PROLOGO
Roosevelt
Island, New York.
Novembre
2009.
La
vista dal faro era meravigliosa. Si aveva l'impressione di guardare un enorme
poster di Manhattan, con i suoi grattacieli rossastri e gli alberi spogli lungo
la sponda del fiume.
A
Thomas era sempre piaciuta quella lingua di terra adagiata in mezzo all'East
River, tra l'isola di Manhattan e il Queens lunga appena tre chilometri. Aveva
anche pensato di comprare un appartamento lì, i prezzi erano alti ma era convinto
che ne valesse la pena.
Già,
sarebbe stato un buon investimento. Peccato che stesse per perdere tutto.
Perché Thomas Foster era a un passo dal fallimento e non sapeva come uscirne.
Il suo piccolo impero alberghiero, quello che aveva ereditato da suo padre e
che lui aveva fatto prosperare per quindici anni, stava collassando.
Bello
scherzo gli aveva giocato la sua cara mogliettina, quella Cornelia Barnes
sposata per motivi sbagliati che non c'entravano nulla con l'amore. Un
matrimonio pieno di tarme fin dall'inizio, nato e morto subito ma trascinato
per inerzia da entrambi, prendendosi ognuno le proprie libertà. Ma a Nelly non
bastava andare a letto con chi voleva senza che suo marito se ne avesse a male,
aveva voluto di più.
I
soldi di Thomas, nello specifico.
In
realtà aveva provato a prenderseli, pianificando un inganno che lei credeva
perfetto ma che le era esploso in mano come una granata difettosa. Sì, stava
avendo dei guai con la giustizia, ma quello gravemente ferito dalla
deflagrazione era Thomas.
Dopo
un anno dall'inizio dell'incubo le cose sembravano andare sempre peggio,
sentiva che avrebbe chiuso tutto, che sarebbe andato in rovina e con lui così
tante famiglie.
Infilò
una mano nella tasca del cappotto e toccò il calcio della pistola. Sapeva che
nemmeno quel giorno si sarebbe tirato un colpo in testa.
In
fondo erano giorni che andava lì, in quel posto meraviglioso, con quella vista
mozzafiato con l'intento di lasciare tutto e chiudere gli occhi per sempre,
senza mai riuscirci.
Se
fosse codardia o coraggio non lo sapeva, l'unica cosa certa era che uccidendosi
avrebbe lasciato qualcun altro ad affrontare la valanga e con la crisi
economica che incalzava, era da vigliacchi infischiarsene della montagna che
sarebbe crollata in testa a persone che non c'entravano nulla. La colpa in fin
dei conti era sua e di nessun altro. Era stato lui a dare a quella donna una
responsabilità per la quale non era all’altezza.
Ma
era sua moglie, l’aveva resa ricca e importante, chiudeva entrambi gli occhi
sulle sue avventure, che motivo poteva avere per danneggiarlo? Come poteva
sospettare che l’avidità di quella donna sarebbe arrivata a tanto? Quindi sì,
la colpa era solo sua, aveva sottovalutato Cornelia. No, forse l'aveva
sopravvalutata, credendola meno puttana di quanto non fosse. Trasse un profondo
respiro e chiuse gli occhi, togliendo la mano dalla pistola. Che idea bizzarra
pensare di ammazzarsi ai piedi del faro, ma aveva pensato che fosse un modo
discreto per farlo, in un posto isolato dove non l'avrebbero sentito. Aveva
anche un che di poetico, no?
“Imprenditore in rovina si suicida nel Lighthouse
Park di Roosevelt Island .”
Suonava
quasi romantico. Thomas trovò la forza di abbozzare un sorriso ironico e voltò
le spalle a Manhattan. Inutile stare ancora lì, tanto non l'avrebbe fatto.
Magari avrebbe riprovato l'indomani, visto che si era preso una lunga vacanza
dal lavoro e aveva ben poco da fare a parte maledirsi e non rispondere al
telefono.
Simon
era un santo, faceva le sue veci anche col mare in tempesta. E Patrick, il suo
migliore amico, era un martire che sopportava lui e i suoi problemi. Doveva a
lui se non era finito in carcere per evasione fiscale.
Si
strinse nel cappotto di lana nero e s'incamminò, percorrendo a ritroso il
lungofiume. L'aria era fredda e umida e sapeva di pioggia. Raggiunse la
stazione della metropolitana ma poi cambiò idea, pensando di concedersi un
viaggio in funivia. Era da un po' che non saliva su una di quelle
caratteristiche cabine rosse, una decina di anni almeno. Tirò dritto e dieci
minuti dopo raggiunse la stazione funicolare. Trovò diversi turisti stranieri
appena scesi dalla cabina che ridevano e parlavano tra di loro mostrandosi l'un
l'altro le foto scattate mentre erano sospesi nel vuoto.
Dall'accento
Thomas dedusse che fossero australiani e rifletté sul fatto che potevano aver
alloggiato nel suo resort sulla Park Avenue. Poi pensò che forse avevano scelto
una soluzione più economica. Presto anche lui avrebbe dovuto abbassare i
prezzi, fare offerte più che vantaggiose, svendere totalmente un eccellente
servizio per puntare sulla quantità. Quei pensieri lo avvilirono spingendolo a
distogliere lo sguardo da quei turisti incolpevoli, finendo per posarlo su una
figura poco più distante.
Era
una giovane donna con un cappotto bianco legato in vita dal quale spuntavano
dei pantaloni neri e con un foulard rosa intorno al collo.
I
lunghi capelli, di un bel castano caldo, erano disturbati dal vento sempre più
forte. Ma lei non sembrava farci caso, persa nei suoi pensieri.
L'uomo
pensò che doveva trattarsi di pensieri tristi, vista l'espressione cupa che
aleggiava sul suo bel viso.
Avevano
qualcosa in comune, ma sperava che ciò non comprendesse qualche proposito
estremo come il suo. Era troppo giovane per avere la tentazione di andare via
per sempre. La cabina di ritorno dall'ennesimo viaggio verso Manhattan scese
lentamente verso terra fino a fermarsi dietro le porte rosse. Una ventina di
passeggeri sciamarono fuori tutti insieme, mentre quelli che aspettavano la corsa
successiva iniziarono a farsi strada per prendere posto. Anche la ragazza
triste si mosse verso la cabina e Thomas fece altrettanto, attento a non
perderla di vista.
Quando
riuscì a entrare, la trovò seduta in un angolo. L'uomo rimase in piedi e si appoggiò
a un corrimano, osservandola con più attenzione. Ora che la vedeva in pieno
volto si accorse di quanto fosse realmente bella. Un viso particolare, con
zigomi alti e un mento deciso ma aggraziato. Il naso sottile e dritto su una
bocca ben disegnata appena tinta di rosa. Non pensava di aver mai visto un viso
simile e ne restò incantato. Non riusciva a capire che colore avessero gli
occhi ma credette che fossero verdi. Cercò di calcolare quanti anni potesse
avere e nonostante l'abbigliamento da signora, era certo che non avesse più di
venticinque o ventisei anni. Una ragazzina in confronto a lui che ne aveva
quarantadue.
Thomas
provò un moto di imbarazzo e guardò altrove, per poi tornare a posare gli occhi
su di lei, la sua espressione non era cambiata e anzi, sembrava ancora più
triste. Cosa c'era di sbagliato nella sua vita da renderla così cupa? Una donna
così giovane e bella non doveva essere triste.
Se
fosse stata la sua donna, non l'avrebbe permesso...
La
cabina arrivò a destinazione e le porte si aprirono, lasciando uscire i
passeggeri. Thomas fu costretto a spostarsi per far passare alcune persone e si
ritrovò fuori. Ma quanti dannati passeggeri erano saliti sull'isola?
Non
gli erano sembrati così tanti prima, mentre ora ricordavano un'orda di barbari.
Gli passarono davanti almeno una ventina di persone e un numero simile era già
pronto a salire sulla cabina. Infastidito, si guardò intorno in cerca della
ragazza triste e con suo disappunto si accorse che era già sparita, inghiottita
da quella piccola e irritante folla di viaggiatori. Si allontanò dalle porte
della cabina nella speranza di scorgerla, ma non c'era più.
Il
giorno dopo, Thomas era di nuovo a Roosevelt Island, ma non per lo stesso
motivo dei giorni precedenti.
Era
lì per quella giovane donna dal cappotto bianco.
Quando
l'aveva persa di vista il giorno prima, era andato via con un'alzata di spalle
e un pazienza mormorato a bassa voce, ma il ricordo di quel bel viso triste gli
aveva fatto compagnia per il resto della giornata.
Quel
viso gli era tornato in mente non appena si era svegliato il mattino dopo. Si
sentiva un idiota, ma aveva preso la funivia per l'isola con la speranza di
incrociarla di nuovo.
Ciò
non accadde e dopo due ore d'attesa alla stazione stava perdendo le speranze,
quando la vide arrivare.
Aveva
lo stesso foulard rosa intorno al collo e lo stesso cappotto bianco dal quale
però adesso si intravedeva l'orlo di una gonna blu indossata con delle calze
scure e degli stivali dal tacco basso. Camminava a testa bassa e con passo
svelto, con la stessa espressione triste del giorno prima. Si fermò accanto
alla ringhiera vicino alle porte rosse della fermata e attese l'arrivo della
cabina.
Thomas
la guardò per tutto il tempo senza che lei se ne accorgesse, assorta nei suoi
pensieri. Salirono entrambi e occuparono gli stessi posti del giorno prima, lei
seduta in un angolo, lui in piedi appoggiato al corrimano. Un uomo anziano andò
a sedersi accanto alla donna e le parlò. Lei sorrise e annuì, rispondendo
qualcosa. Thomas non sentì cosa si dissero ma quel sorriso lo colpì come un
pugno.
Quando
scesero a Manhattan, non ebbe il coraggio di fare nient'altro se non seguirla
con gli occhi finché non scomparve dalla sua vista.
Che
gli prendeva? Perché si sentiva così? Era solo una bella donna. Affondò le mani
nelle tasche del cappotto e s'incamminò verso il centro.
La
pistola era rimasta chiusa nel cassetto della scrivania.
***
Era
solo una bella donna, ma la mattina successiva Thomas tornò a Roosevelt Island,
intenzionato a scoprire di più su di lei. Ancora una volta la fortuna lo
assistette ma in modo diverso. La vide scendere dalla cabina in arrivo da
Manhattan mezz'ora dopo di lui, s'incamminò lungo la Main St. e Thomas la seguì
con discrezione.
Aveva
avuto il sospetto che fosse diretta all'ospedale per malattie croniche
dell'isola e non fu sorpreso quando la vide dirigersi proprio in quella
direzione. Thomas capì che il motivo della sua tristezza era là dentro, forse
un genitore gravemente malato. Gli parve di rivedere se stesso quando quindici
anni prima andava a trovare suo padre in ospedale, con la speranza che guarisse
ma la consapevolezza che si stava spegnendo. Non gli sembrò il caso di
spingersi oltre e tornò indietro.
L'uomo
attese alla stazione funicolare per due ore prima di vederla tornare. Decise di
non salire sulla cabina e la lasciò andare via senza seguirla. Prese la
metropolitana e tornò ai suoi problemi. Per ben due giorni se ne era quasi
dimenticato grazie a lei, ma era tempo di dimenticare quella donna.
Tuttavia,
Thomas non riusciva a dimenticarla.
C'era
qualcosa in quella giovane donna che lo attraeva oltre ogni logica. L'aveva
vista soltanto due volte, non le aveva nemmeno parlato, eppure continuava a
pensare a lei. Non era un liceale che si infatuava di ogni bella ragazza che
vedeva, ma quella aveva tutta l'aria di essere un'infatuazione irrazionale nei
confronti di una sconosciuta.
Alla
sua età poi, era da stupidi. Però lo faceva sentire meglio e per inseguire
quella sensazione di benessere, tornò a Roosevelt Island ancora una volta,
deciso a parlarle.
Non
sapeva ancora con che scusa, ma lo avrebbe fatto. Lei doveva essere arrivata
molto presto, perché al contrario del giorno prima, la rivide sulla via del
ritorno poco dopo essere arrivato sull'isola.
Col
bavero del cappotto stretto al collo e lo sguardo basso, camminava a passi
rapidi, nervosi. Gli passò praticamente accanto ma non lo guardò, dirigendosi
verso le porte rosse della cabina.
Thomas
la seguì salendo subito dopo di lei e ognuno riprese il proprio posto. La
sicurezza con la quale era andato lì quella mattina stava scemando, non gli
sembrava più una buona idea parlarle, sembrava così chiusa e distante che era
certo che non gli avrebbe dedicato neanche un minuto della sua vita. Arrivarono
a Manhattan in meno di dieci minuti e lei non aveva mai alzato lo sguardo,
sempre fisso sulla propria borsa poggiata sulle gambe. Le porte della cabina si
aprirono e i passeggeri defluirono all'esterno. La ragazza si alzò quasi per
ultima e si diresse verso l'uscita.
Thomas
era lì vicino e continuò a seguirla con gli occhi, finché arrivata a pochi
passi da lui, lei lo guardò. I loro sguardi si incrociarono per non più di tre
secondi, ma furono sufficienti a mostrargli gli occhi più belli che avesse mai
visto. Realizzò che non era mai riuscito a vederli davvero e ne restò
folgorato. La giovane proseguì per la sua strada e sparì tra la folla. Thomas
si pentì di non averla fermata.
Contravvenendo
a quanto si era ripromesso, quella sera raccontò a Patrick della donna
sull'isola.
Dopo
averlo ascoltato in silenzio, il suo amico lo fissò sconcertato per alcuni
istanti, poi gli sorrise. «E perché non le parli? Ti sei dimenticato di come si
attacca bottone?» gli domandò sornione.
Thomas
scosse il capo. «Non penso sia il caso» disse, «ho una montagna di problemi...
non ho tempo per le donne.»
«Beh
se me ne stai parlando, vuol dire che un po' di tempo l'hai trovato amico mio.
E se vuoi un mio parere, credo che una donna sia proprio quello che ti ci vorrebbe.»
«Onestamente
non penso molto al sesso negli ultimi tempi» confessò Thomas portandosi la
bottiglia alle labbra per berne un sorso.
In
realtà prima di vederla tutto quello a cui pensavo era piantarmi una pallottola
in testa, avrebbe voluto aggiungere.
«Non
mi riferisco a quello, Tom» obiettò Patrick con calma. «Io parlo di una
compagna.»
«Sono
ancora sposato.»
«E
quindi? Lo sei per la legge, ma sappiamo che non lo sei davvero e senza offesa,
non credo che tu lo sia mai stato veramente.» Patrick fece una pausa e bevve un
sorso della sua birra. «Sai che sono molto fatalista, io e mia moglie ci siamo
conosciuti perché entrambi siamo andati in un posto in cui non eravamo mai
stati prima di quel giorno, sarebbe bastato uno scarto di cinque o dieci minuti
e non ci saremmo mai incontrati. Era destino. Per cui, ti consiglio vivamente
di provarci, ora più che mai avresti bisogno di una donna al tuo fianco, magari
anche lei ha bisogno di un uomo che la sostenga, se davvero c'è qualcuno dei
suoi cari che sta male. Provaci.»
«Non
so niente di lei, potrei non rivederla più» considerò Thomas.
«Se
stai qui con me a bere, certo che non la rivedrai» replicò l'altro con un
ghigno divertito. «Devi tornare lì e farti avanti.»
«Credo
sia troppo giovane, potrebbe avere vent'anni per quel che ne so.»
Patrick
roteò gli occhi e sospirò. «Senti socio, fino a qualche giorno fa avevi una
faccia da funerale, ora non so come ma questa misteriosa ragazza in qualche
modo ti ha levato qualche demone dalla testa e personalmente lo trovo
fantastico, hai davanti a te un periodo difficile e Dio solo sa quanto ti
farebbe bene avere almeno il cuore sereno. Per cui smettila di farti tanti
problemi, prova a parlarle, chiedile un'indicazione o fingi di averla scambiata
per qualcun'altra. Magari ti renderai conto di quanto sia insopportabile e ti
passerà subito, o sarà lei a mandarti al diavolo. Oppure vi innamorerete e
diventerà la tua àncora di salvezza e chissà, tu sarai la sua.»
Thomas
fissò la sua bottiglia quasi vuota. «Non ho molta fortuna con le donne»
mormorò, «potrei imbarcarmi in un'altra situazione sbagliata. Sempre che lei mi
dia una chance.»
L'altro
annuì. «Come ti ho già detto, se non ci provi non puoi saperlo. Per il resto...
beh, nessuno ci assicura di fare la scelta giusta, in nessun campo. Ma aver
incontrato una sgualdrina di prim'ordine non significa che tutte quante le
donne lo siano. Quella è un peso massimo della categoria troie, se mi permetti
il termine. In tutta onestà Tommy, trovo difficile credere che tu sia talmente
sfortunato da trovarne un'altra.» Patrick si fermò e sembrò riflettere su
qualcosa, poi riprese. «Tutti meritano una seconda opportunità, Tom. Nel tuo
caso il primo tentativo è stato disastroso e ha creato anche danni collaterali
inaspettati, cerca di tornare a galla e ricomincia dai sentimenti. Ti conosco
abbastanza bene per sapere che non sei il tipo da infatuazione, se questa
fanciulla ti ha colpito vuol dire che ha qualcosa di speciale.»
Thomas
ripensò ai suoi occhi verdi e a quel viso stupendo e gli venne da sorridere. «È
bella» disse, «molto bella. Emana qualcosa che non so descrivere. Anche nella
sua tristezza c'era tanta bellezza... Dio, mi sento un idiota a parlare così.»
Patrick
rise e gli diede una pacca sulla spalla. «In realtà stai parlando come parlavo
io quando ho conosciuto Sabine, quindi credo sia decisamente un buon segno.»
Sperò che il suo amico avesse ragione, perché decise di seguirne il consiglio.
***
Thomas
guardò l'orologio per l'ennesima volta e scosse il capo. Era a Roosevelt Island
da quasi quattro ore, ma di lei non c'era traccia. Aveva anche percorso il
lungofiume fino all'ospedale aspettando mezz'ora almeno, senza risultato.
Mancavano pochi minuti a mezzogiorno ed era sempre più convinto che non sarebbe
arrivata. L'aveva persa e non aveva idea di dove trovarla. Non conosceva
neanche il suo nome.
Prese
la piccola rosa rossa avvolta in carta dorata dall'interno del cappotto e la
guardò accigliato. Perché l'aveva comprata? Era una cosa così stupida e
scontata, ma soprattutto fuori luogo. Non era normale regalare rose così a
caso, lei l'avrebbe trovato sicuramente inopportuno.
Ma
passando davanti a un fioraio non aveva resistito, l'idea di fare qualcosa di
diverso nella sua vita, come comprare una stupida rosa da cinque dollari per
una ragazza che non conosceva, gli aveva dato una piccola scarica di
adrenalina.
Magari
non gliel'avrebbe nemmeno data ma l'aveva presa e l'aveva tenuta nella tasca
interna per quattro lunghe ore. Il calore del suo corpo e i suoi movimenti
l'avevano rovinata.
Poco
male, tanto lei non sarebbe arrivata.
Sospirò
e rimise il fiore al suo posto. Decise di fare un'altra prova e s'incamminò
verso l'ospedale. Entrò e chiese all'accoglienza se per caso avessero visto
passare una giovane donna con un cappotto bianco e un foulard rosa. Era l'unica
indicazione che poteva fornire.
L'impiegata
lo guardò con curiosità ma rispose di no. Amareggiato Thomas uscì dall’ospedale
e aspettò fuori per un'altra ora almeno, poi decise di lasciar perdere
definitivamente. Solo allora si rese davvero conto di quanto tutta quella
faccenda fosse un'enorme cazzata. Ma che gli era saltato in mente?
Nemmeno
a sedici anni avrebbe fatto una cosa del genere, doveva essere colpa dell'esaurimento
nervoso che gli avevano riscontrato in ospedale qualche mese prima, non c'era
altra spiegazione.
Aveva
anche dato retta a quell'altro stupido di Patrick.
Nonostante
si sentisse un idiota andò al faro, come il primo giorno in cui l'aveva vista.
Sperò di trovarla lì, ma sapeva che non sarebbe successo. Si pentì amaramente
di non averla avvicinata il giorno prima, o quello prima ancora... non avrebbe
dovuto soltanto guardarla da lontano come uno stupido, restandone alla larga
quasi ne avesse paura. Tirò fuori la rosa che aveva comprato e se la rigirò in
mano. Accennò un sorriso nonostante l'avvilimento e pensò che quella storia era
iniziata con una pistola in tasca e finiva con una rosa in mano.
Lanciò
il fiore in acqua e lo guardò galleggiare per un po', finché non sparì. Poi
tornò a Manhattan, in metropolitana.
Nei
giorni successivi tornò ancora sull'isola ma restò per sempre meno tempo, fino
ad arrendersi e smetterla di cercarla. Se esisteva davvero il destino, quello
era un chiaro segno che quella giovane donna non faceva parte del suo.
Continuò
a pensare a lei per settimane pur non cercandola più e quel pensiero in qualche
modo lo aiutò ad andare avanti, anche se non sapeva perché.
Della
pistola invece, se ne dimenticò.
1
Manhattan,
New York.
Settembre
2014.
Thomas
Foster appose l'ultima firma con gesti nervosi e riconsegnò il fascicolo alla
segretaria. «Grazie e per favore, non mi passi nessuna telefonata» le
raccomandò.
La
donna annuì e si ritirò senza aggiungere altro. Era una richiesta piuttosto
stupida, pensò l'uomo, difficilmente qualcuno avrebbe telefonato se non per
questioni spiacevoli come solleciti di pagamento, ma gli uffici erano già per
lo più chiusi a quell'ora. Lo sapeva anche la signorina Hill ma era troppo
professionale per far anche solo trasparire i suoi pensieri. Un grande aiuto
quella pacata donna di mezz'età, con i suoi tailleur sobri e i capelli corti
lasciati grigi.
Avrebbe
certamente trovato presto un altro impiego.
Thomas
smise di tormentare la penna e si alzò dalla poltrona facendola cigolare
leggermente. Raggiunse l'angolo bar accanto alla porta, prese uno dei bicchieri
di cristallo e si versò del bourbon di ottima qualità.
Attraversò
di nuovo la stanza e si fermò di fronte a una delle enormi finestre
rettangolari fissando lo sguardo su Central Park. Da lassù sembrava quasi una
piccola giungla, ma non era che una lingua d'erba in una bocca di cemento. Una
volta suo padre l'aveva definito quel che resta del vero mondo e non aveva tutti
i torti, sembrava davvero sul punto di essere inghiottito dai grattacieli.
Scacciò
il pensiero di suo padre e sorseggiò dal suo bicchiere contemplando il
panorama, il tramonto inondava di una calda luce arancione tutto il mondo fuori
dalla finestra, mentre lentamente lasciava dietro di sé un mare più scuro. Nel
cielo si stavano addensando alcune nuvole grigie che minacciavano di pioggia
quella sera appena iniziata.
Thomas
aprì la finestra e l'aria stranamente già fresca di settembre lo colpì in
faccia, facendogli chiudere gli occhi. Restò così per alcuni minuti, respirando
quello strano e pungente odore di terra e acqua che preannuncia l'arrivo della
pioggia.
Lo
stesso odore che impregnava l'aria quel giorno di tanti anni prima.
Manhattan,
New York.
Marzo
1994.
Mancavano
cinque giorni all'arrivo della primavera, eppure non era sembrata mai così
lontana. I tuoni in lontananza annunciavano un temporale imminente, l'aria
intorno ai presenti si era fatta umida e pesante, intrisa di quell'odore pungente
e fastidioso. La funzione che sembrava non finire mai rendeva tutto più
difficile.
Un
giovane uomo alto ed elegante, dai lineamenti nordeuropei e l'espressione
severa, stringeva un mazzo di margherite bianche e gialle fissando l'erba corta
davanti ai suoi piedi. Stringeva talmente tanto quei poveri fiori che la
clorofilla aveva iniziato a bagnargli il palmo di una mano rendendolo
appiccicoso.
Sua
madre lo avrebbe rimproverato dicendogli che gli ospiti nello stringergli la
mano avrebbero pensato che fosse sudata o sporca. Lui le avrebbe risposto che
gliene importava molto poco di ciò che avrebbero pensato gli altri,
specialmente in quella situazione. Ma non sarebbe successo, sua madre nuotava
in una valle di lacrime e non lo avrebbe notato nemmeno se si fosse presentato
nudo. E poteva capirla, anche se lui stava reagendo in modo diverso.
Perché
Thomas Foster non era ancora riuscito a piangere, nemmeno una lacrima era scesa
dai suoi occhi stanchi. Eppure era stato il primo a ricevere la notizia, anzi a
vivere quel momento in prima persona, due giorni prima, quando suo padre era
morto consumato da una malattia che non gli aveva dato tregua e che se lo era
portato via troppo in fretta.
Thomas
era entrato nella sua stanza di ospedale giusto in tempo per cogliere il suo
ultimo sguardo; era rimasto a guardarlo pietrificato, mentre dottori e
infermiere si affannavano nell'inutile tentativo di rianimarlo. Jeffrey Foster
si era spento davanti ai suoi occhi, abbandonandolo nello spazio di un respiro,
ma non era ancora riuscito a piangere. Sua madre e sua sorella invece non
facevano altro da quarantotto ore, fiumi di lacrime e profonde occhiaie
segnavano i loro visi pallidi e smagriti.
Nicole
aveva quindici anni ma quel giorno ne dimostrava al massimo dodici. Seduta su
una delle decine di scomode sedie in legno con la testa reclinata sulla spalla
della madre, singhiozzava con gli occhi chiusi mentre sua madre Vanessa fissava
la bara con occhi velati, persa in chissà cosa. Era la prima volta che Thomas
vedeva sua madre meno curata del solito, con addosso un anonimo tailleur nero
senza fronzoli e un paio di scarpe scure senza tacco, non aveva nemmeno lo
smalto sulle unghie. Non era da lei, sempre impeccabile anche tra le mura
domestiche, con quel perenne cipiglio altezzoso da signora dell'alta società.
Povera donna, pensò con compassione, doveva avere una voragine nel cuore se non
aveva trovato la forza nemmeno di acconciarsi i suoi amati capelli biondi come
al solito.
Il
giovane si mosse a disagio, chiedendosi quanto ne avesse ancora quel pastore.
Perché poi un pastore protestante? Suo padre era cattolico, Thomas era certo
che avrebbe avuto da ridire ma non gli era sembrato il caso di intromettersi
nella scelta di sua madre. E in fondo non avrebbe fatto nessuna differenza, suo
padre non sarebbe tornato in ogni caso.
Non
vedeva l'ora che quella cerimonia finisse anche se il pensiero della
processione delle condoglianze che sarebbe iniziata in seguito gli faceva
venire voglia di scappare via. Si preparò ad ascoltare i soliti “che grande
perdita” e “era un uomo eccezionale”. Parole vuote che sarebbero arrivate da
persone che nemmeno lo conoscevano davvero suo padre. E intanto ne avrebbero
approfittato per tastare il terreno. Ora sarebbe ricaduto tutto sulle sue
spalle e volevano vedere quanto ci avrebbe messo a mandare tutto in malora.
Strinse
più forte quel dannato mazzo di fiori – Jeff odiava i fiori, comunque – e fu
tentato di gettarlo a terra e pulirsi la mano sulla giacca, quando finalmente
il sermone finì e i funzionari delle pompe funebri si prepararono a calare il
feretro nella terra. Vanessa e Nicole si alzarono e lo affiancarono, la ragazza
si appoggiò al fratello con un singhiozzo e lui le circondò le esili spalle con
un braccio. «Basta piangere, piccola» le sussurrò lui per poi baciarla sulla
tempia. Sua madre emise un sospiro strozzato, con le labbra serrate diventate
una linea bianca e lo sguardo sempre più vacuo. Non disse una parola mentre suo
marito spariva per sempre, ma Thomas era certo che in lei qualcosa si fosse
spezzato.
Quando
tutto finì il giovane erede del fu Jeffrey Foster dovette sorbirsi le previste
lamentazioni da parte di amici, conoscenti e qualche specie di parenti, condite
da pacche sulle spalle e baci di attempate signore sinceramente dispiaciute – o
almeno così sembravano – anelando disperatamente il momento in cui sarebbero
tornati a casa e lui avrebbe potuto starsene un po' da solo col suo dolore
pietrificato al centro dell’anima.
L'unica
persona di cui avrebbe veramente apprezzato il conforto non era presente.
Patrick Bennett, il suo più caro amico, era fuori città e non era riuscito a
tornare in tempo per il funerale.
Idiota
di un irlandese, pensò con malinconica ironia.
«Tom!»
si sentì chiamare.
Si
voltò e con sua sorpresa, vide Patrick arrivare di corsa. «Oh amico... » fu
tutto quello che l'altro gli disse prima di stringerlo in un abbraccio sincero.
E per la prima volta da quando tutto era iniziato, Thomas si sentì sul punto di
scoppiare a piangere. Riuscì a trattenersi e sciolse l'abbraccio con l'amico.
«Perdonami,
non sono riuscito a venire prima» si scusò Patrick stringendogli le spalle.
Avevano la stessa età ma in quel momento Thomas era certo di sembrare dieci
anni più vecchio. «Non preoccuparti» rispose sospirando. «È successo tutto così
in fretta… apprezzo molto che ti sia precipitato qui appena hai potuto.»
«Era
il minimo che potessi fare, Tom. Non puoi immaginare quanto mi dispiaccia»
continuò addolorato, «Jeffrey era un uomo in gamba...»
Thomas
annuì serrando le labbra. «Sì, lo era molto.»
Patrick
sospirò e gli diede una pacca sulla spalla prima di raggiungere Nicole e
Vanessa per stringerle in un abbraccio sincero.
Come
se tutto il resto non bastasse, iniziò a piovere.
Quando
finalmente tornarono a casa, Thomas andò in quello che era stato lo studio di
suo padre, richiuse le porte scorrevoli dietro di sé e si abbandonò al dolore
realizzando, forse davvero per la prima volta da quando era successo, che suo
padre era morto. Li aveva lasciati per sempre e aveva lasciato enormi
responsabilità sulle sue spalle. Non ce l'avrebbe fatta, era troppo per un
giovane di neanche ventisette anni. Si sentiva schiacciato, non era ancora
pronto per quello, avrebbe fallito.
Il
piccolo impero che suo padre aveva con coraggio e fatica costruito dal nulla
sarebbe crollato miseramente per colpa sua. E gli avvoltoi sarebbero planati a
terra per cibarsi di quel che restava.
Nascose
il viso tra le mani e finalmente pianse.
Jeffrey
Foster era stato un uomo che si era fatto da solo. Non aveva ereditato nulla
dalla sua famiglia se non un piccolo gruzzolo che con intelligenza aveva saputo
investire nell'affare giusto. Così nei primi anni Sessanta aveva rilevato un
hotel a Long Island di proprietà di un tizio sull'orlo del fallimento e l'aveva
risollevato facendolo diventare in pochi anni uno dei migliori dell'isola.
Da
allora non si era più fermato, avviando altri due importanti strutture a Staten
Island e a Manhattan, dove aveva aperto un resort sulla Park Avenue.
Era
lì che Thomas si era diretto alcuni giorni dopo il funerale del padre, perché
era suo dovere portare avanti l'attività di famiglia, ora toccava a lui fare in
modo che tutto andasse bene come succedeva con Jeff al comando, anche se ciò lo
spaventava a morte.
Ma
non aveva scelta, troppe persone dipendevano da lui adesso, a partire da sua
madre e sua sorella per finire al più piccolo dipendente dei loro alberghi.
Era
giovane, inesperto e spaventato, ma doveva farlo. Fino a quel momento Thomas
era stato il contabile per il Foster Inn Resort, sfruttando la sua laurea in
economia aziendale, così quella mattina aveva deciso di finire una
rendicontazione lasciata in sospeso. Richiuse un fascicolo dopo averne firmato
l'ultimo foglio e imprecò all'ennesimo squillo del telefono. Era almeno la
quinta telefonata che riceveva in due ore, di sicuro erano altre condoglianze e
stava diventando pesante.
«Foster»
rispose sintetico, avvertendo di nuovo quella stretta allo stomaco.
Era
suo padre a rispondere sempre così a quel telefono.
Dall'altra
parte la voce roca di un uomo che sembrava anziano, ma che non lo era. «Ehi
Tommy, sono zio George... »
Cazzo,
imprecò mentalmente il ragazzo. George Steward non era suo zio, aveva sposato
la sorella di suo padre in seconde nozze solo sei anni prima e pretendeva di
essere chiamato così. «Ciao, zio George» lo salutò cercando di apparire
cordiale, «che sorpresa. Cosa posso fare per te?»
George
emise un suono che sembrò una specie di sospiro. «Questo dovrei essere io a
chiederlo a te, figliolo» cantilenò in tono mellifluo. «L'altro giorno, al
funerale, stavate molto male e volevo sapere se avete bisogno di qualcosa. Sai
tua zia è molto preoccupata.»
Figliolo?
Zio George non aveva neanche quarant'anni – e sette meno di sua moglie – e cosa
più importante, prima del funerale non si erano più visti dal Ringraziamento di
cinque anni prima e ben poche volte negli anni precedenti.
Quella
telefonata puzzava di marcio. «Ti ringrazio... zio, ma stiamo bene. Dì a zia
Judy che non deve preoccuparsi, va tutto bene.»
«Ma
ora sei rimasto solo alla guida dell'attività di famiglia» lo incalzò l'uomo,
«e in un momento molto triste. Se hai bisogno di aiuto o sostegno, non hai che
da chiedere.»
Thomas
si morse l'interno della guancia per impedirsi di dirgli che era un coglione e
sua moglie una stronza egoista. «Per ora va bene così» gli assicurò ancora una
volta, «ma se avessi bisogno della tua preziosa consulenza, non esiterò a
richiederla.»
«Colgo
una vaga ironia nella tua risposta.»
«Coglici
quello che vuoi, zio. Ora scusa ma ho da fare. Grazie per la telefonata e
salutami tua moglie» riattaccò senza aspettare risposta.
Il
primo avvoltoio che plana sulla carcassa, pensò Thomas. Esattamente come aveva
previsto. Si passò una mano tra i capelli e sospirò, aveva voglia di una
sigaretta e un bicchiere di whisky, del più forte. Qualcuno bussò alla porta e
Thomas lo invitò ad entrare. Patrick Bennett fece capolino con un mezzo
sorriso. «È permesso?»
«Che
domande fai? Ovvio che sì, entra» fece Thomas alzandosi dalla poltrona.
Il
suo amico lo raggiunse e dopo avergli stretto la mano, si lasciò cadere sulla
poltrona di pelle nera.
«Allora,
come va?» gli domandò sbottonandosi la giacca, mentre l'altro si dirigeva verso
l'angolo bar.
Thomas
si strinse nelle spalle versando del bourbon in due bicchieri di cristallo.
Tornò alla scrivania e ne porse uno a Patrick. «Va, più o meno» rispose
sedendosi sul bordo della scrivania, «sto cercando di finire il lavoro che
stavo svolgendo prima, poi aspetterò la lettura del testamento e subito dopo mi
metterò al lavoro. Per ora qui gestisce tutto il vicedirettore.»
«Bene.
Il testamento non dovrebbe rivelare delle sorprese, no?»
Thomas
ci rifletté su un momento, poi scosse il capo. «A meno che non spunti un figlio
segreto, non penso» rispose ironico, «me ne aveva parlato tempo fa e non mi
risulta che abbia cambiato qualcosa in seguito. Ha lasciato tutto in ordine. Se
mai» continuò corrucciato, «potrei avere delle rotture di palle da alcuni
parenti... »
Patrick
inarcò le sopracciglia. «Qualcuno in particolare?»
«Poco
fa mi ha telefonato zio George. Voleva offrirmi il suo aiuto, nel caso non ce
la facessi da solo.»
«Zio
George» gli fece eco Patrick ridacchiando. «Che coglione di prima categoria.»
Il giovane bevve un sorso dal suo bicchiere e lo poggiò sul tavolino prima di
riprendere a parlare. «Temi che possa avere da ridire durante la lettura del
testamento? Ma se non è nemmeno un familiare!»
«Già,
ma sua moglie sì. Judy e papà non andavano molto d'accordo ultimamente, non
credo le abbia lasciato qualcosa e sappiamo tutti che George Steward se l'è
sposata pensando di poter entrare nei nostri affari, magari come braccio destro
o qualcosa del genere. Quando scoprirà che a sua moglie non spetta nemmeno una
scatola di cioccolatini, potrebbe incazzarsi e darmi fastidio. Sai, quelle cose
odiose come impugnare il testamento... non voglio pensarci» mormorò Thomas
bevendo un lungo sorso.
«Ma
figurati! Tuo zio George è un pallone gonfiato. Ha rilevato un ristorante
giapponese solo per farsi notare, ma poi ha mollato la gestione ad altri perché
non è capace di fare un cazzo. Non preoccuparti di lui. È innocuo» lo rassicurò
Patrick, «la sua telefonata è solo la prova di quanto sia imbecille, come se
non lo sapessimo già. Basta pensare a quel cazzo di riporto in testa che cerca
di spacciare per capelli veri. Basta un colpo di vento e si trasforma in un
moicano.» Scoppiarono a ridere entrambi e per il giovane Foster fu una
liberazione. Poi Thomas avvicinò il bicchiere a quello dell’amico e diede un
leggero colpetto, facendoli tintinnare.
«Ho
un po' paura, Pat» ammise dopo qualche momento di silenzio. «Non so se sarò in
grado di farlo, non ero preparato. Continuo a ripetermi che ce la farò, ma non
lo so. Ho sempre pensato che mio padre si sarebbe ritirato verso i settant'anni
o giù di lì, nel frattempo io mi sarei preparato, avrei accumulato esperienza e
sicurezza.»
L'altro
annuì pensieroso. «Lo immagino» disse, «non ti nego che sarei spaventato
anch'io, anzi io mi spavento per meno. Ma Jeffrey era l'uomo più in gamba che
io abbia mai conosciuto, riusciva a capire le persone e se non ti avesse
ritenuto all’altezza non ti avrebbe lasciato nulla. Non si sarebbe preoccupato
del fatto che eri suo figlio e tu lo sai. Quindi, qualcosa mi dice» Patrick
svuotò il suo bicchiere con un lungo sorso, «che ce la farai alla grande.»
Thomas
abbozzò un sorriso. «Spero tu abbia ragione, lo spero davvero. Posso contare su
di te, vero?»
«Non
c'è nemmeno bisogno di chiederlo. Ci sarò come amico e come legale, se ne avrai
bisogno. Anche se i mastini che assistevano tuo padre mi sembrano…»
«Non
mi piacciono» lo interruppe Thomas, «non mi sono mai piaciuti e l'antipatia è
reciproca. Una delle prime cose che farò sarà proprio togliermi dai piedi quei
due ruffiani. Vorrei che fosse lo studio per cui lavori a rappresentare la
Foster Hotels & Resorts.»
Patrick
sorrise e si alzò per riempire di nuovo il bicchiere. «Sarà un piacere amico,
faremo del nostro meglio per pararti il culo!»
«Lo
spero, altrimenti prenderò a calci il tuo» lo minacciò l’altro.
«Lo
terrò a mente» rispose Patrick ridendo.
«Grazie
Pat, per tutto.»
«Di
niente, sono felice di poterti aiutare.»
Squillò
di nuovo il telefono e Thomas chiuse gli occhi per un attimo prima di
avvicinarsi e rispondere. Questa volta era sua madre che gli chiedeva se
sarebbe tornato a casa per pranzo.
«Ho
perso il conto delle telefonate» si lamentò una volta che ebbe riattaccato,
«non ne posso più.»
«A
tal proposito, ma la segretaria dov'è?» gli domandò Patrick.
«È
andata in pensione e mio padre non ha fatto in tempo ad assumerne un'altra.
Dovrò fare anche questo o mi faranno impazzire.»
«Sì,
decisamente» convenne Patrick, «se allo studio non avessimo Robin diventeremmo
pazzi. Come sta tua madre?»
L'altro
si strinse nelle spalle. «Piange. E tra un pianto e l'altro si tiene occupata
con le sue piante esotiche che cerca di salvare. Nicole invece se ne sta sempre
chiusa in camera sua, non va a scuola da giorni e glielo lasciamo fare, almeno
per un po'.»
«Mi
dispiace molto, spero che si riprendano presto. Serve del tempo Tom, a tutti
quanti voi. E ce la farete.»
Thomas
annuì sorridendo, probabilmente Patrick aveva ragione, era solo questione di
tempo.
Riaprì
gli occhi mentre i ricordi svanivano e guardò giù. Provò una leggera vertigine
ma niente di terribile.
Si
domandò cosa si provasse a lanciarsi nel vuoto.
***
Thomas
chiuse gli occhi un attimo prima di entrare in acqua. Si immerse e nuotò
sott'acqua per qualche metro prima di riemergere a respirare. Era una piscina
privata, solo chi alloggiava nelle suite di lusso poteva accedervi ma visto che
Thomas era l'unico a occuparne una in quel momento, non c'era nessun altro che
potesse disturbare la sua quiete.
Tutte
libere tranne la sua.
Quella
constatazione lo spinse a immergersi di nuovo.
Nuotò
fino all'altro lato della vasca, riemerse per alcuni secondi e sparì nuovamente
sott'acqua, tornando indietro e ricominciando daccapo per altre cinque volte
prima di sentirsi stanco.
Uscì
dalla piscina, indossò l'accappatoio abbandonato su uno dei lettini di vimini e
dopo aver fatto una rapida doccia per levarsi di dosso il cloro dell'acqua, si
rivestì e tornò nel suo appartamento attraverso l'accesso privato. Quando aprì
la porta trovò delle lettere a terra, le recuperò e le buttò su un mobile. Si
rese conto di essere in ritardo e iniziò a spogliarsi avanzando verso il bagno.
Si
fermò davanti allo specchio sul lavandino e decise di non radersi ancora. Gli
sembrava che la barba incolta lo aiutasse a nascondere un po' della sua
stanchezza e anche qualche anno.
Quarantasette
erano tanti e iniziavano a pesargli.
Fece
una doccia calda e tornò in camera da letto, si rivestì indossando un completo
blu scuro su camicia bianca e annodò la cravatta.
Il
suo cellulare vibrò sul comodino ma lo ignorò, sospettava di sapere chi fosse e
non aveva la pazienza necessaria per parlarle in quel momento. Prese il pettine
e cercò di disciplinare quei capelli che, nonostante il taglio corto, cercavano
sempre di arricciarsi dandogli ai nervi.
Forse
dovrei tagliarli ancora più corti, pensò spazientito quando alla fine riuscì a
sistemarli. Si guardò allo specchio e il suo riflesso gli mostrò un uomo stanco
ma tutto sommato presentabile, così raddrizzò per un’ultima volta il collo
della camicia prima di indossare l'orologio e lasciare la camera.