Negazione
“È
lui?”
Togami fece un cenno
affermativo con la testa, il volto che non lasciava trasparire alcuna
emozione. Rivolse un breve inchino al medico legale e uscì
dalla morgue della Future Foundation. Probabilmente non si era nemmeno
accorto di stare accelerando il passo.
“B-Byakuya-sama…”
Touko era
lì fuori ad aspettarlo, come prevedibile.
“È
Aloysius” replicò lui, secco.
“M-mi
dispiace tanto!”
Si limitò
ad annuire e disse solo di dover tornare in ufficio, evitando le
manifestazioni di cordoglio della ragazza.
Aloysius
è morto.
Per quanto cercasse di
concentrarsi sul lavoro non riusciva a trovare interesse negli ultimi
resoconti da Towa City, le news sui Remnants of Despair o sul conteggio
aggiornato delle vittime: la sua mente continuava a tornare ad Aloysius
Pennyworth, e quella era l’unica vittima di cui gli importava.
Aloysius era morto e
lui non riusciva a crederci.
Quando avevano
ritrovato suo padre non aveva versato una lacrima. Non aveva mai avuto
un vero rapporto con lui, e davanti al suo cadavere era riuscito solo a
mostrare il rispetto dovuto a un morto. Con sua madre le cose non
andarono diversamente: di lei non erano ancora riusciti a trovare i
resti, e a quel punto dubitava sarebbe successo. Comunque non era mai
stata una mamma nel senso migliore del termine, e lui non riusciva a
provare pietà o tristezza. Si era limitato a dedicarle un
minuto di silenzio.
Ma
Aloysius… era un’altra storia.
Da che ricordava lo
aveva sempre avuto al suo fianco come maggiordomo personale, anche
prima di diventare l’erede effettivo della Togami Zaibatsu:
in un ambiente dove contavano solo soldi e posizione sociale, Aloysius
era stato la cosa più vicina a un genitore che Byakuya
avesse mai avuto. Aveva fatto i salti mortali per instillare in lui
quel calore umano che il mondo dei ricchi altolocati considerava
inutile, spesso contravvenendo alle direttive di sua madre prima, e di
suo padre poi. In un lampo di lucidità Byakuya non
mancò di notare come gli insegnamenti dell’uomo
non fossero andati persi, anche se erano rimasti celati per anni sotto
strati di freddezza e menefreghismo, frutto del lavaggio del cervello
subito fin dalla più tenera età come
“addestramento” per diventare l’erede dei
Togami.
Adesso che se
n’era andato, a lui erano rimasti solo un mucchio di
sensazioni confuse e sconosciute, e quella notizia che non riusciva ad
accettare.
Il ricordo di tanti
momenti passati assieme lo assalì, e provò
improvvisamente il bisogno di andare via, non sapeva dove, ma non
voleva rimanere nel suo ufficio. Avvertiva uno strano senso
d’oppressione al centro del petto, come se respirare fosse
diventato improvvisamente faticoso.
Aria,
ho bisogno d’aria.
Uscì di
corsa dall’edificio principale della Future Foundation e,
quasi in uno stato di trance, si diresse verso l’unico posto
che a quell’ora era totalmente deserto.
“Byakuya-sama…”
“Come mi hai
trovato?”
Touko sorrise e gli si
avvicinò: “N-non sono molti i posti in cui i
membri della Future Foundation possono distrarsi.”
Togami non rispose,
anche se non poteva che concordare: l’enorme complesso che
costituiva la Foundation era attrezzato di tutto, dagli appartamenti
per i membri ai servizi principali come mini market, lavanderie e
quant’altro, ma mancavano i luoghi di svago.
L’unica eccezione era costituita da un piccolo piano bar,
aperto tutta la notte, in cui non di rado lui, Naegi, Fukawa, Kirigiri,
Asahina e Hagakure si erano andati a rifugiare nella speranza di
ricordarsi come ci si sente ad essere ragazzi della loro
età. A Byakuya ogni tanto piaceva suonare il pianoforte che
si trovava lì, ed era l’unica valvola di sfogo a
cui il suo cervello aveva pensato dopo la notizia avuta solo
un’ora prima.
Continuò a
suonare una melodia imparata tanti anni fa, quando era obbligato a
prendere lezioni di piano. Era un pezzo dolce e malinconico, che ben
sia adattava a quello stato d’animo che non riusciva a
decifrare.
“Byakuya-sama…
s-se c’è qualcosa che posso fare per
aiutarti…”
Lasciò che
Touko gli si avvicinasse, senza mai interrompere l’esibizione.
“D-dico sul
serio…”
Le sue dita pigiarono
più forte sui tasti, trasformando quella melodia triste in
un crescendo rabbioso e cupo. Si sentiva frustrato, e più la
frustrazione aumentava più aggrediva la tastiera con
violenza, ma non sembrava avere l’effetto calmante che aveva
sperato.
“B-Byakuya-sama?”
chiamò ancora lei, azzardandosi a poggiargli una mano sulla
spalla.
Quel gesto ruppe del
tutto gli argini già precari del suo stato d’animo.
Chiuse di scatto il
coperchio e si lasciò sfuggire un urlo di rabbia.
“B-Byakuya-sama!”
Si accasciò
sul piano e affondò le mani tra i capelli, ringhiando per la
rabbia, la frustrazione e il dolore: tutte cose a lui sconosciute, che
nessuno gli aveva spiegato come affrontare perché un Togami
non dovrebbe provare alcun tipo di emozione.
Ma cosa fa allora un
Togami quando scopre una sofferenza così grande? Come la
gestisce, se non può delegarla a nessuno come un
appuntamento da rimandare?
Sentì le
braccia esili di Touko cingerlo da dietro e stringere forte,
fortissimo, con una forza di cui non l’avrebbe mai ritenuta
capace.
“A-Aloysius
è…”
“Lo
so” lo anticipò lei.
“Non
è possibile” disse, “questo non
può essere vero.”
“B-Byakuya…”
“Io…
io non riesco a crederci. Non può essere successo, non
può succedere a me!”
Gli riusciva
impossibile accettarlo.
Quand’era
piccolo aveva creduto che Aloysius sarebbe rimasto con lui per sempre,
una sorta di presenza fissa nel tempo che avrebbe continuato a guidarlo
per tutta la vita. Un pensiero infantile, tenero, che lo aveva
accompagnato nell’infanzia e in qualche modo gli era rimasto
dentro, senza mai svanire.
Ora Byakuya si sentiva
di nuovo un bambino incapace di accettare
l’inevitabilità della morte, incapace di
affrontare la perdita della persona a lui più cara.
Aloysius era morto,
portandosi dietro quell’unico punto fermo che gli era rimasto.
“Purtroppo
non funziona così” gli sussurrò Touko
all’orecchio, “l-la morte non guarda in faccia
nessuno… e non si è mai preparati ad affrontarla.
Né lei, né le conseguenze.”
“Non so cosa
fare” rispose. “Non so come si affronta un dolore
così grande.. non sapevo che si potesse stare
così male…”
Touko lo strinse
più forte a sé: “Perché
nessuno ti ha mai permesso di esternare i tuoi sentimenti”
disse dolcemente, “ma non c’è un modo
giusto o sbagliato per affrontare il lutto…”
Sentì le
guance inumidirsi, e probabilmente gli si erano anche appannati gli
occhiali perché vedeva tutto sfocato.
“Se vuoi
piangere, urlare… fallo. Nessuno ti
giudicherà.”
Si morse un labbro,
tentando di mantenere il poco che rimaneva della sua maschera
impassibile, ma non ci riuscì.
Si aggrappò
alle mani di Touko e pianse, per Aloysius, per se stesso, per tutte le
occasioni sprecate in cui non gli aveva detto di volergli bene.
Pianse
finché non rimase senza voce.
*
Rabbia
Kyouko sì
fermò un attimo davanti alla porta. Lì dentro
c’era suo nonno Fuhito. appena recuperato da un edificio
mezzo diroccato a Towa City.
Era felice di vederlo.
Ma in quanto Kirigiri doveva sempre mantenere un contegno, pertanto si
impose ferreo controllo e nessuna esternazione eccessiva.
Prese un sospiro.
Afferrò il
pomello e lo girò. Per un solo istante uno strano scherzo
glielo fece sembrare caldo.
Fuhito Kirigiri era
seduto a un tavolo, di spalle rispetto all’ingresso.
L’aspetto dismesso, individuabile tramite gli strappi dei
vestiti, tradiva le brutte cose che probabilmente aveva vissuto.
“Chi
è?” chiese girandosi. I suoi occhi si illuminarono
quando vide la nipote: “Kyouko! Stai bene!”. La
faccia smunta e le rughe ancora più pronunciate di quanto se
le ricordasse confermarono l’ipotesi sul suo stato.
Fece un po’
di fatica a camminare, addirittura zoppicava leggermente.
L’abbraccio
fu imbarazzato per un non ben precisato motivo, qualcosa che lei
sentiva esserci fra di loro e che stava rovinando uno dei pochi momenti
lieti dalla fine del Gioco degli Omicidi.
Discussero di quanto
gli era successo nei dettagli. Poi la conversazione si spense da sola.
Di nuovo Kyouko si
accorse che fra di loro aleggiava una strana atmosfera. Come una massa
indefinita sopra le loro teste che stava contribuendo a rendere
quell’incontro molto meno bello di quanto si sarebbe
aspettata.
Non seppe cosa fu a
possederla quando disse “Sai, papà è
morto…”. Era perfettamente a conoscenza del
difficile rapporto che era intercorso fra Fuhito e Jin.
Oh, il rapporto fra
Fuhito e Jin. Era stato un susseguirsi di cose simpatiche, come il
padre che diseredava il figlio perché quest’ultimo
si era rifiutato di proseguire nel solco della tradizione di famiglia.
O il suo continuo frapporsi fra lei e Jin.
Questa cosa non era
poi così certa, ma nella sua mente si affacciò
prepotente il ricordo dell’ufficio del preside alla
Kibougamine: la foto incorniciata e la password del computer
raccontavano tutt’altra storia rispetto a quanto le era stato
sempre detto, cioè che suo padre era un disgraziato che
l’aveva abbandonata disinteressandosi di lei e del suo
avvenire.
Era restia
nell’ammetterlo, ma l’aveva rivalutato dopo essersi
resa conto in prima persona che Jin Kirigiri voleva un bene
dell’anima a sua figlia e che non l’aveva mai
dimenticata. Così come era restia ad ammettere che, una
volta mandato via Naegi, si era permessa un breve pianto sulle sue ossa.
Quindi si
stupì di se stessa e delle parole che le erano uscite per
volontà propria dalla bocca. Sapeva che era argomento
delicato per suo nonno e non aveva idea del perché
l’avesse portato a galla.
“Davvero?
Beh, è la fine che si meritano gli eretici”
sputò lui dandole le spalle.
...cosa?
Per un attimo ebbe la
tentazione di afferrarlo per le spalle e girarlo di nuovo nella sua
direzione. Voleva vedere gli occhi di chi era riuscito a dire una cosa
tanto… tanto…
Represse
l’impulso, non ciò che lo aveva scatenato.
“Come hai
detto, scusa?”.
Il vecchietto fece due
passi e ribadì quanto aveva affermato:
“È la fine che si meritano gli eretici”.
Quando si
voltò di nuovo nella sua direzione uno schiaffo gli
piegò la faccia.
Davanti a lui Kyouko
lo osservava con occhi di brace, solo velati da una patina traslucida:
“Non ti azzardare mai più a parlare di
papà in questo modo! Era mio padre! TUO FIGLIO! È
morto, te ne rendi conto o no? Ho visto di persona cosa è
rimasto di lui!”.
Fece per ribattere ma
la voce di lei lo sovrastò, proseguendo imperterrita in un
discorso mai realmente concluso: “Con quale faccia tosta puoi
pronunciare simili bestialità? Per te il buon nome dei
Kirigiri vale più del sangue del tuo sangue? Se è
davvero così lasciati dire che sei spregevole! Indegno di
esistere!”.
Continuò a
urlare cose via via sempre più incomprensibili. Era il puro
gusto di urlare, di sfogarsi, di buttar fuori quel grumo nero che le
stava attanagliando lo stomaco.
Una piccola parte
della sua anima, del tutto impotente, assisteva attonita allo
spettacolo che stava dando. Si chiedeva da quale anfratto oscuro fosse
uscito un simile barile di rabbia nei confronti dell’uomo che
l’aveva cresciuta e che, pur con tutti i suoi difetti e le
sue restrizioni, non le aveva mai fatto sentire più di tanto
la mancanza della figura paterna.
In quel momento lo
stava odiando. Con tutta se stessa.
Si avviò
verso la porta. Poco prima di uscire, lasciandosi alle spalle un Fuhito
con la mano sulla guancia offesa, si concesse un ultimo strale:
“Visto che ti diverti tanto a giocare con gli stati
familiari… da questo momento non ho più un nonno.
Mi considero sola al mondo, e visto l’unico parente che mi
è rimasto in vita è meglio
così”.
Se ne andò
tracimando ira nella sua scia.
Mai prima
d’allora si era lasciata andare così tanto in modo
così plateale. Qualcosa si era spezzato dentro di lei con un
gran fracasso, non preoccupandosi di eventuali danni.
Fu sollievo quello che
le fece visita quando la figura di Makoto Naegi apparve in fondo al
corridoio: “Kirigiri-san! Sei andata a trovare…
oh. Stai bene? Hai una faccia…”.
Non disse nulla mentre
lo abbracciò, strizzandolo come si può strizzare
una spugna intrisa d’acqua.
Quella volta non si
vergognò di piangere in sua presenza.
*
Contrattazione
Pur nella grande
incertezza che era la sua vita, Touko aveva sempre avuto un unico punto
fermo: detestava i suoi genitori.
Aveva provato a farsi
benvolere dal padre, a cercare di essere una brava bambina per far
contente entrambe le madri, nella speranza di riuscire a mantenere quel
precario e bizzarro equilibrio che era la sua famiglia. Ma
quell’amore in cui lei sperava non era mai arrivato,
lasciando il posto a un odio feroce che si ingigantiva ad ogni nuovo
abuso.
Di conseguenza era
sicura che non avrebbe provato nulla quando, solo un’ora
prima, il medico legale della Foundation l’aveva chiamata per
riconoscere i corpi dei suoi genitori.
Era convinta che
sarebbe rimasta impassibile, fredda.
Invece si era
ritrovata a singhiozzare chiusa in uno dei bagni femminili, augurandosi
che nessuno entrasse proprio in quel momento, neanche Kirigiri o
Asahina. Non si sentiva ancora abbastanza in confidenza con loro da
spiegare quanto stava avvenendo dentro di lei.
Certo, anche loro quel giorno avevano ricevuto notizie orribili (o belle notizie che si
erano trasformate in incubi, nel caso di Kyouko), così come
tanti altri alla Foundation, ma ciò che lei stava provando
era talmente assurdo da non riuscire a spiegarlo nemmeno a se stessa.
Dovrei odiarli
pensò, e
invece sto piangendo la loro morte!
Non c’era un
solo ricordo della sua infanzia che non la facesse soffrire: uno
schiaffo non era mai solo uno schiaffo, una macchia sul vestitino buono
equivaleva ad andare a letto senza cena, un voto leggermente
più basso della sua altissima media scatenava le ire di
entrambe le sue madri (che suo padre non provava mai a mitigare, mai).
Avrebbe dovuto odiarli, e invece era lì rannicchiata contro
la parete del bagno, la testa affondata tra le ginocchia, ricordando
che faceva lo stesso anche da bambina, come quando una delle sue madri
la rinchiuse per tre giorni in un armadio per chissà quale
motivo.
Sei una bambina cattiva
le ripetevano, e lei se ne era convinta pur non conoscendone la
ragione; aveva anche cercato di rimediare, di diventare una brava
bambina, sanno i kami se ci aveva tentato! Ma non era servito a nulla,
finendo con l’accettare quel marchio infame su di lei, quel
non essere abbastanza.
Se
fossi stata una figlia migliore… se ci avessi provato di
più…
Se fosse stata la
figlia perfetta che desideravano forse non l’avrebbero odiata.
Non
l’avrebbero mai maltrattata, o lasciata nella sua stanza alla
Kibougamine anche durante le vacanze. Se fosse stata la figlia perfetta
l’avrebbero amata, lodata, e forse ora starebbe piangendo la
perdita di una famiglia amorevole, e non di tre aguzzini che
probabilmente saranno stati contenti di essersi liberati di lei.
“C’è
qualcuno?”
Una voce da fuori la
riportò alla realtà.
“E-esco
subito!”
“...Fukawa-chan?”
“K-Komaru…?”
Scostò
leggermente la porta del bagno, ritrovandosi a guarda in faccia Komaru
Naegi, che a giudicare dagli occhi rossi doveva aver saputo da poco dei
suoi genitori.
“S-scusa,
vado via subito” disse, uscendo di fretta, ma si
sentì afferrare per un polso.
“F-Fukawa-chan,
aspetta!”
“D-devo
andare.”
“Fukawa-chan,
ti prego…” e a quella preghiera si
voltò verso Komaru. Rimasero a guardarsi in silenzio per
qualche istante, che fu Touko a interrompere: “M-mi dispiace
per i tuoi genitori.”
“E a me
dispiace per i tuoi” disse l’altra,
“Makoto me l’ha detto…”
“N-Non
dispiacerti. Erano persone orribili.”
Komaru
sembrò turbata da quell’affermazione: sapeva
qualcosa sul passato di Touko, abbastanza da poter comprendere i
comportamenti e le reazioni a volte eccessive della ragazza.
E tuttavia…
“M-ma…
sono morti…”
“E la colpa
è mia.”
“C-cosa? Ma
non è vero!”
Si liberò
dalla presa di Komaru e si avviò verso l’uscita:
“S-senti, devo tornare a lavoro adesso”
farfugliò “e p-poi anche tu hai un lutto a cui
pensare, io n-non sono più speciale di
altri.”
“Fukawa-chan,
ti prego!” urlò l’altra, e la
bloccò abbracciandola da dietro. Touko si fermò
davanti alla porta, sconvolta da quel gesto.
“Non
è vero che non sei speciale” singhiozzò
l’altra, “lo sei per me. E p-poi io posso sfogarmi
dopo con Makoto. Tu invece finirai per tenerti tutto dentro
e… e non è giusto!”
Sentì le
lacrime ricominciare a scendere, ma si obbligò a non
voltarsi.
“E
soprattutto non devi darti colpa di niente.”
“Invece
sì” ringhiò, “loro erano
persone orribili. che mi hanno sempre maltrattata ma… s-se
fossi stata una figlia migliore… f-forse non mi avrebbero
odiata…” si accasciò sulle ginocchia,
la testa china in avanti che sfiorava la porta. “S-se fossi
stata una brava bambina come desideravano… forse mi
avrebbero amata” singhiozzò, “s-sono
morti considerandomi spazzatura… i-io li ho
delusi!”
“Adesso
basta! Ascoltami!” sentì Komaru afferrarla per le
spalle e costringerla a voltarsi verso di lei. “Tu non hai
colpe, ok? Non ne hai nessuna. Erano esseri umani e probabilmente non
meritavano una fine così atroce ma”
tirò su col naso, “ti hanno fatto cose orribili.
Ti hanno fatta a pezzi distruggendo la tua autostima, convincendoti di
non valere nulla, ma non è vero. Tu sei una persona
bellissima che merita tutto l’amore del mondo.”
Quelle parole la
colpirono in pieno e la lasciarono a bocca aperta.
“Se non
fosse stato per te io sarei morta a Towa City, e Makoto sarebbe rimasto
solo! Siamo in due a doverti la vita e non credo me ne
basterà una intera per esprimerti la mia gratitudine. Sono
contenta di averti conosciuta e poterti considerare mia
amica.”
Amica. Ancora quella
parola. Così odiata, così desiderata.
“Non devi
chiederti se fossi
stata una brava bambina loro mi avrebbero amata. Semmai
devi dirti se loro
fossero state persone migliori mi avrebbero amata e io non avrei
sofferto.”
Si ritrovò
a singhiozzare tra le braccia di Komaru, che piangeva insieme a lei ma
continuava a sussurrarle parole di conforto.
Quando uscì
dal bagno Komaru era già andata via da un po’. Le
aveva detto di aver bisogno di qualche minuto per riprendersi,
esortandola a tornare da suo fratello, ma con la promessa di non
buttarsi giù per nessuna ragione.
Ci proverò
le aveva detto. Non era facile smettere di considerarsi inutile da un
giorno all’altro, ma avere Komaru vicino bastava a spronarla.
Magari prima o poi sarebbe riuscita a dirglielo a voce alta.
“Touko.”
Si voltò a
destra e vide Togami vicino agli ascensori. Sembrava essersi ripreso
anche lui dalle notizie di quel giorno.
Gli si
avvicinò e si asciugò gli occhi ancora umidi col
dorso della mano: “M-mi dispiace Byakuya-sama, s-sono
impresentabile…”
Non finì la
frase perché lui la cinse con un braccio e la strinse a
sé.
“Loro non
meritano le tue lacrime” disse. Ovviamente conosceva i
retroscena della sua infanzia. Touko soffocò un singulto, e
lui sussurrò ancora: “Tu non sei una persona
cattiva, Touko. Sei una persona buona che ha vissuto cose
orribili.”
Quella volta
Byakuya-sama non si lamentò per la camicia bagnata di
lacrime.
*
Depressione
La camera da letto di
Aoi Asahina divenne improvvisamente gelida come il circolo polare
artico.
“No! No! No!
Non è vero! Stai mentendo Fukawa, stai mentendo!”.
“S-Smettila
di scuotermi, mi fai male! Mi dispiace Asahina, credimi. Mi dispiace
d-davvero tanto… ma non sto mentendo: ho visto tuo
f-fratello Yuta… morire. Se non m-mi credi chiedi alla
sorella di Naegi, c’era anche lei…”.
Le proteste di Aoi
andarono sempre più affievolendosi fino a diventare una
serie di singulti sommessi. I fiacchi tentativi di Touko di consolarla
rimbalzarono contro un enorme muro di gomma.
La Scrittrice non
trovò niente di meglio che lasciarla sola con il suo dolore.
E fu tanto dolore.
Tantissimo dolore.
Prese a lanciare
oggetti contro il muro, a sbattere prima le mani e poi addirittura la
testa contro il suddetto muro, a bestemmiare tutti i kami per
l’orribile scherzo che le avevano tirato.
In seguito,
esattamente com’era venuto, il dolore se ne andò.
Lasciando il posto alla depressione.
Mai del tutto. Anche
nei momenti più grigi sentiva sempre un pallido
indolenzimento nel centro del petto, ma rispetto alla prima reazione
era quasi trascurabile.
Nei successivi giorni
Aoi Asahina rimase tappata nel suo appartamento, principalmente
osservando il soffitto con lo sguardo vacuo e la mente persa nei
ricordi felici. Ogni tanto mangiava come un pulcino dai piatti che di
volta in volta quel sant’uomo di Naegi le portava, ovviamente
preoccupato dal suo stato emotivo. Le prime volte cercò
addirittura di entrare per scambiare due parole e provare a tirarla su
di morale, ma i continui e sempre più ruvidi rifiuti lo
indussero a ripensarci in fretta. Lasciava i piatti vicino
all’uscio dopo averla avvisata e se ne andava.
Si comportava proprio
come un hikikomori, lusso che il loro mondo distrutto non si poteva
permettere.
Feh.
Almeno tengo viva una tradizione che non esiste più. Sono
una filantropa.
A quasi una settimana
di distanza dal ferale incontro con Fukawa, Naegi ebbe la malaugurata
idea di presentarsi alla sua porta. E non per portarle da mangiare.
TOC TOC.
“Asahina-san, posso entrare?”.
Il grugnito che si
lasciò sfuggire doveva bastare come deterrente. Ma non lo
fece.
“Asahina-san!
Per favore, non lasciarmi qui fuori. Devo parlarti”.
Passarono dieci minuti
con lei che, sdraiata sul letto, continuava a galleggiare nel suo mare
di nulla interiore e lui che insisteva nel tentare di farsi aprire.
Poi una ormai
dimenticata dose di forza di volontà la indusse ad alzarsi e
a sbloccare la serratura, permettendogli di entrare.
“Oh,
grazie” disse lui in tono dimesso. Pareva quasi vergognarsi
di averla fatta desistere dal suo immobilismo.
Fece per accomodarsi
ma lei non si mosse di un millimetro. Quello era il massimo che si
sentiva di concedergli.
“...cosa
vuoi?”. Il tono sarebbe stato quello di un cadavere se avesse
saputo parlare.
“Ecco,
vedi… è successa una cosa e ho pensato che fosse
giusto comunicartela…”.
“...chi
è morto?”.
“Eh?
Nessuno, non è morto nessuno”.
“...non ci
credo. I miei genitori e Yuta sono morti. I tuoi genitori sono morti. I
genitori di Fukawa sono morti. Il padre di Kirigiri è morto.
Il maggiordomo di Togami è morto. Sono morti
tutti”.
“No, non
tutti. E comunque non sto scherzando, stavolta non è morto
nessuno! Anzi, è proprio il contrario. Abbiamo trovato
Kenichiro-san. È vivo!”.
Kenichiro…
Kenichiro, il ragazzo
di Sakura. L’unico combattente che l’Ogre non era
mai stata in grado di battere. Colui che, dopo essersi ammalato, le
aveva concesso il titolo di più forte del mondo con la
promessa di restituirglielo una volta guarito.
E invece lei era morta
e lui era ancora vivo. Che crudele ironia.
D’accordo,
tutto molto bello (per modo di dire). Ma perché era venuto a
riferirle questa cosa?
“...non
capisco perché hai voluto dirmelo”.
Makoto prese ad
affannarsi, pareva cercare le parole giuste per esprimersi:
“Ecco Asahina-san, il fatto è che… non
gli abbiamo ancora detto… di
Oogami-san…”.
“...non lo
sa?”.
“È
molto debole e abbiamo preferito evitargli anche questo colpo. Non
subito almeno, perché chiaramente prima o poi dovremo pur
raccontarglielo…”.
“...e io
cosa c’entro?”.
“Sai, per il
fatto che era… la tua migliore amica…
forse… sei la persona più
appropriata…”.
“...non dire
stupidaggini”.
“Come?”.
“...mi hai
guardata in faccia, Naegi? Ti sembro in condizione di andare a dire a
Kenichiro che Sakura, la ragazza che ama, si è
suicidata?”.
“Non adesso!
Puoi prenderti un po’ di tempo e…”.
“...non
voglio”.
“Scusa?”.
“...ho detto
che non voglio. Non glielo dirò”. E con
quest’ultima frase gli chiuse la porta sul grugno,
probabilmente lasciandolo come un baccalà ad osservare la
maniglia.
Naegi doveva essere
impazzito per aver pensato un’idiozia così grande.
Non era mai stato uno da piani geniali magari, ma tanto in basso non
era mai arrivato prima di quel momento. Eppure era ciò che
Aoi pensava onestamente di lui.
Si sdraiò
sul letto, lasciandosi di nuovo avvolgere dall’apatia.
Trascorsero altri
giorni. La situazione non cambiò di una virgola.
Una mattina Asahina si
svegliò meno provata del solito. Non ne capiva il motivo, ma
sentiva di essere un po’ più vicina a
com’era nei suoi momenti più fausti: senza muso
lungo (sebbene non esattamente di buon umore), con una ritrovata e
inopinata voglia di fare qualcosa per rendere la giornata degna di
essere vissuta… e soprattutto un piccolo, striminzito
sorriso.
Si guardò
allo specchio, meravigliata. Era ben lontana dal mortaretto di
vitalità che era sempre stata in passato, ciononostante si
vedeva come un bocciolo pronto a fiorire. O forse non pronto, ma se non
altro sulla buona strada.
Prese un respiro
profondo.
“Avanti Aoi,
Kenichiro ti aspetta. Deve sentire da te cosa è successo a
Sakura”.
*
Accettazione
“Makoto”.
“Uh? Cosa
c’è, Komaru? Non per essere antipatico, ma io
avrei da lavorare”.
“Come
fai?”.
“Come faccio
cosa?”.
“Come fai a
essere così tranquillo con quello che è
successo… a mamma e papà?”.
“Bella
domanda, sorellina. Anche se vorrei chiederti cosa ti fa pensare che io
sia davvero tranquillo”.
“Ah, non so.
Per esempio il fatto che in questo momento non sei prostrato per terra
a piangere tutte le tue lacrime, come ho fatto io quando me
l’avete detto”.
“Cosa ti
suggerisce che non l’abbia fatto?”.
“Perché,
l’hai fatto?”.
“Certo.
Diavolo, erano i nostri genitori. Quale pezzo di pietra non li avrebbe
pianti?”.
“È
che ora sembri così… in pace con
l’idea…”.
“Komaru,
permettimi per una volta di essere il fratello saccente: passare quello
che ho passato io ti dà una prospettiva diversa. La
Kibougamine è stata un’atroce, dolorosa, terribile
maestra di vita. Ti ho spiegato a grandi linee cosa mi è
successo là dentro, no?”.
“Sì,
e non riesco a immaginare cosa puoi aver provato”.
“Se ti
interessa posso scendere un po’ più nei
dettagli”.
“...so che
me ne pentirò ma sì, mi interessa”.
“Allora
preparati a un lungo, tortuoso viaggio nel terrore”.
“Ti prego,
evita di muovere le braccia come qualche animatron brutto del luna
park. Sei ridicolo”.
“Scusa. Era
solo per fare un po’ di scena. Bene, il Gioco degli
Omicidi… è stata un’esperienza
traumatica come nessun’altra può sperare di
essere. Ho visto di tutto in quel posto. A partire dal corpo senza vita
di Maizono-san nella mia doccia”.
“S-Sayaka
Maizono è morta nella tua doccia?”.
“Proprio
così. Mi aveva proposto uno scambio di stanze, facendomi
credere che fosse dovuto allo spavento. E invece voleva uccidere
qualcuno e scaricare la colpa su di me, contando sul luogo del
ritrovamento della sua vittima designata. Vittima designata che, alla
fine, è stato colui che l’ha uccisa”.
“Che
cosa?”.
“Aveva preso
di mira Kuwata-kun, ma qualcosa nel suo piano è andato
storto ed è stato lui a sedersi con noi a colazione la
mattina dopo. Adesso, come pensi che possa aver reagito quando ho
scoperto tutto questo?”.
“...”.
“Non lo sai?
Dai Komaru, mi conosci”.
“Ti sei
messo a urlare come una bertuccia isterica, ti sono venuti gli occhioni
da cerbiatto terrorizzato e sei svenuto?”.
“Pressapoco.
In effetti sì, sono svenuto. Sai, ho avuto l’onore
di scoprire per primo il suo cadavere”.
“Oh santo
cielo…”.
“E poi
c’è stato Oowada-kun con Fujisaki-kun, con la
gentile partecipazione di Togami-san… e non dirgli che te
l’ho detto, altrimenti quello lì me la fa scontare
da qui all’eternità. E Celes-san che si
è portata dietro i poveri Ishimaru-kun e Yamada-kun. E
Oogami-san… kami, Oogami-san. Che fine orribile le
è toccata”.
“Perché?
Che le è successo di così peggiore rispetto agli
altri?”.
“Oogami-san
si è suicidata per far sì che noi smettessimo di
litigare a causa sua”.
“S-Stai…
stai mentendo...”.
“Non sai
quanto vorrei che fosse così. Ma è tutta la
verità, nient’altro che la verità.
Senza contare il momento in cui un nastro trasportatore mi stava
conducendo, lentamente ma inesorabilmente, verso un simpatico
compattatore per i rifiuti”.
“...”.
“Sei rimasta
senza parole, eh? Beh, è comprensibile. Sono qui per pura
fortuna e l’intervento di una testarda ed altruista
intelligenza artificiale”.
“Sei stato
salvato… da un’intelligenza
artificiale?”.
“Già.
Da quella e da un angelo sui cui capelli lilla era caduto un barattolo
di ramen”.
“Mi stai
facendo perdere…”.
“Scusa,
è un gran casino e faccio confusione. Quel che sto cercando
di dirti è che, in quelle tre settimane scarse, credo di
aver afferrato appieno il vero significato del verbo morire. Ho
assistito a tanti tipi diversi di morte: fisica, spirituale, della
speranza e della lucidità mentale. Con questo non intendo
sminuire il fato di mamma e papà, è stata una
tragedia. Mi mancano Komaru, mi mancano da matti.
Però… però…”.
“Cosa stai
cercando di farmi capire?”.
“Dannazione,
suonerò insensibile… ma mi sono abituato mio
malgrado alla perdita. Al senso di vuoto. Al non sentire più
le loro voci. Mi è capitato con un sacco di altre persone, e
se sei forte abbastanza ne esci. Ti accasci sulle ginocchia, sfoghi
l’inevitabile e giusto dolore per chi non
c’è più… e ti rialzi. Loro
non vorrebbero nulla di diverso per te”.
“Ci credi se
ti dico che in questo momento sembri un venerabile maestro
buddhista?”.
“Mi stai
prendendo in giro?”.
“No Makoto,
non ti sto prendendo in giro. Le tue parole e come le hai
dette… sono colme di saggezza. Credimi, ti sto
invidiando”.
“È
una forma di invidia che, per quanto mi lusinghi, avrei preferito non
conoscere. E comunque l’avere dei momenti di sconforto non
è cosa di cui vergognarsi. In fondo siamo umani e rimaniamo,
magari scioccamente, legati alle nostre emozioni e ai nostri affetti
più cari. Se vengono a mancare trovo naturale esserne
spiazzati e soffrirne”.
“Ecco, la
tua aura di santità se n’è appena
fuggita a gambe levate”.
“Sei
veramente una scema. Vieni qui ora, abbracciami”.
GLOMP. CRASH.
“Ehi! Va
bene che te l’ho chiesto io ma non c’era bisogno di
farmi cadere dalla sedia!”.
“Il mio
fratellone monaco saggio si merita questo ed altro. Sei tanto
importante per me e spero che il momento in cui ci separeremo
arriverà solo fra molti, moltissimi anni”.
“Ti voglio
bene anch’io, piccola scapestrata. Ehi, stai
piangendo...”.
“Mi
dispiace, io sono solo la sorella del grande saggio. Non ho la sua
maturità”.
“Maturità
*sniff* ‘stocavolo…”.
“Makoto…”.
“Te
l’ho detto, no? I momenti di sconforto sono ammessi. Quando
poi le sorelle pestifere ti provocano…”.
“Ma io non
ti ho provocato!”.
“Sì
che l’hai fatto, disgraziata! Piuttosto, avevi ragione a
temere di pentirtene?”.
“Per niente.
È stato un discorso molto interessante, anche se
agghiacciante in certi particolari”.
“Pensa me
che l’ho vissuta sulla mia pelle, questa cosa”.
“E
nonostante tutto resti ancora il caro, vecchio, solare Makoto Naegi.
Sei straordinario fratello, davvero”.
“Non lo
credo, ma se lo sono io lo puoi essere anche tu. Condividiamo gli
stessi geni”.
“E piantala,
cretino!”.
“Perché
dovrei, Komaru? Lo penso sul serio”.
“...grazie.
Finché sarai al mio fianco l’assenza di mamma e
papà peserà meno su di me”.
*
Bonus:
Cura
Quella era stata
indubbiamente la giornata più pesante da quando erano
riusciti a scappare dalla Kibougamine e Hagakure si sentiva mortalmente
in colpa perché, tutto sommato, in quel momento riusciva ad
essere sereno.
Non avevano fatto
altro che ricevere brutte notizie, identificare corpi e affrontare
lutti, e i suoi amici ne erano usciti devastati, chi più chi
meno; lui, al contrario, non aveva versato una lacrima, non per se
stesso almeno: sua madre Hiroko era viva e vegeta e aveva ringraziato
ogni divinità esistente al mondo per quel dono.
Ma non riusciva a non
sentirsi un verme per essere così sfacciatamente felice
mentre i suoi amici piangevano i loro cari: aveva visto Naegi farsi
forza e sostenere la sorellina alla notizia dei loro genitori trovati
morti; aveva sentito Fukawa piangere per una famiglia che non
l’aveva meritata; Kirigiri aveva perso il nonno (vivo, ma
così fermo sulle sue posizioni da spingerla a lasciare quel
che rimaneva della famiglia); aveva saputo della crisi di Togami alla
notizia della morte del suo maggiordomo; aveva assistito impotente al
crollo di Asahina sotto al peso della tragica fine del fratellino, e
aveva idea che quella sarebbe stata solo la punta dell’iceberg. Non
bisognava essere Super Veggenti per predirlo.
Si lasciò
andare a un sospiro lungo e stanco, chiedendosi in che razza di mondo
si erano ritrovati a vivere, dove ragazzi così giovani erano
stati costretti a massacrarsi tra di loro, seppellire chi non ce
l’aveva fatta e riconoscere le spoglie dei propri cari. Un
pensiero fugace lo rivolse anche a Junko Enoshima, artefice di tutta
quella disperazione.
Ah
ah, disperazione. Non faccio ridere neanche me stesso.
“Tutto ok,
Yasu-chi?”
Si voltò
verso sua madre, appena entrata nell’area ristoro dove lui e
il resto del gruppo avevano deciso di passare il resto della serata.
“Oh, niente
di che” rispose, e la ringraziò per la tazza di
caffè che la donna gli aveva portato. “Mi sento
solo molto in colpa.”
“In colpa
per cosa, esattamente?”
“Beh”
tentennò lui, “a me oggi è andata bene,
tutto sommato. Insomma, tu sei viva” sorrise,
“grazie anche a Fukawa-chi. Ma loro…”
indicò il resto del gruppo, scompostamente addormentato sui
divanetti della sala ristoro. Sorrise quando Togami si
lasciò sfuggire un unico, singolo ronfo, incrinando la sua
immagine di uomo tutto d’un pezzo anche nel sonno.
Hiroko
aspirò una boccata di fumo dalla sua sigaretta:
“Non hai nulla da rimproverarti, Yasu-chi. Non hai colpe per
le tragedie che li hanno colpiti.”
Lui mise un broncio
decisamente infantile: “Lo so, ma mi dispiace non poter fare
nulla di concreto per loro. A parte rifornirli di fazzoletti e di una
spalla su cui piangere, intendo.”
“E ti sembra
poco?” sorrise lei. “Non dare per scontate le
piccole cose, sono quelle che la gente tende ad apprezzare di
più. E in momenti come questi avere qualcuno che si prende
cura di te è sempre bello” rispose, scompigliando
i rasta del figlio. Si congedò borbottando qualcosa sul
fatto che stava per finire le sigarette, e che avrebbe fatto due passi
fino al distributore giù nell’atrio.
Hagakure rimase solo a
guardare i suoi amici dormire. Ripensò alle parole di sua
madre, e si trovò a concordare: lui non aveva colpe,
né poteva fare qualcosa di più di ciò
che stava già facendo. Se avesse avuto poteri da negromante
avrebbe riportato in vita i loro cari, e magari anche il resto della
loro classe. Sarebbe stato bello averli alla Foundation. Ma lui non era
un negromante, e non è che fosse un grande fan degli zombie.
Si disse che prendersi
cura di loro offrendo sostegno morale era il meglio che poteva fare.
Decise di mettersi subito all’opera, andando a recuperare un
paio di coperte dal ripostiglio (fare tardi a lavoro non era solo un
modo di dire, alla Future Foundation): ne usò una per
coprire quel domino umano formato da Naegi, che abbracciava la
sorellina e Kirigiri, l’altra per coprire Togami e Fukawa
(stranamente vicini, gongolò tra sé e
sé). “Ah, Togami-chi, cominci a diventare
pericoloso con l’alcol, sai?” ridacchiò
bonariamente, afferrando la bottiglia di birra vuota dalla sua mano. In effetti è un mezzo
miracolo se non siamo già tutti degli alcolizzati
pensò. Rivolse un pensiero ad Asahina, chiusa nel suo
appartamento, e si intristì: per quella sera non poteva fare
nulla per lei, ma si ripromise di pensarci. Magari le avrebbe comprato
le migliori ciambelle che il market aveva da offrire, o le avrebbe
cucinate lui stesso (sperando di non far saltare per aria il suo
appartamento).
Si accomodò
su una poltroncina libera e si sistemò meglio che poteva,
usando la sua giacca come coperta improvvisata.
Era stata una giornata
stancante per tutti, persino per lui.
Era stanco di vedere
soffrire i suoi amici. |