The Pandora's Travel

di Gagiord
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I due si scambiarono un'occhiata fugace, ma preoccupata. Sembrava stessero comunicando telepaticamente, come se fossero indecisi su cosa dirle.
Lei assunse un'espressione confusa, e, inarcando un sopracciglio, richiese risposta.
"Ecco..." cominciò Ayame, torcendo nervosamente le mani sul grembo.
Perché, si chiese la giovane, era tanto inquieta? Aveva fatto una semplice domanda, no?
"Non lo sappiamo neanche noi" terminò Takashi, volgendo lo sguardo a terra.
La ragazza sgranò gli occhi, sgomenta. Non solo lavoravano per un estraneo, ma non sapevano nemmeno per cosa lavoravano. Ed il senso dov'era? Era un'azione illogica ed irrazionale, quella. Percepì la rabbia montare dentro di lei, ma tentò di reprimerla e non esprimerla.
"Si dice che si creerà una medicina per tutte le malattie" si affrettò ad aggiungere la bionda, ancora agitata.
Aoko aggrottò la fronte, affilando gli occhi. "Si dice"? E chi poteva darle la conferma? Passò lo sguardo a Sugimoto, che, intanto, aveva cominciato a sudare.
"O una soluzione alle guerre." Iniziò a tremargli una gamba, provocando un ticchettio sul pavimento di quarzo bianco.
"Perché siete così nervosi?" Era meglio essere schietta, aveva deciso. Non doveva fare giri di parole, voleva solo sapere.
I colleghi si guardarono un'altra volta negli occhi, per poi rivolgerli alla più piccola.
"È una lunga storia, tesoro..." provò Sakura, ma la ragazza aveva tutte le intenzioni di estorcere loro quelle informazioni.
Incrociò le braccia sotto al seno, raddrizzandosi sulla poltrona. "Raccontamela. Abbiamo tutta la sera, non c'è fretta." Il suo tono era gelido e pungente, e fece deglutire la sua interlocutrice. Ma come biasimarla, del resto? Aveva il diritto di apprendere. Era stanca di dover essere trattata come un burattino per soddisfazioni di qualcuno a lei del tutto sconosciuto.
La donna cercò conferma nello sguardo dell'amico, che annuì, mesto.
"Hai ragione" asserì lui, fissando gli occhi piccoli e marroni in quelli grandi e blu di lei. La viaggiatrice resse il confronto, alzando il mento. "Riguarda tutto il capo, o Boss, o come lo vuoi chiamare."
Aoko s'interessò subito: poteva finalmente venire a conoscenza di chi si nascondeva dietro quel nome, quel semplice sostantivo che troppo spazio lasciava all'immaginazione.
"In realtà, non potrei nemmeno dirlo" proseguì lui, inspirando ed espirando con flemma.
La piccola emise un'esclamazione di stupore. Perché lui non poteva pronunciarsi? Perché lei non poteva sapere? "E... Il motivo?"
Lui e la collega si guardarono un'altra volta negli occhi, ma lei cominciava a stizzirsi. "Allora?" continuò, testarda, a domandare.
Takashi rilasciò un profondo sospiro, capitolando. "Va bene. È... una cosa che è stata detta solo a me, Ayame, Hiro, Iwao e, ovviamente, Katashi."
Aoko assottigliò gli occhi: ovviamente? Cosa c'era di ovvio? Tuttavia, decise di non interromperlo: non voleva perdere altro tempo, e non sapeva se lui, una volta disturbato, potesse cambiare idea. Semplicemente, preferiva non rischiare.
"Da ormai tempo, si pensa - o meglio, ce l'ha fatto credere lui" continuò. Un'altra cosa era quindi appurata: il capo era un maschio, "che il risultato di tutta questa fatica sia, appunto, un rimedio per tutti i mali."
La viaggiatrice annuì, con un'espressione perplessa dipinta in volto: non gliel'avevano già detto?
"Ma, qualche giorno fa, poco prima che arrivassi tu, Katashi portò qui una lettera, scritta dal capo in persona." Sospirò un'altra volta, sebbene ora sembrasse più indispettito che rassegnato. "Purtroppo non l'ho a portata di mano: la tiene sempre Hiro. Ma va be', penso che mi crederai, no?"
Aoko mosse nuovamente la testa in consenso; dopotutto, come poteva non credergli? Aveva udito e visto le cose più assurde, in quei giorni. Forse, non sapeva nemmeno più cosa significava "scetticismo".
"Ecco... Abbiamo trovato due lettere, dentro quella busta, non solo una. E l'altra, quella non scritta dal capo, diceva cose... strane."
La mora, a quelle parole, si accigliò, esortandolo a continuare.
Ayame, viceversa, sembrava del tutto estranea alla discussione: non li guardava, non li ascoltava, non si sentivano nemmeno i suoi respiri. Continuava a guardare i propri piedi, con i pensieri che vagavano lungi da quella realtà. Riusciva solo ad avvertire un brutto presentimento: come se, solo riferendo quelle parole alla ragazza, avesse potuto scoprirsi in pericolo.
"Come... 'Non fidatevi di lui' o 'Non c'è nessuna panacea'. Cose così, insomma." Si grattò distrattamente la nuca. "Però non sappiamo chi l'abbia mandata. La grafia non ci dice nulla, però sembra molto più - come dire?... grossolana, per gli standard del diciottesimo secolo." Giunse le mani in grembo, fissando intensamente la giovane dinanzi a lui.
"E quindi?" lo incalzò, spazientita.
"E quindi si pensa che sia... una persona che ha usato il meridian" concluse, austero e secco.
Aoko ragionò qualche attimo, collegando tutti gli indizi e cominciando a formulare ipotesi; non poté che restare sensibilmente amareggiata quando giunse ad un esito: stavano accusando lei.
Storse il naso ed arricciò le labbra, senza, però, pronunciarsi.
Lui parve aver capito cosa balenava nel cervello della ragazza, e alzò una mano, come a volere bloccare quei pensieri. "Non ti stiamo puntando il dito contro, Aoko."
Lei lo interruppe subito, sbuffando, e simulò una risata. "Ah, no? Perché - guarda un po' - mi hai fatto capire così."
L'uomo assunse un aspetto misericordioso, quasi volesse scusarsi. Provò a sorriderle, ma gli uscì solo un riso sghembo e forzato. "No, non è così" obiettò, scrollando il capo in senso di diniego. "Potresti essere tu, in un futuro, come potrebbe essere lo stesso Katashi."
L'altra poggiò un gomito sul bracciolo della poltrona di pelle, collocando la sua guancia destra sul pugno chiuso. "Non avete prove."
Lui ridacchiò. "Dovremmo forse controllare le impronte?"
Intanto, Sakura aveva alzato sia il mento che lo sguardo, sforzandosi di prestare ascolto a quel dibattito. "No!" esclamò, attirando gli occhi atterriti e sconvolti del collega e dell'amica. Era sempre stata impulsiva - proprio come Aoko -, e odiava questa sua caratteristica. Si maledì un istante dopo aver parlato; o meglio, urlato. Dannazione! Da dove le era uscita quella contestazione?
Takashi la scrutò ancora più interessato, iniziando a sospettare che potesse realmente celare qualcosa, magari conforme a quell'argomento.
"E perché?" domandò, dunque, lecitamente. 
La piccola, al contrario, la osservava con autentica curiosità, con un grande punto interrogativo - che, però, prendeva la forma di un "grazie" - ad accenderle il puerile viso. Quella sua sfaccettatura non l'aveva mai vista; era vero, conosceva Ayame solo da pochi giorni, ma le si era già affezionata: era come se fossero in armonia, come se si conoscessero da anni. Aveva anche notato delle analogie con Johanne, la quale sembrava quasi un disfemismo della bionda; quest'ultima, invece, era come un'attenuazione: meno maliziosa, ironica ma non dileggiatrice, attenta ma non indiscreta. Cionondimeno, non l'aveva mai vista nervosa, irruenta.
La giovane donna posò i palmi sulle cosce coperte dai jeans scuri, facendo pressione e stringendosi nelle spalle. Tossicchiò un po', decisamente a disagio, e si ritrovò a detestare sempre più la sua irriflessività. "Oh... ehm... Non penso che l'ispettore sarebbe d'accordo a far prelevare le impronte di sua figlia" inventò, la sua menzogna atta solo a convincere le due figure esitanti intorno a lei. "Sono sempre minorenni."
Sugimoto prese a ridere di gusto, quasi avesse appena udito la barzelletta più divertente al mondo, rimpiazzando la sua precedente tensione con puro divertimento. "Ma stavo scherzando, Ayame!" Le posò una mano sulla spalla. "Credete davvero che facessimo una cosa del genere?" chiese, rivolgendosi ad ambedue le ragazze.
L'adulta s'impegnò a sorridergli, e, restando compiaciuta di se stessa, seppe creare un perfetto e falso riso. "S-sì, scherzavo anche io..." Il suo tono, tuttavia, la tradì: era quasi tremante, flebile come quello di un malato.
L'imponente portone si disserrò proprio in quel momento, e Sakura ringraziò se stessa di essere andata a richiedere la cena: il signor Tamura sorreggeva con una sola mano - risultando più come un cameriere, che come un segretario - un enorme vassoio, avente sopra tre abbondanti porzioni di ramen di manzo.

 

Era vivo, fu la prima cosa che gli passò per la mente. Era svenuto per il dolore, probabilmente. Be', non che ora non ne sentisse, ma si era decisamente attenuato.
Provò ad aprire gli occhi, ma, appena schiusi, vide solo tanti pallini neri aleggiare davanti a lui, quindi optò per la chiusura, almeno per quel momento. Avvertì un corpo piuttosto morbido sotto il suo ancora dolente, cercando di identificarlo: era disteso su un letto.
"S-signorino? Si sente bene?" chiese una voce familiare.
Lui tentò di alzare il capo e di alzare le palpebre: fallì in entrambe. Aveva un mostruoso mal di testa, e si sentiva più pesante del solito.
"Non si deve sforzare. Deve restare a letto per almeno altri due giorni. Va bene, Konosuke?" Stavolta, era una voce del tutto estranea alle orecchie del ragazzo. Tuttavia, il proprietario sembrava essere in confidenza con il suo assistente: l'aveva appellato con il nome, e non con il cognome.
"Tieni, qua ci sono gli antidolorifici e gli antibiotici per evitare infezioni" proseguì lo stesso timbro. Non era poi così difficile da capire: era un medico.
Sentì qualche rumore, ma gli giunse smorzato. Che gli era successo? Perché si trovava lì? Non ricordava nulla; aveva solo una gran voglia di portare la mano alla testa e massaggiarla, come a voler alleviare quella greve sofferenza che gli attanagliava la mente e il corpo.
Cercò ancora una volta di aprire le palpebre, e, infine, ci riuscì, seppur lentamente. La vista era sfuocata, ornata da puntini neri e luminosi che gli impedivano di distinguere qualsivoglia oggetto gli si ponesse davanti.
"Finalmente ti sei svegliato, ragazzo."
Lui volse lo sguardo verso l'uomo che aveva appena parlato: era alto, piuttosto robusto, sulla quarantina, interamente vestito di bianco: indossava un camice. Dietro il dottore, scorse una figura più esile e bassa, riconoscendo il suo assistente. Aveva gli occhi colmi di preoccupazione, ed il suo viso era umido di sudore.
Il medico prese posto su una sedia, precedentemente posizionata al capezzale del letto. "Bene. Ora, figliolo, devi dirmi se ti fa male qualcosa e dove senti il dolore." Congiunse le mani coperte da guanti in lattice, lasciandole cadere sulle cosce.
"Dappertutto" mugugnò il moro, mentre al solo schiudersi delle mascelle gli doleva l'intero viso.
L'uomo sospirò, allungando le mani verso il corpo del giovane. Tastò piano la parte esterna della gamba destra, fasciata da innumerevoli metri di garza bianca; Kaito si trattenne a stento da urlare di dolore. Contrasse, quindi, il volto in una smorfia stramba, lasciandosi sfuggire un gemito.
"Ti fa male qui, eh?"
Il ragazzo lo mandò mentalmente al diavolo. "Già" ribadì, però, con voce rotta.
Un ricordo affiorò nella sua testa: il furto della sera prima. O almeno, pensava - e sperava - che fosse passato solo un giorno. La reminiscenza ne portò con sé altre, creando una vera e propria catena.
"Me lo aspettavo." Ritirò il palmo, raddrizzandosi sulla sedia. "Allora, ricordi qualcosa di ieri sera?"
Be', almeno gli aveva confermato che la vicenda era avvenuta proprio la notte precedente.
Lui annuì debolmente, avvertendo una nuova e straziante fitta alla testa.

"Buonasera, Kaito Kid. Oh, aspetta, vuoi forse essere chiamato Kaito Kuroba? Oppure il principe azzurro della nostra preda?"
Solo in quel momento si voltò.
"Snake." Affondò le mani nelle tasche, prendendo ancora una volta il gioiello viola. Lo estrasse, mostrandolo all'uomo che distava solo un paio di metri da lui. "Non è questa Pandora, quindi puoi andartene." La sua voce era glaciale, così come il suo sguardo, scevri di qualunque cortesia.
Il più grande sghignazzò, sollevando la mano con la pistola, puntandola al petto del mago, che non si fece, comunque, impressionare: si sapeva, lui era quasi sempre capace di mantenere il sangue freddo.
"Che c'è, Snake? Non mi credi? Controlla tu stesso." Gli lanciò la gemma, ma non prima di averla avvolta con un filo sottile, così da poterla ritirare: quell'uomo era un essere avido, e non si faceva scrupoli a rubare una qualsiasi fonte di denaro.
Il criminale l'afferrò, non sospettando minimamente del ragazzo. Poi, fece tutto ciò che Kaito non si aspettava: lasciò cadere il gioiello sul cemento del palazzo. "Ma quanto sei divertente!" ironizzò, rendendo la mente del moretto una zuppa di incertezze e paure. Fece tre passi avanti, dimezzando la distanza tra le loro sagome, e la pistola si trovò in procinto di toccare il petto tonico del suo nemico. "Ti ostini a non capire, eh?"
No, lui lo aveva capito. Eccome se l'aveva capito, forse fin troppo bene, ma non voleva realizzarlo. Sapeva a chi aveva alluso, con l'espressione "il principe azzurro della nostra preda": veniva definito in quel modo solo nei confronti di una persona.
"Cosa volete da lei?" sibilò, mentre la pazienza andava via via scemando dal suo corpo, lasciandolo incollerito e intimorito. Appunto, quasi sempre sangue freddo.
L'altro sogghignò. "Oh, non ti preoccupare: non la uccideremo, almeno per ora."
Kaito ebbe l'impressione che il suo cuore potesse uscire dallo sterno, quasi volesse andare incontro all'arma a pochi centimetri da lui. Una morsa gli strinse lo stomaco, e la sua mente si annebbiò. "Cosa volete da lei?" ripeté. Sembrava quasi un'affermazione, un ordine, per la voce con cui aveva pronunciato quelle parole, che aveva volutamente staccato con diversi respiri. "Non c'entra nulla!"
Snake rise di gusto, spiazzando il ladro. "Macché! C'entra molto più lei che tu, ragazzino."
Eccola: un'altra stilettata al cuore, la stretta gli contrasse le budella. Il suo cervello ripercorse i trascorsi dei giorni precedenti, e a ogni menzogna - perché, lo sapeva, non potevano essere altrimenti - che lei erigeva, l'espressione di dolore e fastidio si andava accentuando sul suo bel viso. Ma cosa significava? Che aveva a che fare con quei subdoli criminali? Il suo subconscio gli rispose automaticamente, ma lui ignorò tutte quelle ripugnanti opzioni che gli si presentavano.
"Spiegati meglio, Snake."
Proruppe in un'altra risata, la quale irritò smodatamente Kaito. "Perché non lo scopri da solo?" Fece una breve pausa, per poi rimuovere la pistola dal petto del ragazzo; levò la sicura, azione che al mago non sfuggì.
Aguzzò tutti i sensi, e, muovendo due saltelli indietro, si scansò. Lanciò un breve sguardo all'arma tenuta in mano dal suo antagonista, e seppe riconoscerla: Smith & Wesson M&P, sei colpi. Non riuscì ad apprendere il modello, ma era sicuro fosse piuttosto recente. Afferrò rapidamente la sua - finta - pistola dalla giacca bianca, postandola avanti a sé. Nel frattempo, l'uomo aveva preso accuratamente la mira.
Una detonazione squarciò l'aria, poi un'altra. Spari veri, però. Uno puntato al cuore del ladro gentiluomo; colpo che, però, non andò a segno. L'altro, viceversa, lo prese proprio dove il malavitoso voleva andasse a finire: un proiettile virò diritto alla coscia destra. Certo, non sembrava aver colpito l'osso, l'aveva trapassata di striscio, ma fu comunque una delle vicende più dolorose della sua intera esistenza. Dapprima non provò nulla, quasi la gamba non fosse sua; gli volle qualche secondo per capacitarsi di ciò che era appena successo. Ma come poteva essere possibile? Non aveva mai lasciato che nessuno lo ferisse, nemmeno superficialmente! Era stato capace di schivare solo la prima pallottola con un veloce saltello, ma l'altra l'aveva preso, sebbene non in un punto fatale.

Fece una nuova smorfia di sofferenza al solo ricordo.
Jii e il medico, nel frattempo, non avevano fatto che pendere dalle sue labbra.

Non riuscì a non cedere: si accasciò a terra, ma non svenì. Udì dei passi sul cemento freddo, che si stava sempre più impregnando del suo sangue, al contrario, bollente, così come i suoi pantaloni bianchissimi.
Snake, accovacciatosi alla destra del ladro che si contorceva e tratteneva stentatamente delle urla di dolore, prese a sghignazzare, quasi la figura che gli era dinanzi non fosse un diciassettenne con una pallottola nella coscia. Anzi, si dilettò anche a tastarla, quella parte ferita; stavolta, Kaito non poté fare a meno di gridare, divincolandosi ancor di più.
Respirava a fatica, e ogni secondo che passava, vedeva sempre peggio: le sagome a lui limitrofe divenivano man mano più nebulose, i suoni gli giungevano ovattati e lontani, come se stesse abbandonando gradualmente quel mondo.
"Mi piacerebbe vederti morire così," rise malvagiamente, mentre ritirava la mano ormai sporca di sangue dalla gamba dolente del mago; quelle parole gli arrivarono come uno sgradevole rumore che, tuttavia, si andava pian piano attutendo, "ma ci servi ancora." Si alzò, mantenendo il suo ghigno sprezzante. "Purtroppo - o per fortuna, decidi tu -, la mia mira è fin troppo precisa: se restassi qui, ti ci vorrebbe più di un giorno per morire dissanguato. Quindi, pivello," lo chiamò e, attirando la poca attenzione che il moretto ancora disponeva, gli lanciò un cellulare, che atterrò sul suo petto, "vedi di chiamare il tuo nonnetto."
Kaito sentì quelle parole, ma un sibilo costante gli ronzava nelle orecchie, ostacolandone la totale comprensione; gli occhi erano ormai chiusi, incapaci di vedere alcun profilo; il torace si alzava e abbassava piano, leggermente, e il senso di bruciore e gelo permaneva nel suo corpo debilitato. Non aveva mai avuto, fortunatamente, l'occasione di provare quelle sensazioni, prima d'ora: era sempre stato spavaldo, audace, privo di ogni paura - fatta eccezione per i pesci, ovviamente -, ed era sempre uscito vincente da tutte le circostanze in cui era stato implicato. Ciononostante, in quel momento, gli parve di star davvero soccombendo, spegnendosi sotto quella pressione troppo forte a cui era stato sottoposto in quei mesi per via della sua carriera apparentemente delinquenziale, dell'Organizzazione per cui nutriva odio e rancore, delle menzogne con cui era stato costretto a coesistere, senza, però, esservi in simbiosi. Ecco: per pochi attimi dubitò che potesse continuare a sostenere quell'incresciosa situazione.
L'uomo, che si era già incamminato verso l'entrata - ferrea e arrugginita - del palazzo, tuttavia, interruppe le sue deprimenti elucubrazioni. Si voltò un'ultima volta verso la figura oramai immobile, seppur non incosciente, del ladro.
"Non essere stupido, Kid: non chiamare l'ospedale o la polizia." Un'altra risata, che, disgraziatamente, gli pervenne fin troppo cristallina e tersa. Non riuscì ad udire, comunque, la porta rugginosa cigolare e sbattere alle spalle di Snake: le forze lo avevano abbandonato del tutto, lasciandolo disteso sul tetto di quel grattacielo in una posizione innaturale.

Di certo, non poteva dire di essere stato felice di rimembrare quel ricordo adesso troppo vivido. Ciononostante, poteva ritenersi relativamente fortunato ad essere sopravvissuto. Ma come aveva fatto? Non ricordava di aver fatto nessuna chiamata!
"Come mi avete trovato?" riuscì, quindi, a domandare, sussurrando.
"Ero spaventato, signorino." Fu Jii a rispondere, in tono greve. "Non tornava da quasi tre ore, non era mai stato via per così tanto tempo!"
Era vero: dopo i furti, amava volare con il suo deltaplano, osservando la luna. Tuttavia, rincasava sempre dopo poco più di un'ora. Non poteva passare troppe notti da insonne: era pur sempre un liceale.
"Quindi ha chiamato me per paura che ti fosse successo qualcosa" intervenne il dottore, muovendo passi avanti e indietro nella stanza del ferito. "E dopo un'ora e mezza di setaccio, ti abbiamo trovato."
"Grazie, signor Yamada."
L'uomo fu colto alla sprovvista, ma solo per un attimo; poi sorrise, compiaciuto. "Non mi deludi, ragazzo."
Kaito accennò un ghigno: aveva saputo, nonostante le sue condizioni fisiche non fossero le migliori, leggere delle minuscole lettere stampate sulla targhetta applicata al camice del medico.
Successivamente, tentò di collegare tutti gli avvenimenti, ma una cosa in particolare gli offuscò la mente, non permettendogli di pensare ad altro.
Sbarrò gli occhi, turbato. Osservò il suo corpo per qualche secondo: aveva ancora indosso il suo vestito di Kaito Kid. "Jii-chan..." appellò, interdetto. "Ma... Lui sa?" Indicò Yamada con gli occhi.
"Certo che lo so" lo ovviò, però, il sanitario.
"Non si preoccupi: era una di quelle poche persone che sapeva anche di suo padre" spiegò Konosuke, avvicinandosi al letto sul quale il suo maestro restava.
Lui si sorprese: le persone che erano a conoscenza della vera identità di Toichi si potevano contare sulle dita di una mano. Non lo diede, comunque, a vedere: si era già esposto troppo, doveva riprendere possesso della sua consueta Poker Face. Alzò, dunque, appena gli angoli della bocca, dissimulando il male che ancora attanagliava il suo corpo.
"A quando il mio prossimo furto?" chiese, apparentemente baldanzoso; in realtà, voleva concludere quel problema al più presto, dando una bella lezione a quei criminali che da troppo tempo girovagavano tra le città.
Il signor Yamada gli scoccò un sguardo bieco, fulminandolo. "A mai, possibilmente." Gli puntò contro un indice. "È vero che ti ha solo squarciato la carne, ma non potrai muoverti di qui per almeno due giorni!"
Il giovane arricciò le labbra, stizzito: "gli aveva solo squarciato la carne"? Allora perché non poteva agire e tantomeno spostarsi? Non sarebbe mai riuscito a rimanere fermo per due giorni interi! "Ma che bravo dottore" borbottò, roteando gli occhi blu intenso.
"Non c'è bisogno di ringraziarmi" decretò, sardonico, gettando un'occhiata al suo orologio da polso. Virò il suo corpo verso l'amico più anziano, che li ascoltava, divertito, annunciando: "Ho il turno di mattina, Konosuke: devo andare". Affiancatolo, accostò la sua bocca all'orecchio teso del suddetto, insospettendo e facendo ridurre le palpebre di Kaito a due fessure. "E sta' attento a questo teppista" intimò, bisbigliando e nascondendo il labiale con la sua grande mano.
Il vecchio ridacchiò un po', annuendo.
Il mago, invece, posò lo sguardo sull'orologio a muro davanti al suo letto, stupendosi: erano le 7:45. Era rimasto esanime per ben sette ore, e ora, ovviamente, stava perdendo un altro giorno di scuola. Non che gli importasse tanto; più che altro, voleva sottoporre la sua migliore amica ad un vero e proprio interrogatorio. 
In seguito a qualche secondo di meditazioni, arrivò ad un risultato: l'avrebbe chiamata, mettendo da parte l'orgoglio e l'imbarazzo, e lasciando liberi la sua curiosità e i suoi timori.
Gli venne nuovamente in mente la frase che Snake gli aveva rivolto nel precedente incontro: "Perché non lo scopri da solo?" aveva detto.
Ghignò. 'Puoi scommettere che lo farò, Snake.
'




Ehm... ehm... Chi non si è fatta vedere per quasi dieci giorni? Io? Davvero?
Mi scuso tantissimo per quest'altro ritardo, ma sono partita per il viaggio di cui vi parlavo un mese fa, e il capitolo non era nemmeno completo. Spero di riprendere il passo, dopo questo!
Bene, ora passiamo al capitolo... Ma 'sti qua sono idioti? Lavorano per qualcosa che nemmeno loro conoscono! Ma tanto quello li paga, quindi a loro va bene x'D Mmmh... Che ne pensate del nervosismo di Ayame? Non lasciatevelo sfuggire, eh! Per fortuna che arriva il signor Tamura a salvarle la pellaccia xP
Ehm... Poi c'è Kaito... No, non fucilatemi! Lo amo anche io, giuro! Però Snake è stato colpito da una scossa di intelligenza malvagità, e io non ho potuto impedire nulla :P
So che questo chap può risultare un po' cortino, ma se scrivessi anche la fantomatica chiamata, cosa metterei nel prossimo? xD Spero che vi sia piaciuto comunque!
Un ringraziamento speciale va a Aky ivanov, che mi ha (inconsapevolmente) spronato tantissimo a continuare questo capitolo, e in generale la storia, in cui avevo perso le speranze! Ringrazio tanto anche Shinichi e Ran amore che recensisce ogni capitolo, AlnyFMillen che l'ha aggiunta fra le seguite e Swain che l'ha aggiunta nelle preferite, ricordate e seguite! Grazie, grazie davvero! ;w;
Ci vediamo nel prossimo capitolo! ;D

Baci
Shizuha





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