Part I
Chapter VIII
Non ho mai
“Mi sentii in una specie di oblio. Sono sempre
stato un grosso bevitore. Quando inizio, non mi fermo più. Mi piace bere perché
è come stare in una specie di mondo di cartoni animati, dove tutto va bene. La
vista è annebbiata e tutto e nulla hanno senso. È pazzesco… è come se fosse un
tipo diverso di realtà e consapevolezza.”
Krist
Novoselic
Per qualche attimo rimase a guardare
Malcolm Wilford senza parole, sperando di non aver sentito bene.
«Cosa?».
«È… è Toby. Toby Erin Rogers. È lui il bambino con cui mi comportavo da bullo».
Anastasia non parlò. Restò immobile a guardare gli alberi sentinella, ad
ascoltare il sangue che le ronzava e martellava nelle orecchie. Dentro di lei
si stava accumulando una gran voglia di urlare, ma non la sfogò. La ricacciò
indietro. Come era giusto che fosse.
Toby?
Malcolm e Toby?
«Ecco perché volevo che venissi», parlava in fretta, adesso, come se sapesse di
non avere molto tempo, dato che lei sarebbe potuta benissimo schizzare fuori
dall’auto da un momento all’altro. O ucciderlo seduta stante, magari. «Non
volevo… Ho pensato che non fosse giusto dirtelo prima, sapevo che sarebbe stata
troppo dura per te date le circostanze. Ma dato che ormai è passato più di un
anno, e credo che tu ti stia riprendendo, ho pensato di dirtelo prima che tu lo
potessi venirlo a sapere da qualcun altro».
«Ma…allora sei stato tu ad inventare quel soprannome, Ticci Toby!» la frase le uscì di bocca con la violenza di
un’accusa. Per un secondo Malcolm la guardò senza capire, poi fece mente locale
e la sua espressione cambiò, nello stesso momento in cui la rossa comprese il
perché Wilford avesse detto tutte quelle cattiverie su Toby.
«Quindi è per questo che gli hai dato dell’assassino», disse con voce atona. «Perché
ti sentivi in colpa, perché in un certo senso ti sentivi coinvolto in tutto
questo. È stato un metodo autoconvincimento, diciamo. Giusto?».
Malcolm annuì, contrito.
«Non penso niente di quello che ho detto. Cercavo solo di difendermi dalla mia
testa, devi credermi», disse in tono di supplica. Tese la mano calda verso
quella di lei, intirizzita. «Didì mi ha praticamente obbligato a parlartene il
prima possibile e…».
«Aspetta un minuto», Anastasia sottrasse bruscamente la mano. «Hai parlato di
questo con Diane? Lei lo sapeva?».
Malcolm annuì e si portò le mani tra i capelli neri, mentre la ragazza si
sentiva tradita più che mai.
«Hamilton… Io sono così…», si interruppe e trasse un profondo respiro, e la
rossa ebbe la sensazione che stesse cercando di raccogliere i pensieri, in modo
da poter decidere che cosa dire. Quando parlò di nuovo, lo fece con una
sfumatura di sfida, e Anastasia rivide un barlume del Malcolm Wilford che
ricordava: quello che partiva all’attacco, che avrebbe preferito combattere fino
alla morte, piuttosto che subire un’accusa. «Ascolta, non ho intenzione di
scusarmi, perché so di non aver fatto niente di male. Nessuno di noi ha fatto
niente di male. Ma ti prego, mi daresti il tuo perdono?».
«Se non hai fatto niente di male», ribatté Anastasia incrociando le braccia e
con il suo solito tono altezzoso. «allora perché ne hai bisogno?».
«Perché tu lo avevi reso felice. Cazzo, Hamilton, quel poveretto era innamorato
perso di te!».
Era.
Registrarono entrambi, nello stesso istante, l’uso del passato, e la ragazza
vide la sua reazione riflessa sul volto di Malcolm.
Anastasia si morsicò il labbro, così forte da farsi male, schiacciando sotto i
denti la pelle morbida.
Io ti perdono. Dillo. Dillo!
«Io…».
Si udì un rumore nella casa: la porta si aprì, ed ecco comparire Ashley, in
piedi nel riquadro di luce, con la mano sollevata a ripararsi gli occhi. Tutta
protesa in avanti con la sua ciccia sembrava sul punto di ruzzolare a terra,
nello sforzo di scrutare nelle tenebre, eppure Anastasia percepì in lei una
sorta di eccitazione soppressa, come quella di una bambina prima di una festa
di compleanno che da un momento all’altro sta per sconfinare nell’isteria.
«Ehiiiii?», gridò, a voce sorprendentemente alta nella quiete notturna. «Mal?
Sei tu?».
Malcolm buttò fuori un respiro tremolante e aprì lo sportello.
«Ash-Ash!», gli tremava la voce, ma
in modo quasi impercettibile. La rossa pensò, e non per la prima volta, che
attore straordinario fosse. E per un’esperta in bugie e manipolazione come lei,
era un gran bel complimento.
«Mal-Bear!», strillò Ashley, per poi
catapultarsi giù dai gradini. «Oh mio dio, sei proprio tu! Ho sentito un rumore e ho pensato… ma poi non è comparso
nessuno», venne incontro ai due incespicando sullo spazio davanti alla casa, i
suoi passi silenziosi nelle pantofole a forma di coniglietto. Anastasia alla
vista di queste fece del suo meglio per trattenersi dal mimare un conato di
vomito. «Cosa ci facevi lì fuori al buio, sciocchino?».
«Stavo parlando con Hamilton», il ragazzo la indicò con un gesto. «Ci siamo
scontrati mentre risaliva il vialetto».
«Non in senso letterale, spero! Oops!», si udì uno scricchiolio, nel momento in
cui Ashley inciampò in qualcosa nel buio, per poi tirarsi su in ginocchio in
fretta e furia. «Va tutto bene! È tutto a posto!», disse balzando goffamente in
piedi mentre si dava una spolverata.
«Ehi, tranquilla!», Malcolm scoppiò a ridere e abbracciò l’amica. Poi le
sussurrò all’orecchio qualcosa che la rossa non sentì, ed Ashley annuì.
Anastasia si limitò ad aprire lo sportello e scese rigidamente dall’auto. Era
stato un errore non percorrere a piedi quegli ultimi metri fino a casa:
passando bruscamente dalla corsa alla posizione seduta, i muscoli si erano
bloccati. E adesso faticava a raddrizzarsi.
«Tutto bene, Hamilton?», domandò Malcolm, che si era girato sentendola
scendere. «Mi sembri un po’ zoppicante».
«Tutto okay», rispose con un tono leggero e guardò il ragazzo dritto negli
occhi, con una punta di sfida. Come se volesse sfidarlo a chi sapesse fingere
meglio e più a lungo. Toby. Toby.
«Vuoi una mano con i bagagli?», un sorriso finto le si dipinse sul volto.
«Grazie, ma non ne ho molti», aprì di scatto il bagagliaio e ne estrasse una
borsa con tracolla. «Forza Ash, adesso fammi vedere la mia stanza!».
Quando Anastasia salì a fatica l’ultimo gradino che portava alla sua camera,
tenendo per i lacci le scarpe da ginnastica infangate, Diane ancora non si
vedeva da nessuna parte. Dopo essersi sfilata i leggins e la felpa sudata,
strisciò sotto il piumone in biancheria intima. E se ne restò a guardare la
pozza di luce disegnata dalla lampada sul comodino.
Era stato uno sbaglio accettare quell’invito. Che cosa credeva?
Aveva passato così tanto tempo a cercare di dimenticare Toby, nel tentativo di
costruire intorno a sé un bozzolo di sicurezza e di indipendenza. E sembrava
finalmente esserci riuscita, ad ottenere di nuovo una vita senza troppi
pensieri. Anzi, era proprio una vita fantastica.
Era bella, aveva un lavoro perfetto per un’egocentrica come lei, viveva in una
villa con un padre milionario, andava in discoteca quasi tutte le sere e spesso
scopava con degli sconosciuti.
Non dipendeva da nessuno, da nessun punto di vista, emotivo, finanziario
(certo, aveva la paghetta del padre, ma avrebbe potuto sopravvivere anche solo
con i soldi che guadagnava) o di altro tipo. Proprio bene, cazzo, e tante grazie.
Ed ecco che adesso le succedeva questa cosa qui.
Il peggio era che non poteva dare la colpa a Malcolm Wilford. Purtroppo aveva
ragione: lui non aveva fatto niente di male, non c’entrava nulla con tutta
quella situazione. Non le doveva niente. Toby Erin Rogers era morto più di un anno fa, dopo aver
assassinato suo padre.
No. Anastasia poteva dare la colpa solo a sé stessa. Per non aver voltato
pagina. Per non essere stata in grado di
farlo. Non aveva mai amato nessuno prima di conoscerlo, era sempre stata
circondata da feste e persone superficiali – come lei, d’altronde – fino a
quando non aveva incontrato lui e tutte le sue perfette imperfezioni.
Detestava Toby per il potere che aveva ancora su di lei. Detestava il fatto
che, ogni volta che conosceva qualcuno, finiva per metterlo a confronto con
lui, nella sua testa. L’ultima volta che aveva provato ad avere una relazione
seria – sette mesi prima – si era svegliata di soprassalto nel cuore della
notte, con il ragazzo che le teneva una mano sul petto.
«Stavi sognando», aveva detto. «Chi è Toby?», e, alla vista della faccia
stravolta della rossa, si era rivestito in fretta e furia ed era uscito per
sempre dalla sua vita. Ed Anastasia non si era nemmeno presa la briga di fargli
un’ultima telefonata.
Odiava Toby e odiava sé stessa.
E poi sì, era perfettamente consapevole che ciò la rendeva la più grande
sfigata del mondo: la quindicenne che conosce un ragazzo e, nonostante lui sia
morto, lei continua ad esserne innamorata a tal punto da non riuscire più a far
entrare nessun altro nella sua vita.
Nessuno lo sapeva meglio di lei. Se le fosse capitato di mettersi a parlare con
una nella sua stessa situazione, in un bar, l’avrebbe probabilmente disprezzata
o derisa.
Sentiva gli altri che ridevano e chiacchieravano, al piano di sotto, e l’odore
di pizza fluttuò su dalle scale.
Adesso sarebbe scesa da loro e avrebbe chiacchierato e riso anche lei.
Invece si rannicchiò su sé stessa, le ginocchia contro il petto e gli occhi ben
chiusi, e cacciò un urlo silenzioso dentro la sua testa.
Poi di raddrizzò e, malgrado le proteste dei suoi muscoli irrigiditi, mise da
parte la coperta e raccolse un telo da bagno dalla cima del mucchio che Ashley
aveva accuratamene impilato ai piedi di ogni letto.
Il bagno era sul pianerottolo. Chiuse la porta e lasciò cadere a terra
l’asciugamano. Anche lì c’era un’altra di quelle grandi finestre senza tende
che si affacciavano sul bosco. Era angolata in modo tale che, in pratica,
nessuno avrebbe potuto guardare dentro a meno di non starsene appollaiato su un
pino alto quindici metri, ma nel togliersi la biancheria intima dovette
reprimere l’impulso di coprirsi il seno con le mani per nascondere la propria
nudità agli occhi invisibili del buio.
Per qualche istante prese in considerazione l’idea di rivestirsi subito con
indumenti puliti ma, data la stanchezza e gli schizzi di fango che l’avevano
imbrattata da capo a piedi, sapeva che si sarebbe sentita meglio se si fosse
fatta una doccia calda. Così si infilò nel box e girò la leva, stiracchiandosi
piena di gratitudine non appena l’enorme soffione della doccia, dopo aver
sputacchiato un paio di volte, la inondò con un potentissimo getto di acqua
bollente.
Da quella posizione poteva guardare fuori dalla finestra, benché fosse troppo
buio per vedere granché. La forte illuminazione del bagno trasformava la
vetrata in una sorta di specchio e, a parte una pallida luna spettrale, tutto
ciò che riusciva a vedere era il suo corpo riflesso sul vetro che si andava
velocemente appannando via via che si insaponava. Che razza di persona doveva
essere, comunque, la zia di Ashley? Quella era una casa per voyeur. Anzi, no:
ai voyeur piaceva guardare. Qual era il contrario? Esibizionisti. Gente a cui
piaceva essere vista.
Forse era diverso di giorno, quando la luce entrava abbondante. Ma in quel
momento, al buio, era proprio l’opposto: si aveva la sensazione di trovarsi in
una teca di vetro. O in una gabbia allo zoo. In un recinto per tigri, senza
nemmeno un angolo dove nascondersi. Anastasia pensò agli animali in gabbia che
camminavano nervosi avanti e indietro, giorno dopo giorno, settimana dopo
settimana, mentre la pazzia si impadroniva lentamente di loro.
Quando ebbe finito sgusciò cauta fuori dal box della doccia e si guardò allo
specchio, dopo averlo ripulito dalla condensa.
Il viso che la fissò di rimando la impressionò. Sembrava appartenere ad una
persona pronta al combattimento: il suo volto era pallido sotto la forte luce,
gli occhi verdi e accusatori, circondata da ombre scure come se fosse stata
malmenata.
Sospirò e tirò fuori il beauty-case. Siccome aveva perso tutta la voglia di
truccarsi in quel momento, si limitò a mettere l’essenziale: mascara e rimmel.
Non riusciva a trovare il fard, cosicché si ritrovò costretta a strofinarsi un
po’ di rossetto sugli zigomi per attenuarne il pallore, e alla fine si infilò
un paio di jeans aderenti ed una canotta grigia, che metteva in risalto il seno
prosperoso.
Da qualche punto al pieno di sotto proveniva della musica. Era la sigla di una
serie televisiva che faceva quando la rossa era solo una marmocchia: Oh,
Happy Days. Oh, giorni felici. Che qualcuno volesse fare dell’ironia?
«Ana!», udì la voce di Ashley che la chiamava sopra le note della canzone che
esortavano a ricominciare. «Ti va di venire giù a mangiare qualcosa? Perché
dopo ce la spassiamo con l’alcol, e te lo sconsiglio vivamente a stomaco
vuoto!».
«Arrivo!», gridò di rimando. Con un sospiro arrotolò la biancheria sporca nel
telo da bagno e, dopo aver richiuso il beauty, aprì la porta, pronta ad
affrontare il mondo.
«Non ho mai…», Malcolm era
stravaccato sul sofà con i piedi sulle ginocchia di Felix mentre i riflessi del
fuoco nel caminetto gli danzavano sul volto. Teneva un bicchierino in mano ed
una fettina di lime nell’altra, soppesandoli come se fossero delle alternative.
«Non ho mai… fatto parte del mile high club».
Calò il silenzio sulla cerchia, finché Ashley non esplose in una gran risata.
Quindi, molto lentamente e con un’espressione sarcastica, Felix sollevò il
bicchierino.
«Cin cin, cara!», bevve in un colpo solo e poi succhiò il lime con una smorfia.
«Oh, tu e la tua ex! Come si chiamava… Elisewin, giusto?», parlò
Malcolm. Nonostante la nota di derisione, aveva un tono piuttosto bonario. «Scommetto
che è successo in prima classe».
«In realtà era in business, però l’hai azzeccata», si riempì di nuovo il
bicchiere e si guardò intorno. «Ma che succede? Sto bevendo da solo?».
«Cosa?», Tyler alzò lo sguardo dal suo telefono. «Scusate, siccome avevo una
tacca di ricezione, ho pensato che fosse il caso di provare a chiamare Joseph,
ma adesso è sparita di nuovo. Stavate giocando a “obbligo o verità”?».
«No, abbiamo cambiato gioco», rispose Felix con voce impastata. Doveva aver già
pasticciato parecchio con varie sostanze e adesso cominciava a risentirne.
«Stiamo giocando a “Non ho mai!”. E ho detto che invece io ho fatto
parte del club di chi fa sesso in aereo».
«Oh, scusate», Tyler trangugiò distrattamente il bicchierino e si pulì le
labbra. «Ecco qua. Senti, Ash, non è che posso usare di nuovo il telefono
fisso?».
«No, no e no!», lo rimproverò Malcolm agitando il dito. «Guarda che non te la
svigni così facilmente».
«Certo che no!», si intromise Ashley, indignata. «Adesso dicci come e quando,
bello!».
«Durante la luna di miele con Joseph. Era un volo notturno, gli ho fatto un
lavoretto di bocca nel gabinetto. Quello conta? E comunque ho appena bevuto».
«Beh, in tal caso è lui che è entrato a far parte del club, non tu», gli
fece notare Felix con una strizzata d’occhio licenziosa e leggermente più
rallentata del normale. «Ma siccome hai bevuto, facciamo che va bene così.
Passiamo oltre! Okay, tocca a me. Non ho mai… cazzo, cos’è che non ho mai
fatto? Oh, d’accordo: non ho mai praticato sport acquatici».
Ci fu una gran risata, nessuno bevve e Felix cacciò un lamento.
«No, ma sul serio?».
«Sport acquatici?», domandò Ashley, incerta. Con il bicchiere sospeso a
mezz’aria, si guardò intorno, cercando di capire cosa ci fosse di tanto buffo.
«Intendete dire le immersioni subacquee e cose del genere? Io sono andata in
barca a vela, secondo voi conta?».
«No, tesoro», rispose Malcolm, per poi chinarsi a sussurrare qualcosa
all’orecchio di Ashley, la cui espressione passò da scioccata a divertita, con
una punta di disgusto.
«Non se ne parla proprio! È rivoltante!».
«Eddai», Felix cercò di incoraggiare i presenti, quasi supplichevole.
«Confessate tutto allo zio Felix, tanto tutto quello che ci diremo qui non
uscirà mai fuori, non c’è niente di cui vergognarsi».
Calò di nuovo il silenzio, interrotto dalla risata di Malcolm.
«Mi dispiace, fratello, ma mi sa che ti tocca bere!».
Felix si buttò giù il bicchierino, lo riempì di nuovo e poi si sdraiò sul sofà,
la mano sugli occhi.
«Mannaggia, mi sta arrivando il conto dei miei anni trascorsi da ragazzaccio.
Ho la testa che mi gira».
«Tocca a te, Hamilton», disse Malcolm dal divano, rosso in volto e con i
capelli neri spettinati. «Sputa il rospo».
Lo stomaco della sedicenne fece una capriola.
Era arrivato il momento tanto temuto. Nell’ultimo giro di bevute aveva
brancolato a fatica in una nebbia di tequila, champagne e rum, sforzandosi di
trovare qualcosa da dire, ma ogni ricordo sembrava riportarla indietro a Toby.
Ripensò a tutte le cose che non aveva mai fatto né detto. Chiuse gli occhi,
mentre la stanza sbandava e ondeggiava intorno a lei.
Un conto era fare questo gioco insieme a degli amici che più o meno sapevano
già tutto quello che c’era da dire, ben altro barcamenarsi tra questo
imbarazzante mix di estranei e persone che non voleva che sapessero, ad
eccezione di Diane. Non ho mai… cosa diavolo poteva dire?
Non ho mai capito perché ci siamo dovuti dire addio.
Non l’ho mai salvato.
Non l’ho mai dimenticato.
«Hamilton…», cantilenò Malcolm. «Su, dài, non vorrai mica che io ti metta
in imbarazzo nel prossimo giro».
La ragazza si sentiva in bocca uno schifoso retrogusto di tequila e cocaina.
Non poteva permettersi di bere di nuovo, altrimenti avrebbe vomitato.
Non ho mai conosciuto davvero Toby.
Perché ti ho lasciato andare via?
Amore. Mio unico vero amore.
«Non ho mai avuto un tatuaggio», buttò fuori tutto d’un fiato.
Sapeva di essere andata sul sicuro, con quell’affermazione, Diane ne aveva ben
due.
Tuttavia, il primo a parlare però fu Felix.
«Merda…», si lamentò lui, ingollando la tequila. Ashley ridacchiò.
«Macché! Non crederai mica di cavartela così! Adesso faccelo vedere!».
Il fotografo sospirò e si sbottonò la camicia, rivelando un buon tratto di
pettorali tonici e ancora un po’ abbronzati. Dopo essersi fatto scivolare una
manica giù per la spalla, si girò a mostrarcelo. Si trattava di una scritta in
corsivo che diceva Gabbia di matti.
«Ecco», si riabbottonò la camicia. «Adesso fatevi avanti, voialtri, non posso
certo essere l’unico».
Diane non disse nulla, ma si limitò ad alzarsi la manica per mostrare il I’m
on top of the world che possedeva sul braccio, per poi sollevare i jeans
sulla caviglia, mostrando un uccello di qualche tipo tatuato lungo il tendine.
«Che cos’è, Didì?», Ashley si sporse in avanti per guardarlo meglio. «Un
merlo?».
«Un falco», rispose la bruna. Senza aggiungere altro, si tirò giù i jeans e
vuotò il bicchiere. «E voi che dite?».
Ashley scosse la testa.
«Troppo fifona!».
Malcolm invece, con un largo sorriso si sollevò a fatica dal divano. Si girò di
schiena e si tirò su la camicia nera. Dal retro dei jeans spuntava come un
lungo tubo ondeggiante che andava sempre più su.
«Una coda di un diavolo», sbuffò Anastasia, per niente sorpresa.
«Una follia di gioventù», spiegò Malcolm con un tocco di malinconia ironica.
«Durante il mio viaggio ad Amsterdam in stato di ebbrezza quando avevo quindici
anni».
«Quella coda sarà deliziosa, quando diventerai vecchio», commentò nuovamente la
modella. «Se non altro servirà da freccia di segnalazione per il giovanotto che
dovrà pulirti il culo all’ospizio».
«Così avrà qualcosa da guardare, poveretto», Malcolm si tirò giù la camicia
ridendo e si buttò di nuovo sul divano. Poi si scolò il bicchierino. «Tyler?»,
gridò.
Ma l’uomo di colore aveva trascinato il telefono in corridoio, la sua
ubicazione tradita solo dal filo a terra e dal suono basso e urgente della sua
voce.
«…e ha bevuto dal biberon?», lo sentirono chiedere in corridoio. «Quanti
decilitri?».
«’Fanculo», fu il commento deciso di Diane. «Uomo in mare. D’accordo. Io non ho
mai… non ho mai… non ho mai…», spostò lo sguardo dagli altri all’amica dai
capelli rossi, e ad un tratto quest’ultima vide dipingersi sul viso dell’altra
un’espressione veramente maligna. Da ubriaca, Diane non era la persona più
simpatica da avere affianco. «Non ho mai scopato con un andicappato!».
Una risata incerta fece il giro della stanza. Malcolm si strinse nelle spalle.
Poi i suoi occhi grigi, e quelli color caffè di Diane, si girarono entrambi
verso la modella. Regnava un silenzio assoluto, interrotto solo da Florence
and the Machine che raccontava di come il suo fidanzato fabbricasse casse
da morto.
«Vaffanculo, Diane», ad Anastasia tremava la mano, mentre mandava giù l’ultimo
goccio. Poi si alzò e si diresse in corridoio con le guance in fiamme,
sentendosi tutto ad un tratto molto ma molto ubriaca.
«Puoi sempre dargli una banana spappolata, a colazione», stava dicendo Tyler.
«Ma se gli dai dell’uva ricordati di tagliare i chicchi a metà e di eliminare i
semini».
Gli passò accanto nella sua corsa verso le scale, seguita dalle domande
disorientate di Ashley: «Cosa c’è? Cos’è successo?».
Arrivata sul pianerottolo, si precipitò in bagno e chiuse la porta dietro di
lei. Poi si inginocchiò davanti al water e vomitò e vomitò finché non ebbe più
nulla nello stomaco.
Oh, quanto era ubriaca. Abbastanza ubriaca da scendere di sotto e tirare un
pugno in faccia a quella stronza di Diane, lei e quella sua mania di rimestare
nel torbido. Okay, non conosceva tutta la storia di Toby e di quello che gli
era capitato, però ne sapeva abbastanza da rendersi conto che stava mettendo la
sua migliore amica in una posizione orribile.
Per un minuto li odiò tutti quanti: Diane per aver osato chiamarlo andicappato,
Ashley e Felix per averla guardata con aria ebete mentre beveva. Odiava Malcolm
per averla invitata alla sua stupida festa. E soprattutto odiava Toby per
essere morto, innescando tutta quella concatenazione di eventi. Odiava perfino
il povero, ignaro ed innocente Tyler, solo per il fatto che si trovasse lì.
Ebbe un altro conato, ma nel suo stomaco non era rimasto più nulla, a parte un
orrendo sapore di tequila, che una volta in piedi sputò nel water. Poi tirò lo
scarico e si guardò allo specchio per risciacquarsi la bocca e la faccia. Era
pallidissima, gli zigomi chiazzati di rosso e imbrattati di rimmel.
«Hamilton?», bussarono alla porta. Riconobbe subito la voce di Malcolm e si
portò le mani al viso.
«Un minuto!», la sua risposta fu brusca, come il ringhio di un animale che si doveva
difendere.
«Hamilton, mi dispiace… Didì non avrebbe dovuto…».
Oh, vaffanculo, pensò. Lasciatemi in pace.
Si udì un brusio di voce sommesse fuori dalla porta, e la modella prese con
le dita tremanti della carta igienica per cercare di pulirsi gli sbaffi di
mascara.
Quanto era patetico tutto ciò. Le sembrava di essere tornata nel periodo
scolastico nel quale era da poco morto Toby: i battibecchi maligni, i
pettegolezzi simili a pugnalate dietro la schiena e tutto il resto. Aveva
giurato a sé stessa che se li sarebbe lasciata alle spalle per sempre. E invece
aveva commesso questo errore. Un errore davvero terrificante.
«Scusami, Ana», disse la voce di Diane, impastata dall’alcol ma con un
sottofondo di vera preoccupazione, o almeno così le parve. «Non credevo… ti
prego, esci da lì».
«Hamilton, ti prego», implorò Malcolm. «Su, dài, mi dispiace. Anche Didì
è dispiaciuta».
La sedicenne tirò un profondo respiro e aprì la porta.
Stavano tutti e due in piedi lì fuori, con l’aria da cani bastonati nella forte
luce proveniente dal bagno.
«Per favore, Hamilton», disse Malcolm prendendole la mano. «Torna giù di
sotto».
«È tutto a posto», rispose. «Davvero. Però sono stanchissima, mi sono alzata
alle sei stamattina».
«D’accordo…», il moro le lasciò a malincuore la mano. «Basta che tu adesso non
ci tenga il muso».
Anastasia digrignò i denti a suo malgrado. Sta’ calma. Cerca di non fare
tanto casino.
«No, non ho intenzione di “tenervi il muso”», disse, cercando di conservare un
tono leggero. «Sono solo stanca. Ora mi lavo i denti. Ci vediamo domattina».
Li spinse da parte con una gomitata sufficientemente brusca, diretta in camera
da letto per prendere il beauty-case, e quando tonò erano ancora lì, con Diane
che batteva nervosamente il piede sul parquet.
«Allora fai sul serio?», domandò. «Ti stai tirando indietro? Porca troia, Ana,
era solo uno scherzo. Da quando hai iniziato a fare la parte della depressa?».
Per un istante la rossa pensò a tutte le risposte che avrebbe potuto dare.
Non era stato uno scherzo. Lei sapeva benissimo quanto avesse fatto male,
eppure aveva deliberatamente tirato Toby nell’unico posto e nell’unico momento
in cui non avrebbe potuto tentare né di sfuggirgli, né di cancellarlo. Senza
contare che a quanto pareva, dopo la confessione di Malcolm prima nella
macchina, quella che considerava la sua “migliore amica” non era poi così
sincera, a tal punto da non averle detto il vero motivo della sua presenza.
Forse nemmeno Diane era la brava amica che credeva di essere. Forse nemmeno
lei.
Ma tanto a cosa sarebbe servito arrabbiarsi? Come un’idiota aveva abboccato
all’amo, e adesso era andata in tilt come da copione. Ormai il danno era fatto.
«Non mi sto tirando indietro», replicò stancamente. «È l’una passata ed io sono
in piedi dalle sei. Per favore. Voglio solo dormire un po’, davvero».
Mentre diceva quelle parole si rese conto che stava implorando, adducendo
pretesti, tentando di assolvere sé stessa dal senso di colpa per essersi
chiamata fuori. Per qualche motivo l’idea la innervosì. Nessuno degli invitati
aveva più quattordici anni. Non dovevano mica starsene appiccicati come se
fossero legati da un invisibile cordone ombelicale. Avevano preso strade
separate ed erano tutti sopravvissuti. Il fatto di volersene andare a letto non
avrebbe rovinato per sempre la festa di Malcolm, e non doveva giustificare la
sua assenza come un prigioniero di Star Chamber.
Adesso che ci pensava, in altre occasioni avrebbe sbraitato e li avrebbe
mandati tutti a fare in culo, facendo la parte della superiore altezzosa come suo
solito. Eppure da quando aveva messo piede in quella casa di vetro si sentiva
come indebolita, come una ragazzina spaventata. Il ché non era affatto da lei.
Quel posto le stava facendo uno strano effetto.
«Me ne vado a letto», ripeté.
Ci fu una pausa. Malcolm e Diane si guardarono a vicenda: «Okay», disse il
primo.
Per qualche irrazionale motivo quell’unica parola la irritò più di tutto il
resto: sapeva che in fondo stava solo accettando la sua decisione, ma la parola
conteneva un’eco di “permesso accordato” che le fece accapponare i capelli. Non
sono una schiavetta da comandare a proprio piacimento, figlio di puttana!
«’Notte», tagliò corto, e li spinse da parte per entrare in bagno.
Al di sopra dello scroscio dell’acqua del rubinetto e dello strofinio dello
spazzolino da denti, li sentiva bisbigliare in corridoio, ma decise ugualmente
di restarsene lì a togliersi i residui di mascara con insolita cura finché le
loro voci non si affievolirono e non udì i loro passi allontanarsi sul parquet.
Buttò fuori il respiro, sbarazzandosi di un accumulo di tensione che non sapeva
nemmeno di aver trattenuto, e sentì rilassarsi i muscoli delle spalle e del
collo.
Perché? Perché da quando era entrata in quella casa le persone sembravano avere
tutto quel potere sulla modella? E perché lei glielo stava permettendo?
Con un sospiro, ficcò dentifricio e spazzolino nel beauty-case e aprì la porta,
per poi dirigersi verso la camera da letto a passi felpati. Fresca e
silenziosa, era diversissima dal soggiorno surriscaldato. Udì fluttuare lungo
le scale la voce di Lady Gaga, ma il suono si ridusse a semplici note di basso
in sordina una volta che, richiusa la porta, si buttò a peso morto sul letto.
Il sollievo fu indescrivibile. Ad occhi chiusi poteva immaginarsi di ritorno
nella sua grande villa a Denver, mancava solo il rumore del traffico e dei
clacson fuori dalla finestra.
Il desiderio di essere di nuovo lì era talmente forte che poteva quasi sentire
sotto il palmo la morbidezza del suo vecchio piumone a fiori, e vedere la veneziana
di vimini che ticchettava sommessamente contro la serranda.
Invece bussarono alla porta, e quando riaprì gli occhi si ritrovò davanti la
vuota oscurità del bosco riflessa attraverso la parete di vetro.
Sospirò, e mentre raccoglieva le forze per rispondere, udì bussare di nuovo.
«Ana?».
Era Ashley. Stava lì fuori con le mani sui fianchi.
«Ana! Non posso credere che tu voglia fare questo a Mal!».
«Cosa?», si sentì calare addosso un’immensa stanchezza. «Che io voglia fare
cosa? Andarmene a letto?».
«Ho fatto degli sforzi enormi per renderlo un week-end perfetto per Mal: guarda
che ti uccido, anzi, ti faccio uccidere, se lo rovini già dalla prima sera!».
«Senti palla di lardo, io non sto rovinando un cazzo di niente. Sei tu
che stai gonfiando esageratamente la faccenda. Voglio solo andare a dormire. Va
bene?».
«No, non va affatto bene. Non ti permetterò di sabotare tutto quello per cui ho
lavorato tanto!».
«Io voglio solo andare a dormire», ripeté la rossa come un mantra.
«Beh, allora vuol dire che ti stai comportando da… troia egoista»,
sbottò Ashley. Era tutta rossa in faccia, e pareva sull’orlo delle lacrime.
«Mal… Mal è il migliore di tutti, chiaro? E si merita… si merita…», le tremolò
il mento.
«Sì, vabbé», replicò Anastasia e, senza pensarci due volte, le sbatté la porta
in faccia.
Per qualche istante continuò a sentirla ansimare lì fuori e pensò: se dovesse
scoppiare in singhiozzi, sarebbe stata costretta ad uscire per scusarsi, anche
per non fare per l’ennesima volta la parte della cattiva di fronte a delle
persone.
Ma non andò così. Con chissà quale immenso sforzo, Ashley si diede una calmata
e scese di sotto, lasciando la modella a sua volta molto prossima alle lacrime.
Non sapeva bene che ore fossero,
quando Diane salì di sopra, sapeva solo che era tardi, tardissimo. Pur non
essendo ancora addormentata, Anastasia finse di esserlo, rannicchiata sotto il
piumone con il cuscino sopra la testa mentre lei si aggirava pesantemente per
la stanza, facendo cadere flaconi di cosmetici e inciampando con la valigia.
«Sei sveglia?», sussurrò infilandosi nel lettino accanto a quello dell’amica.
La sedicenne pensò di ignorarla, ma poi sospirò e si girò verso di lei.
«No. Probabilmente perché tu hai preso a calci tutti gli oggetti che incontravi
nel tuo cammino».
«Scusa», si rannicchiò a sua volta sotto le lenzuola, e l’altra scorse un
luccichio dei suoi occhi mentre sbadigliava e sbatteva le palpebre, esausta.
«Ascolta, mi dispiace per prima. Ti giuro che io non…».
«Non ha importanza», replicò Anastasia stancamente. «L’errore è stato mio. Ho
reagito in maniera esagerata. È solo che ero esausta, e ubriaca». Nonostante il
suo brutto carattere, la modella aveva ammesso le proprie colpe e aveva addirittura
deciso che forse avrebbe chiesto scusa ad Ashley, il mattino dopo. Di
chiunque fosse la colpa, in quella storia, di sicuro non era sua.
«No, sono stata io», ribatté la bruna. Giratasi sulla schiena si mise la mano
sugli occhi. «Ho fatto la solita parte della scassacazzo. D’altra parte, sai, è
passato più di un anno. Forse davo per scontato che…», si interruppe, ma
l’amica sapeva cosa intendesse dire. A chiunque verrebbe da pensare che una
persona normale avesse almeno un po’ superato l’accaduto in maniera sana, e
voltato pagina.
«Lo so», disse con un sospiro. «Credi che non me ne renda conto? Sono
patetica».
«Ana, ma cosa è successo? Perché è chiaro che è successo qualcosa. Non ci si
comporta così, per una normale rottura sentimentale, o per… beh, hai capito».
«Non è successo niente. Io l’ho lasciato. Fine della storia».
«A me non l’hanno raccontata così», si girò di nuovo su un fianco, e percepì
nell’oscurità il suo sguardo sul viso dell’altra. «Ho sentito dire che è stato
lui a lasciarti».
«Beh, hai sentito male. L’ho lasciato io. Non mi sono più fatta sentire».
Faceva così male, far tornare a galla quei ricordi era come una tortura. Aveva
voglia di domandargli di Malcolm, delle cose che le aveva detto in macchina, ma
in quel momento non si sentiva coraggiosa abbastanza.
«Okay… però… senti, non te l’ho mai chiesto, ma per caso lui…».
Si fermò a metà. Anastasia poteva quasi sentire le sue rotelle celebrali che
giravano frenetiche nel tentativo di formulare una frase potenzialmente
insidiosa.
Restarono in silenzio per un po’.
«Oh, cazzo, non c’è modo di chiedertelo senza apparire indiscreta, però devo
farlo proprio. Lui non ti avrà mica… non ti ha picchiata, vero?».
«Cosa?».
Questa non se l’aspettava.
«Oh, è chiaro che no, scusami», la bruna si rigirò sulla schiena.
«Senti, Didì».
«Diane».
«Oh cavolo, Wilford e Ashley devono avermi contagiata!».
«Comunque, ad essere sincera, il tuo modo di reagire dopo che vi eravate
lasciati, prima che lui morisse… Non puoi stupirti se la gente si chiede…».
«La gente?».
«Ascolta, avevi quindici anni e fu una cosa piuttosto drammatica, tra te che
avevi iniziato a reagire come un coniglietto spaventato e Lyra, la sorella di
Toby, completamente a pezzi. Se ne è parlato parecchio alle tue spalle, va
bene?».
«Oh, ma che cazzo!», alzò gli occhi al soffitto. Regnava un silenzio totale, a
parte un ticchettio sommesso all’esterno, simile alla pioggia ma ancora più
delicato. «Davvero la gente pensò questo?».
«Sì», replicò laconica Diane. «Direi che era la notizia più diffusa, tra le
varie teorie. O anche che ti avesse trasmesso qualche malattia venerea, o che
ti avesse messa incinta».
Oh, povero Toby. Dopo tutto quello che gli era successo, non si meritava
pettegolezzi del genere.
«No», rispose alla fine. «No, Toby Erin Rogers non mi prese a botte, non mi
trasmise alcuna malattia venerea, né mi mise incinta. E ti sarei grata se lo
riferissi a chiunque ti facesse domande in proposito. Adesso buonanotte, mi
metto a dormire».
«Va bene», concluse Diane con tono arreso. «Se non vuoi raccontarmelo, non
andrò oltre. Comunque prima, Felix si è preoccupato tantissimo per te. Voleva
andarti a parlare, ma era troppo ubriaco perfino per muoversi. Credo che tu gli
piaccia, e secondo me stareste bene insieme. È davvero una brava persona».
«Non me ne sbatte il cazzo. Buonanotte».
Anastasia si girò su un fianco ad ascoltare il silenzio, il rumore del respiro
esasperato dell’amica ed il leggero picchiettio là fuori.
E finalmente si addormentò.
Note
dell’autrice: Volete sapere
quante pagine ho scritto? Undici. Undici.
Vorrei come al solito ringraziare tutti coloro che hanno recensito, quelli che
hanno inserito la storia tra le preferite, le seguite e…anche a tutti i lettori
silenziosi.
Come avete potuto vedere in questo capitolo viene rivelato molto su Anastasia,
e vedrete che prima o poi le cose si faranno più chiare, eheh.
Perdonate se non ho scritto tanto nelle “note dell’autrice” o nel caso trovaste
qualche errore di battitura, ma dato che è arrivata l’estate, sono sempre fuori
casa e sto facendo le ore piccole. Vogliate perdonarmi!
Eeee niente, spero di non avervi deluso, e aspetto as always le vostre
opinioni.
Princess of Marshmallows. ( Avete visto? Ho cambiato di nuovo NickName! Il
prossimo quale sarà? Sono aperte le scommesse.(?) )