo distillato nel modo più adatto. Quando ancora ero giovane, quando ancora
ero accettato.
Avevo imparato che per ogni gesto, oggetto, parola, c’è il
momento giusto.
Il problema viene da sé, quando più momenti si accavallano.
La guerra, la famiglia, la malattia, la vecchiaia.
E Hiashi non aveva trovato soluzione più giusta che
sbattermi fuori dalla sua famiglia, dentro un’accademia militare in Irlanda.
Lo maledii, ogni secondo della mia giornata. Quando ero
costretto agli esercizi più disparati, a studiare tattiche per la guerra che
sarebbe arrivata presto, quando la notte mi aggrappavo al corpo di
quell’operaia da quattro soldi molto inferiore del mio rango.
Maledii lui, e quella debole di sua figlia. La polmonite
l’aveva colpita e aveva costretto la nostra nobile famiglia a sperperare i
nostri soldi in cure inutili e inappropriate.
Versai l’acqua ghiacciata sopra la zolletta che avevo posto
sopra il cucchiaio, facendola disciogliere piano, colorando il verde di un
bianco perlaceo.
Come la sua pelle, bianca, pallida, malata. La guardavo con
astio, rinchiusa nel suo letto, quando prendevo la licenza dall’accademia.
E odiavo vederla inerme, tra le lenzuola bianche come il
suo volto. Mi veniva la nausea.
Quando tornavo dall’Inghilterra trovavo sempre lei, lì
davanti all’officina, ad aspettarmi a braccia aperte con quei suoi sorrisi
gentili, Tenten.
Non le avevo mai chiesto niente, ed era sempre vicina per
sorreggermi quando tornavo.
Presi tra le mani callose il bicchiere gelido con lo
sguardo perso al di là delle pareti della tenda.
Bevvi d’un fiato il mio veleno abbandonando la testa oltre
la spalliera.
Non l’avevo mai ringraziata e l’avevo sempre trattata con
sufficienza. Voleva che tornassi in pace con la mia famiglia, che mi
riavvicinassi a Hinata.
E per questo, quando tornavo, odiavo anche lei.
Quella vicinanza mi avvelenava dentro, diventavo ancora più
chiuso, freddo e razionale di quanto già non fossi.
Chiusi gli occhi sentendo la testa girare, i contorni del
soffitto di tela cominciarono a sfumare mentre socchiudevo le palpebre
lasciandomi andare.
Solo quando ero solo, con quella mia droga riuscivo a
farlo.
Chiudere gli occhi e abbandonarmi al tepore dei miei
ricordi.
Quando da piccolo giocavo con mia cugina Hinata a palla,
quando da giovane studiavo insieme a mio zio, quando da adulto affondavo la
testa nella spalla di Tenten.
Piccoli scorci di vita serena, che in guerra mi sembravano
così lontani, riaffioravano vividi nella mia mente.
Strinsi gli occhi sentendo un brusio fastidioso e
improvviso.
Rialzai la testa di scatto sentendo una potente fitta di
nausea salirmi fin dentro le narici, poggiai gli avambracci alle ginocchia
aprendo gli occhi con una smorfia.
Una chioma bionda e una bruna della medesima lunghezza si
agitavano confuse davanti all’entrata.
“…Ji…”
Digrignai i denti cercando di concentrarmi per riacquistare
le mie facoltà.
Le voci confuse si infrangevano crudelmente contro le mie
orecchie creando un frastuono insopportabile.
Scossi la testa lentamente agitando il mio cervello con le
onde che mi scombussolavano.
“Neji ma che fai? Non ci aspetti per bere?”
“Se vuoi bere, prenditi una sedia e un bicchiere, non c’è
ragione per cui tu debba scocciare me Kiba.”
Sentii il graffiante rumore del metallo strisciante contro
la terra e le pietre. Mi coprii le orecchie con le mani storcendo il naso,
riconobbi a stento le figure che sembravano Kiba e Naruto sedersi attorno al
mio tavolo.
Mi gettai indietro con un po’ troppo slancio finendo
dolorosamente con la schiena contro la spalliera.
Vidi confusamente altri due bicchieri accanto al mio, e
guardai i miei due sottoposti.
“Prepara il cocktail micidiale Neji.”
Guardai male il moro e il suo amico che già aveva
cominciato a straparlare, senza neanche aver bevuto.
Versai con calma il distillato nei tre bicchieri ripetendo
metodicamente i gesti che ormai sapevo a memoria.
Girammo in contemporanea il cucchiaio a mescolare il
liquido.
Come ogni sera.
Perché quando puoi, vuoi dimenticare di essere sul campo,
di avere gente intorno che muore.
Versammo nelle nostre gole quella droga così dolce,
sprofondando nel torpore, una, due, quaranta volte forse, non saprei dirlo con
certezza.
I contorni sfuocati scivolavano nel verde, e piano sentivo
anche la mia vita scivolare via con loro, nel verde.
Ancora, vedevo ancora lei, Tenten. Tra gli sperduti campi
d’Irlanda, girare in tondo con un sorriso marcato sulle labbra, la vedevo
abbracciare mia cugina, vestite di bianco, come due nuvole, eteree.
Allungai una mano per raggiungerle e vidi la mia mano rossa
di sangue.
Le due dee mi guardarono inorridite scappando veloci come
due gazzelle dove i miei occhi non potevano raggiungerle.
Rimasi lì, solo, ripudiato. Dalle due persone che più
contavano per me.
È difficile ammetterlo, ma tutti, bene o male, siamo soli.
Siamo soli nel bisogno, nella vita, e accanto a noi ci sono
solo persone che ti sfiorano da dentro per poi abbandonarti.
Chiusi gli occhi tremante. Ripetendo parole a vanvera,
senza neanche capire io stesso cosa stessi dicendo.
Mi trovai sul pavimento, non capendo come c’ero arrivato,
aprii le palpebre guardando il soffitto verde.
Non erano loro ad avermi abbandonato, ero io ad aver
abbandonato loro.
Un conato mi travolse facendomi girare da un lato. Rigettai
sulla terra nuda, infilando le mani nel terriccio crudo.
Stranamente però, non sentii il nauseante odore che
caratterizzava quel gesto, ma il profumo dei suoi capelli corvini mi avvolse.
Era un odore dolce ma pungente, come di frutta fresca,
ancora acerba.
Hinata…
Il suo profumo era sempre stato buono. Mi piaceva molto da
piccolo dormire con lei, perché mi sdraiavo lì accanto e respiravo a pieni
polmoni quella droga che era il
profumo dei suoi capelli.
Rimasi lì, assaporando quel dolce profumo, prima di
ricadere in un baratro vuoto, senza odori, senza luce, senza suono.
Mi rigirai su me stesso sentendo i miei muscoli in preda
agli spasmi peggiori.
Un tanfo orribile mi arrivò alle narici, quasi vomitai di
nuovo, ma un suono mi tenne occupato il corpo e la mente da quella fine.
Una risata cristallina, dolce e solare. Come uno scrosciare
d’acqua in primavera.
Tenten…
Chiusi la mente ai suoi ricordi. Non volevo vederla, non in
questo stato.
La testa girava vorticosa, mi coricai supino sentendo delle
voci ovattate sopra di me.pan>
“…pitano! …taccano! …alzi!...”
Chiusi gli occhi ancora una volta, sentendo svanire –
troppo lentamente per i miei gusti – l’effetto di quella droga in corpo.
Guardai i miei sottoposti agitarsi per alzarmi da terra e
poggiarmi sul letto.
“Capitano! Ci attaccano! Cosa dobbiamo fare?”
Guardai quel giovane sbarbato che mi teneva la testa tra le
mani prima che cadesse nel vuoto.
Troppo giovane per morire. Probabilmente doveva ancora
sposarsi, avere dei figli.
E io, io non potevo ancora morire.
Prima dovevo sistemare le cose con Hinata. Prima dovevo
sposare Tenten. Prima dovevo salvare tutti loro.
Con una smorfia di disappunto mi alzai cercando la lucidità
tra le nebbie che oscuravano il mio cervello.
Guardai la cartina orientandomi a malapena sotto il
frastuono che producevano le bombe che colpivano il terreno attorno alla tenda.
Ce la dovevo fare.
Non potevo ancora
morire.
§§§
Un uomo che non vuole dimenticare, che non vuole morire.
Classificata al sesto posto al Poison Contest indetto da PansyMalfoy che ringrazio sentitamente.
Un grandioso applauso alle podiste e a voi lettori che vi siete fermati a leggere fino alla fine ^^
Se volete lasciate un commento ^^
Bye Bye
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