lo spettro del soverchio 1 parte
Non ho intenzione di
tentare di convincervi di una mia profonda e piena depressione. Di
passare il tempo a elogiare la morte, le rose rosse intrise di sangue,
a rimirare il volo dei corvi, di bearmi con lamentose e strazianti
melodie.
Ebbene, io ne prendo
atto con flemma, con sopita disperazione. Le armi dell'inferno
interiore in perenne lotta con i lineamenti di pietra.
Eppure, sono ancora
qui. Nessun eroe pronto a salvarmi, nessuna pargoletta mano tesa verso
di me, il mondo va avanti, la gente non si trastulla, men che meno si
incanta di fronte ad una storia senza morte e senza rimorsi.
Perché, io,
proprio io, nulla avevo di cui tormentarmi. Nessuna morte inspiegabile,
nessun padre da vendicare, nessuna cattiva strada intrapresa. Una
quieto, pacato bisogno di cercare un disegno divino nella mia persona
Una strana melodia che incitava alle profondità della terra. Un
desiderio folle e morboso di sapere il mio cadavere scarnificato appeso
in una dotta università, con milioni e milioni di studenti che
mi palpano lo sterno ogni giorno.
La mia stessa esistenza si trascinava lungo una riva sterile, scorrevole come l'oro nero, altrettanto torbido e malsano.
A lungo ho creduto che
ciò derivasse da una mia tarda cattiveria, da ciò che mi
spingeva a torturare gli esseri più cari, a bastonare cuccioli
per bearmi degli uggiolii di dolore, per quella loro tanto apprezzata
tenerezza e affettuosità che veniva percossa e sedata sotto il
peso del bastone. Presto con tutta me stesso cominciai a desiderare la
rissa, le botte, l'adrenalina venosa in tutta la sua dolente
concretezza, e il piacere di donarne altrettanto al proprio avversario,
talmente inebriante da rendere lo sfondo insipido, sfumato, i suoni
attenuati, e l'importante diventava cancellare ogni espressione sul suo
viso, storcere la sua bocca in un grido e mischiare le sue lacrime alle
proprie. Ogni occasione era propizia, ogni screzio era una Waterloo, ma
mai, e dico mai e poi mai mi sarei sognato di provocarne una. Il mio
essere tranquillo, ritirato, quasi ascetico, mi preservava da ogni
dubbio.
E così scorreva
il tempo. Ogni singolo minuto, baco impertinente, scavava furioso la
mela della mia mente. A volte scivolava, a volte volava, tentando di
incanalizzarmi nel magico disegno, su uno scopo, su un obbiettivo, e
puntualmente i miei sporadici intenti venivano dissolti con rabbia e
fastidio, le farfalle viventi nel mio io spezzate sullo scoglio
dell'inutilità.
Una via portava alla
salvezza, una alla dannazione. Ed io. Ed io, cosa feci? Rimirai il
bivio, passivo, e mi sedetti al centro. Il nulla. La nube grigia. Le
once in perfetto equilibrio, fugato ogni dislivello.
Ciononostante, di tutto si poteva trattare tranne di equilibrio.
Il velo grigio copriva
le sagome attorno a me. Le modellava, le lasciava intravedere, era
possibile percepirle muoversi, sterili e lontane, ma attraverso il velo
ogni carezza, ogni suono e ogni contatto era neve perenne.
Eppure, le mani che
sfioravano il mio viso, percepivano calore, sensibilità, amore.
Nulla sapevano del tumultuo che imperversava sotto strati di pelle e
sangue.
Non volevo vivere, non
volevo morire... non volevo, non volevo e basta. La strada lastricata
di NO si estendeva davanti a me chiara e sicura, ogni tassello al suo
posto, ogni negazione giusta e reale, e l'ultimo gradino saltava nel
BLU.
BLU. Il blu era
ciò che perseguivo, il blu era ciò di cui mi nutrivo, il
blu era niente, il blu non era bianco, né grigio, né
nero, il blu era la notte, ma era anche il giorno, erano le
profondità vergini dell'oceano, era l'infinito oltre lo specchio
davanti al mio letto.
L'eterno blu.
Il BLU entrava e
usciva da ogni mio poro, denso, sinuoso, come migliaia di minuscoli
serpenti cianotici di una Medusa improbabile. Respiravo BLU. Io ero il
BLU.
Mentre mi crogiolavo
nella mia unica certezza oltre i dubbi iperbolici, aggrappato ad essa
come un naufrago ad un barile, le sagome oltre il velo avevano
finalmente intravisto la creatura al di sotto della superficie.
D'altronde, la negazione in me era così radicata, che sfoderai
l'anticristo del BLU, l'inquieto e vivace LILLA. Lo ostentai, con
talento magistrale, lo vomitai leggero e rassicurante su quelle figure
indistinte. Ed esse, quali mosche ronzanti di idiozia erano, lo
ingoiarono, lo digerirono e me lo gettarono di nuovo addosso.
Fu nel tripudio orgiastico del LILLA, che capii che ormai il BLU aveva preso completamente possesso di me.
La stanza bianca, il
mio regno incontrastato, la mia bolla di tediosa ripetizione
giornaliera, ammorbata dalle loro voci e dai loro pressanti problemi,
le chiacchiere, la tv, il divano, la finestra, il gatto sul tavolino.
Il gatto era bianco, come l'intonaco delle pareti. Era così
bianco. Una versione sfaccettata dell'intonaco della stanza che si
muoveva in tutta casa, come per ricordarmi il mio bunker splendente.
Il gatto bianco gironzolava senza sosta, monito silenzioso, indice puntato sul mio destino a senso unico.
Perché era
così bianco, l'ho detto? Era bianco come quella maledetta
stanza. Perché? Perché era la stanza stessa incarnata in
felino, ennesimo suo disperato tentativo di imprigionarmi per sempre.
Avrei perso. Ma, si può forse considerare sconfitta una
questione lasciata in sospeso? No. Certo che no. Non mi sono mai
vantato di un orgoglio invidiabile, se mai ne ho posseduto. Trovo la
codardia un'elegante forma espressiva dell'essere umano,
un'interessante reazione perfettamente giustificabile, se non
legittima, primo e non ultimo baluardo da sventolare onde mantenersi
incolumi.
Fu così, che non appena il gatto bianco posò le sue soffici e mute zampe sui miei piedi, fuggii.
Così.
Non pensai,
"fuggirò", ma lo feci, molto semplicemente, fu una sorta di
immediata risposta data dalla mia mente. Ed io non pensai nemmeno
lontanamente a contraddirla. Perché mai, dopo anni e anni di
gabbie circensi e abili truffe, di maschere veneziane e piume, e
lustrini, ed enormi, smisurate, sconfinate dosi di LILLA, avrei dovuto
sussurarle docili rimproveri, dissuaderla dall'inviare l'impulso al
corpo, e ricacciarla nello stanzino buio? No, sarebbe stato troppo
coerente, troppo BIANCO, come la stanza, troppo assurdamente di
routine!
Ovviamente. O forse
no. Non saprei. Non era sicuramente ovvio, ma in un certo senso era
ineluttabile, così banale, una ribellione dalla prigionia: che
cliché visto e rivisto, che ribellione conformista!!
Eppure, lo pensai e lo feci. Non era premeditato, sicuramente appurato, ma non premeditato.
Sapevo che era
l'ultima volta che il mio corpo vivo varcava la soglia di casa. E, non
so come, ciò mi diede un'orribile sensazione di sconforto. In un
modo o nell'altro, nulla mi avrebbe mai strappato alla ripetizione.
Ripetizione.
Una parola che introduce un'altra sala, un altro tuor guidato della mia mente.
Lo vogliamo
percorrere? Vogliamo aprire la porta della stanza bianca, spiarvi
all'interno e bearci dell'arredo, e oh che mobili raffinati, oh
l'illuminazione è quella giusta, è difficile ormai oggi
trovare un punto in cui il sole batta estate ed inverno, e oh, guarda,
ha una piccole collezione di adorabili cherubini in porcellana? Lo
vogliamo?
Certamente. Prego,
prego, non spingete, per favore spegnete i cellulari e consegnate le
macchine fotografiche alla reception. Da questa parte, state tranquilli
se è buio ed il soffitto è così basso. è
perfettamente normale. Perfettamente, perfettamente, perfettamente
normale.
Ripetizione, ripetizione, ripetizione.
Alzarsi, la mattina.
Infila la vestaglia verde. Non guardarti MAI allo specchio, non prima
di aver raggiunto il bagno. Ignora lo specchio di fronte al letto,
è orribile, è maligno, ti vuole succhiare l'anima. Corri,
infilati le mani dentro il pigiama, è caldo e sa di sonno. Le
calze infilate sopra il pigiama, sono larghe, cadono floscie. Il bagno,
il bagno. Spalanca la porta, tira su la tavoletta, prova a pisciare.
Cosa? Brucia? Fa male? E poi: perché? Hai forse bevuto o
mangiato qualcosa la sera prima? No. Perché allora te ne stai li
a fissare la tavoletta? Che ci dovresti schizzare? Niente. Ma provarci
non costa nulla, no? Riabbassala, cazzo, fa pure schifo. Bravissimo.
Allora, infilati la fascia, infila la retina. I capelli non si vedono
più. Il sapone, il sapone, dov'è? Apri l'acqua. Ecco che
comincia a scorrere lungo gli avambracci, si infila sotto il pigiama,
cerca di aggrapparsi alle sue fibre acriliche, non ci riesce, stagna.
Ok, il viso è pulito. E ora? Ora lo spazzolino. No, non quello
dal manico largo, quello ti serve per vomitare. Prendi quello blu,
quello sottile, è il tuo, e ci lavi solo i denti.
Strofina bene. Il giallo non se ne andrà comunque, lo sai, no? Ma, si, insomma, provare non costa nulla, vero? Giusto.
Presto, torna in
camera. La matita nera. Passatela sugli occhi, dentro fuori e poi
dentro fuori e fuori e dentro, fino a che non cola sugli zigomi, e
occorre poi sfregarli con le salviette alle rose, e la pelle è
già così irritata, e brucia, e ma chi se ne frega, spalma
l'idratante.
I vestiti sono lì, sul letto, li hai preparati la sera prima, come tutte le volte. Sono freddi e puzzano di brina.
Tinta unita.
Rigorosamente. I jeans sono stretti. Sono molto stretti. Tira su i
boxer, più su, più su, fino a che solleticano le tue
costole. Ora puoi infilare il maglioncino acrilico in tinta unita,
nero. Infila il giacchetto, spruzzati borotalco sul petto come acqua su
un cactus.
Corri fuori, il bus,
il bus, il bus partirà senza di te, no, lo puoi sentire,
è un camion, è solo un camion.
Quanti passi hai fatto? Venti? Novanta? Dieci? Torna a casa, vai a prendere il contapassi. Esci di nuovo.
In realtà, a
cosa ti serve il bus? Devi contare, no? Cosa conti sopra ad un bus? Le
fermate? Niente. Ma provarci non costa nulla, eh?
Chiudi gli occhi. Forse la bellissima verrà, stamattina. Forse Oro Nero ci sarà. Forse mi vedrà.
Ma non giunge. Non
giunge. è reclusa, mia stella, mia vinta, colei che
sbroglierà la matassa del mio aggrovigliato pensiero.
Oro Nero è
giunta molto,tanto, troppo tempo fa. Quanto, anni, mesi? Non lo so. Non
mi interessa. Dovrebbe interessarmi una noiosa invenzione umana,
scandire i momenti vitali? Il baco nella mia mente alza il capo, fa si,
si, certo ci vuole ordine, certo ci vuole metodo. No, mio sagace
lombrico, non qui. Perché qui, qui resiede l'infinito negativo.
Zitto, e ascolta.
La pelle sfumata di
grigio, e d'un giallo notevole (GIALLO! GIALLO!GIALLO! AH AH!), i
piccoli occhietti scuri cerchiati di viola (VIOLA LILLA LILLA VIOLA!
CAPITE?), il nero ratto dei capelli. Tutto faceva presupporre ad un
segno inviatomi dal destino. Il giallo, il giallo dell'oppressione, del
forno acceso, delle banane, le banane, e dei pomeriggi di dolore, i
pomeriggi in cui dalla finestra dell'ospedale potevi sentire le
macchine durante le ferie estive, due macchine sole però, non di
più. Quando le auto scorrevano cancellavano l'ambiente per un
secondo, WOOOOSH, e portavano via anche la consapevolezza delle mille
appendici crescenti dal tronco in giù. Non gridavo già
quasi più.
Viola viola! Le
ecchimosi violacee altro non erano che il LILLA concretizzatosi sulla
mano del genitore, traspirante da ogni poro, e rigurgitato sul volto
deturpato della figlia. Ed il nero. Ah, il nero. Il nero... l'oro
nero... il mio fiume lento, viscido, paludoso...
Così minuscola...
Era una donna che la strattonava. Il corpicino rigido, immobile, il black gold che sventolava sulle sue spalle.
Gli occhi si
stringevano, a mandorla, in una smorfia di muto odio. La donna le
mollò un ceffone sul capino. La sua espressione non mutò,
i suoi occhi rimasero asciutti, si chinò a terra e
afferrò una foglia morta. Mentre la donna continuava ad inveire
contro di lei, Amore sminuzzò la foglia in tante piccole parti,
finché lo scheletro arboreo non affiorò. Poi,
appallottolò il rimanente nel pugnetto e strinse con tutte le
sue forze.
Era la Stanza Bianca.
Oro Nero era chiusa nella Stanza Bianca. Ed io con lei. E lei con me.
Due stanze simmetriche, identiche, stomaci di giganti per piccoli sarti
quali noi eravamo.
Oro Nero fu percossa
sul selciato da suo padre. Una mappa di segni rossi dipingeva il suo
corpicino giallo attraverso il vestitino.
Giocava pesante, suo
padre. Il poker dai cinesi era ogni giovedì sera. Notte dopo
notte, nel mio letto, ascoltavo le incomprensibili conversazioni sotto
la finestra, eccitate, deluse, arrabbiate, ogni emozione filtrata non
attraverso il linguaggio ma tramite lo strumento più semplice,
la voce.
Lei suonava, sugli scalini di casa. Ogni strepito dei giocatori era coperto dallo xilophono di Oro Nero.
"WAAAAHAHA! NU HI HAO!" plin. Plin plin. Ploon.
"NE KI KI? EHEEEEEEE" plin plon plin plen ding ding.
Era mio. Lo avevo
scaraventato giù dalla Stanza Bianca, per colpirla, o forse non
so, per salvarla. Era lì sotto. Mi ha visto. Mi ha fissato, o
no, oh, non saprei, i suoi occhi erano così piccoli e scuri da
poter benissimo essere scambiati per quelli di un ermellino impagliato.
Ma, così fu,
perché fu così, ne sono convinto con ogni fibra del mio
essere, che aprì la porta. Ed io la mia. Per un istante, per
sempre, per lo xilophono che giaceva ai suoi piedi come una bomba
inesplosa, spalancammo le porte.
Lo xilophono, vomitato fuori dalla mia Stanza Bianca, entrava nella sua. Fu come un patto di sangue, o qualcosa del genere.
La aspettai a lungo,
fuori da casa sua. La aspettai ogni giorno dopo scuola. Volevo ancora
riaprire le porte. Continuai ad aspettarla per molto, molto, molto
tempo. Tutti i pomeriggi, sul selciato dove aveva raccolto la foglia
d'acero.
Continuai ad aspettarla anche molto tempo dopo che la polizia se n'era andata, e aveva smesso di indagare oltre.
Però, se
cercate bene, sotto la casa dei cinesi, proprio lì, dietro il
muro, sotto al gancio di ferro, è rimasto un pò del suo
black gold.
C'è l'odore del
fiume nero. Mmm. Se volete sapere come la penso, fu qualche LILLA di
troppo. Il GIALLO era troppo debole per respingere il suo attacco.
è così. è morta soffocata dal LILLA, ve lo dico
io.
E lo xilophono
morì. Oh, me ne presi cura, e anche tanta! Cercai di
riaccoglierlo nel suo luogo d'origine, ma c'era troppo di lei, troppo,
troppo materiale dalla SUA Stanza Bianca per poter di nuovo entrare
nella mia. Lo lasciai nella terra di nessuno.
La ripetizione mi travolse nuovamente.
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