Questa
è una what if
molto indefinita, ambientata in un'ipotetica fuga di Miharu e Yoite.
È su quest'ultimo che ho voluto concentrarmi e, nel parlare
di lui e
della sua infanzia da me completamente immaginata, ho adottato
–
come anche nel resto della narrazione – un leggero tono
nonsense.
Buona
lettura.
In
attesa del
prossimo inverno
Yoite chiuse
gli occhi,
tentando di rendere respiro quel rantolo fastidioso che,
anziché far
incamerare ossigeno, trasportava solo sangue ai polmoni deboli.
Accasciato al
suolo cercò
con la mano la presenza di Miharu per costringerlo a fermarsi senza
che, con la stupida ostinazione malamente mascherata dall'apatia,
cercasse inutilmente di trascinarlo via. Ormai era già
inesistente,
un contenitore vuoto che camminava solo per forza di inerzia, simile
a quei giocattoli ricaricabili che di quando in quando si vedevano
ancora in giro: lui però, una volta finita la carica, non
poteva più
ricevere un altro giro di molla in grado di farlo funzionare ancora.
Sarebbe morto
e basta,
perché tempo fa aveva lucidamente scelto di disperdere la
sua vita
poco a poco, seminando parte della sua anima nei corpi di chi
decideva indiscriminatamente di uccidere.
Quindi l'unica
cosa che
poteva ancora decidere era come
volesse morire: aspettare fino a
che non avesse esalato l'ultimo respiro, debole ed inerme quanto un
fiore secco in attesa di essere falciato, oppure scomparire per
sempre prima di perdere quel poco di umanità che gli restava.
“Miharu...”
sussurrò
con il volto premuto a terra.
Questi
silenzioso cercò
di sollevarlo, ma Yoite lo spinse senza forze.
“Cosa
c'è Yoite?”
chiese con quella voce dal tono neutrale.
“Devi
farlo, ora.”
Tacque.
Miharu
guardò quel corpo
magro disteso su di un pavimento e ripensò alla sua
promessa:
sarebbe stato lui stesso, con il potere dello Shinrabansho, a
cancellarlo per regalargli finalmente il sollievo dal dolore. Eppure
si rendeva conto che, seppur bella, quella prospettiva era anche
incredibilmente difficile da attuare: certo, avrebbe fatto a Yoite
il dono più grande ma, egoisticamente, poteva davvero
ucciderlo?
Il giovane
Rokujo si
rendeva conto che fino a quel momento aveva mentito non solo a
sé
stesso ma anche al suo compagno di fuga: mentiva con illusorie
promesse semplicemente per temporeggiare in attesa dell'occasione
giusta di salvare entrambi.
Occasione che
però
sembrava non dover mai arrivare; tutti e due, alla fine, erano
stanchi di illudersi.
Nessuno li
avrebbe
aiutati, sarebbero stati per sempre destinati a scappare ancora e
ancora, fino a che il mondo non si fosse dimenticato di loro. Ma
d'altronde cos'era la morte se non dimenticanza?
Miharu si
sedette di
fianco al ragazzo, appoggiando la schiena contro la parete in mattoni
di uno dei tanti vicoli per i quali fuggivano, e concluse con la
solita serietà inappuntabile:
“Lo
farò adesso allora.
Chiudi gli occhi e riposa, io ti starò sempre
vicino.”
Sospirando
Yoite annuì.
In fondo era quello che aveva sempre desiderato, anche se non credeva
di poter essere finalmente annientato.
Quando era
ancora piccolo
Yoite amava la neve. Gli permetteva, uscendo dall'abitazione, di
coprirsi con la sciarpa soffice fatta dalla madre e mettere il largo
cappello che papà aveva smesso di portare: profumava dei
suoi
genitori, quindi l'idea di indossarli non sembrava così
assurda come
apparentemente poteva essere.
Ricordava di
fermarsi
esitante davanti al prato innevato di fronte a casa sua poi,
silenzioso, sospirava e si gettava di schiena, lasciando che il
cappello gli sfuggisse e la sciarpa si distendesse attorno a lui come
il sangue di una vittima d'omicidio. Attendeva che i fiocchi si
posassero sul naso congelato mentre le mani affondavano nella neve
soffice; tastandola, si stupiva ancora di sentirla così
eterea:
allora credeva di toccare il cielo perché, supino, riusciva
a
vederlo in modo talmente diretto da sembrare che lo stesse
ricoprendo.
Lui, bambino,
quei giorni
pensava di essere in un letto fatto di freddo mentre le lenzuola
altro non erano che il cielo bianco e silenzioso. Annusava l'aria che
incredibilmente sapeva di pulito, proprio come quando sua mamma
faceva il bucato e lui desiderava tuffarsi tra le coperte stese ad
asciugare, invischiandosi nella loro morsa senza più uscirne.
Fino a che suo
padre,
preoccupato dal non vederlo rientrare, con un sospiro veniva a
cercarlo e, trovandolo mezzo congelato nella neve, lo prendeva in
braccio così da riportarlo a casa.
“Non
devi scomparire
all'improvviso Yoite, come facciamo a trovarti se non sappiamo dove
sei?” Gli chiedeva con cipiglio
severo.
Il bambino
avrebbe voluto
rispondergli che probabilmente una persona scompariva proprio per non
farsi trovare.
Ora Yoite non
aveva più
genitori che lo venissero a recuperare tra la neve.
Avrebbe potuto
aspettare
anche mille anni se solo avesse voluto, le cose comunque non
sarebbero cambiate; tutto sarebbe stato così ciclicamente
uguale da
fargli pensare che, forse, da qualche parte nel modo ci fosse un ninja
più potente di tanti altri capace di incantare ogni cosa
mentre lui,
silenzioso e distante, continuava a morire.
Quella volta
però gli
eventi erano destinati a svolgersi in modo diverso: Miharu aveva
deciso di usare lo Shinrabansho per soddisfare l'unico desiderio che
Yoite si fosse mai concesso in vita.
Infatti lo
sfortunato
possessore del kira sentì gli arti freddi venire
improvvisamente
toccati dall'arte magica e gli sembrò che qualcosa di vivo,
pericoloso e ingordo, lo sfiorasse; certo, non erano le carezze di
sua madre a dirgli che tutto sarebbe andato per il meglio, ma andava
bene ugualmente. Respirò.
Una, due, tre
volte... la
quarta non arrivò mai.
Ogni cosa
perdeva il suo
senso, ogni ricordo annegava nell'oblio e si disfaceva inesorabilmente.
Fra poco avrebbe potuto disintegrarsi: la sua anima, secondo la
propria consolatoria immaginazione, si sarebbe dissolta in tanti
frammenti di luce, evaporando come acqua nella speranza di
raggiungere il cielo.
Lui
però non sarebbe
tornato sulla terra sotto forma di pioggia.
Mi sto
sgretolando
lentamente senza provare dolore, vorrei piangere eppure rido ma se
sento una lacrima allora inizio a desiderare di ridere. Sono confuso,
forse anche abbandonato, ma questo non mi spaventa più
ormai;
l'unica cosa di cui mi rammarico è che solo tu Miharu ti
ricorderai
di me e io egoisticamente ti lascio.
Faresti bene
quindi a
dimenticarti di tutto, voltarti dall'altra parte e ricominciare a
vivere.
Perché
in realtà morire
mi fa paura, se te lo avessi detto apertamente non avresti mai
nemmeno finto di mantenere la tua promessa. L'unica cosa positiva
dell'andarmene è che così non dovrò
più pensare a come vivere.
Yoite nel suo
profondo
sapeva di essere meschino. Pur desiderando morire aveva paura di
farlo: capiva che, dopo l'ultimo battito del cuore, oltre non ci
sarebbe stato nulla, nemmeno Miharu che pure lo avrebbe voluto
seguire. Non c'era solitudine, vero, ma non c'era nemmeno amore e lui
solo era conscio quanto avesse cercato affetto nella sua tormentata
esistenza.
Si rese conto,
in un
ultimo istante di lucidità, che morire equivaleva a
cancellare
davvero ogni cosa di sé, il compimento perfetto del suo
scopo,
allora perché sentiva così tanta angoscia?
Forse
perché avrebbe
perso, più che sé stesso, tutto ciò
che in quei mesi lo aveva
circondato: gli occhi preoccupati di Miharu, il desiderio di fuggire
per sognare un luogo di pace e – più stupidamente
– anche il suo
cappello e la sua sciarpa.
Divenendo
nulla dopo la
morte allo stesso modo automaticamente non avrebbe avuto nulla:
lì
non c'erano campi innevati nei quali sdraiarsi e, a dire il vero, non
ci sarebbe stato nemmeno più lui.
*°*°*°*
Aprì
gli occhi. Si stupì
di poter ancora respirare.
Aveva la vista
appannata
ma dopo qualche istante riuscì ad intravedere davanti a
sé un porto
e poco distante da dov'era una fila di lampioni che illuminavano a
malapena le banchine. L'odore della salsedine copriva ogni cosa,
impregnando persino i capelli, gli abiti e le dita che se assaggiate
sapevano di sale.
“Dove
sono?” chiese
faticando a mettere insieme le parole.
“In
vita.” rispose
Miharu, in piedi davanti a lui, con il braccio portato in avanti per
porgergli quella che doveva essere una ciotola d'acqua di fortuna.
Yoite
osservò con affetto
il ragazzino: notò il colorito pallido della pelle, gli
occhi grandi
ma vuoti e si sentì ancora una volta in colpa; nuovamente
Miharu lo
seguiva, perdendo tempo dietro un corpo destinato a collassare, e lui
in cambio lo faceva preoccupare.
Spostò
in seguito lo
sguardo in direzione dell'oggetto teso verso di lui ma non lo prese e
chiese triste:
“Non
mi hai fatto
scomparire.”
Miharu prese
le mani del
ragazzo, che silenzioso lo lasciò fare, e vi mise tra esse
il
contenitore chiudendo le dita attorno ad esso; in quel gesto sembrava
il figlio premuroso che assisteva un genitore troppo perso per
potersi prendere cura di sé stesso.
“Hai
pianto. Allora ho
pensato che tu in realtà avessi paura di morire
Yoite.” spiegò il
ragazzino accoccolandosi con le gambe contro il petto, mentre lo
sguardo si perdeva inespressivo verso il mare.
“Però
non mi rimane
altro, nemmeno me stesso perché io sto già
sparendo.” spiegò
Yoite guardando l'acqua ondeggiare dentro la scodella.
“Dammi
tempo e ti
prometto che non dovrai più andartene.”
Il ragazzo,
coperto ancora
dal cappello e avvolto dalla sciarpa, non disse nulla. Dentro di
sé
forse sperava davvero di avere quel tanto agognato tempo, anche se si
rendeva conto di andarsene poco a poco: simile ad una montagna,
veniva eroso giorno dopo giorno da un vento implacabile, fino a che
le ultime tracce di terra non fossero volate via mischiandosi alla
polvere.
Alla fine
però non gli fu
difficile accettare quella proposta o, forse, speranza: per farlo gli
era sufficiente ripensare alle giornate trascorse sul prato innevato,
mentre aspettava che qualcuno venisse a salvarlo dalla sua inerzia di
fronte alla vita.
Sospirò.
Sarebbe stato
un fiocco di
neve in attesa del prossimo inverno così da cadere
giù e
confondersi nel nulla.
Sproloqui di una
zucca
Per la serie: ebbene
sì, colpisco anche qui! XD
Questa fiction non ha
una lunga genesi. È nata all'improvviso mentre stavo
guardando Nabari e ho pensato: Yoite vorrebbe morire eppure fugge
perché sa che Miharu gli darebbe la morte migliore... ma non
prova paura?
Secondo me
sì, almeno da quando ha conosciuto Miharu, perché
è diventato consapevole di avere qualcosa da perdere mentre
prima non possedeva assolutamente nulla di importante.
Parlando dell'anime in
generale mi da molta ispirazione e, sebbene all'inizio lo avessi
sottovalutato un po', ora è diventato un appuntamento fisso
del martedì. Nonostante questo continuo a detestare Miharu,
i suoi occhi a fanale, la snervante apatia e quella voce triste...
però lo capisco... lo adoro.... non è vero lo
odio.
Basta, sto seriamente
compromettendo la mia poca sanità mentale. Diciamo che nel
complesso Nabari mi trasmette malinconia: tutti i suoi personaggi sono
malinconici, afflitti a modo loro da una tristezza di fondo che sembra
non volersene mai andare.
In ogni caso Raiko e
Yoite rulez! >.<
Ps: Il titolo della fiction mi è stato ispirato da un libro
letto anni fa "In attesa della prossima estate" - che pure non c'entra
nulla con la storia - solo che Yoite mi da l'idea di inverno,quindi nel
scegliere una stagione a lui adatta ho cambiato un po'
le cose.
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