Questa flash fiction partecipa alla Corsa delle 48 ore, indetto dal
forum “Torre di Carta, con il prompt “Sentimento non corrisposto”.
«Somehow I feel I should
apologize
Cuz I'm just a little
shaken
By what's going on
inside.»
I should go; Levi Kreis
I
should go;
Alec riaprì gli occhi con un sospiro, alzandosi
a sedere: non riusciva a prendere sonno.
Con delicatezza cercò di allontanare Jace, che
si era appoggiato a lui nel sonno.
Non poté trattenere un sorriso, notando la
differenza di spazio che occupavano nel letto.
Era sempre stato così, fin da quando erano
bambini: anche nel sonno, le volte in cui crollavano addormentati nello stesso
letto, ad Alec veniva istintivo rannicchiarsi. Jace, invece, non si era mai
fatto problemi a prendersi tutto lo spazio di cui aveva bisogno.
Ogni tanto, Alec era stato costretto ad
assestargli qualche calcio per conquistarsi un po’ di materasso.
Quella sera, tuttavia, non ebbe la forza di
farlo. Non voleva rischiare di svegliarlo, non quando stargli accanto era già
difficile così.
Avere Jace a un soffio di distanza, addormentato
e vulnerabile, lo mandava in confusione.
Spesso, la sera, sera attendeva irrequieto il
momento in cui il migliore amico si sarebbe arrampicato sul suo letto per
chiacchierare, intontendolo con le sue stupidaggini. In quei momenti il suo
cuore si contraeva – nervoso e speranzoso al tempo stesso – al pensiero che
forse, anche quella volta, Jace avrebbe concluso per addormentarsi lì.
E quando succedeva, quando sentiva il suo
respiro regolarizzarsi e la sua fronte premuta contro la schiena, il panico
incominciava a stuzzicarlo.
Il suo corpo s’irrigidiva, conteso fra il
desiderio di abbracciarlo e quello di scappare.
Proprio come stava accadendo in quel momento.
“Mi dispiace” sussurrò all’improvviso, le mani a
tormentarsi i capelli. “Mi dispiace, Jace, mi dispiace.”
La rabbia si fuse alla vergogna, mentre si
stringeva le ginocchia al petto.
Si sentiva in colpa, e si odiava – lo odiava
– per il modo in cui il suo corpo reagiva ai suoi sorrisi, alle pacche sulla
spalla, al tocco delle sue dita quando lo marchiava.
Gli dispiaceva di non riuscire a stargli accanto
come un tempo, non senza sentire l’ormai familiare stretta allo stomaco.
Gli dispiaceva di non riuscire più a dormirgli
vicino. Non senza avvertire il bisogno istintivo di guardarlo, di toccarlo.
Aveva il cuore gonfio di battiti in eccesso,
conteso fra la paura e la meraviglia.
Una mano sfuggì al suo controllo; si arrischiò a
sfiorargli una guancia, i gesti esitanti di chi non sa come muoversi, né
dovrebbe permettersi di farlo.
Il contatto morbido con la sua pelle lo spinse a
salire, per accarezzargli i capelli. Si accorse con vergogna che le sue dita
tremavano, ma non le ritrasse fino a quando Jace non si mosse nel sonno,
mormorando qualcosa di incomprensibile.
A quel punto si allontanò di scatto, come se fosse
stato sorpreso a fare qualcosa di terribile.
Devo andare, ordinò a se stesso, scivolando fuori dal
letto.
I piedi nudi lo guidarono impacciati verso la
porta, dimenticandosi di fare silenzio.
Devo andare, devo andare, devo andare.
La genuinità del loro legame, la serenità delle
ore trascorse a riposare l’uno accanto all’altro, andavano corrompendosi ogni
giorno.
Il loro rapporto si stava disgregando: ed era
solo colpa sua.
«I should go
Before my will gets any
weaker
And my eyes begin to
linger
Longer than they should
I should go
Before I lose my sense
of reason
And this hour holds more
meaning
Than it ever could
I should go.»
I should go; Levi Kreis