Capitolo
31
Il
tenente von Rohr dormì ventiquattro ore consecutive, senza
svegliarsi nemmeno quando il medico gli applicò di nuovo dei punti
di sutura che nella concitazione della fuga si erano strappati.
Alla
fine riaprì gli occhi stranito, e per un po' rimase semplicemente a
guardarsi intorno come se non si capacitasse di ciò che lo
circondava.
Sentì
qualcuno parlare in tedesco nella stanza attigua, alla parete era
appeso il ritratto del Führer. Accanto a lui, sul comodino, c’era
un piatto con due fette di pane nero imburrate e della salsiccia.
Tutte
cose rassicuranti, rasserenanti addirittura, ma che comunque non
alleviavano di molto il dolore che lo tormentava.
Cautamente
si mise a sedere sul letto. Lenzuola candide, odore di pulito. La
finestra aperta lasciava vedere il cielo azzurro, i rumori del campo
erano solo un’eco lontana.
Si
prese la testa fra le mani come aveva visto fare tante volte al
maggiore Stuart. Da una parte aveva una necessità pressante di
ragionare su ciò che era accaduto, ma dall'altra non voleva farlo,
perché ciò significava ripensare a lui, a quello che c’era stato
fra loro e al fatto che lui non c'era e non ci sarebbe stato più.
Per un
po’ il sonno l’aveva pietosamente protetto, ma gli era bastato
aprire gli occhi perché le Erinni gli piombassero addosso e
cominciassero a fare scempio della sua mente e della sua anima.
Una
voce lo distrasse dalle sue angosciose meditazioni: “Finalmente si
è svegliato, tenente von Rohr.”
Hans
sussultò e si voltò in quella direzione come se fosse stato
sorpreso a fare qualcosa di molto sconveniente. “Buon giorno,
signor maggiore,” salutò.
Il
comandante dello stormo si avvicinò, prese una sedia e si sedette
accanto al letto. “Come sta ora?” s’informò.
“Sono
pronto a riprendere servizio, signore.”
Il
maggiore Graf lo fissò serio. A dispetto di quella scarna
rassicurazione, il tenente sembrava tutto meno che pronto a
riprendere il servizio. Era rientrato dalla prigionia sul suolo
britannico in condizioni pietose e ai comandi di uno Spitfire appena
uscito dalla linea di produzione. Per quanto ci avesse pensato, non
riusciva ad immaginare una sequenza di eventi che collegasse in modo
logico le due cose. “Mi vuole raccontare cos’è successo laggiù?”
gli chiese.
“Preferirei
di no, signore,” fu la risposta, che il tenente proferì con lo
sguardo ostinatamente rivolto alla finestra.
Graf
ritenne che non fosse il caso di insistere. Il medico gli aveva detto
qualcosa, più che altro mezze frasi rese ancora più incomprensibili
da complicati giri di parole, dalle quali però era riuscito a capire
che il giovane ufficiale doveva aver subito sevizie contrarie
all’onore di un soldato.
Non
avrebbe giovato a nessuno tormentare oltre il povero ragazzo
costringendolo a imbarazzanti descrizioni.
“Mi
dica solo come si è impadronito di quell’aereo, prego.”
“C'è
stato un bombardamento, nel corso del quale è crollata una parte
dell’edificio in cui ero detenuto. Sono uscito, ho visto lo
Spitfire pronto in linea di volo e approfittando della confusione
l'ho preso e sono decollato.”
Von
Rohr evitò di guardare il suo superiore: era la prima volta che
mentiva in vita sua.
Sospirò.
Evidentemente l'abisso di depravazione nel quale era piombato l'aveva
reso già talmente abietto da fargli considerare menzogna e reticenza
due comodi strumenti per evitare le situazioni spiacevoli, una cosa
indegna di qualsiasi tedesco.
Faticava
però a collocare nell'ambito della depravazione ciò che era
successo tra lui e il maggiore Stuart. A suo parere, anzi, vi erano
stati in quella breve ma intensa relazione nobiltà d'animo e spirito
di sacrificio, coraggio e responsabilità.
Si era
trattato quindi di un vero sodalizio virile, come quelli che aveva
studiato nella Hitlerjugend.
Perché
allora si sentiva così male quando ci pensava?
“La
lascio riposare.” La voce del maggiore Graf lo riportò bruscamente
alla realtà. “Il dottor Ebersbach dice che dovrà stare qui ancora
qualche giorno, poi potrà riprendere il servizio normalmente.”
“Sì,
signor maggiore.”
Von
Rohr rimase solo coi suoi pensieri, e le Benevole ricominciarono a
perseguitarlo.
L'indomani
gli fece visita il capitano Müller.
“Come
sta il nostro piccolo Hans?” lo salutò con disinvoltura, sedendosi
tranquillamente sulla sedia che si trovava accanto al letto.
Il
tenente lo fissò stupito.
“Lei
ha fatto come il piccolo Hans della canzone,” spiegò Müller
allegro, “è voluto andare da solo per il vasto mondo.”
“E
poi sono tornato a casa dalla mamma, è questo che vuole dire?”
domandò cupo von Rohr, pensando al testo della canzone.
“Via,
non sia sempre così sulla difensiva. Ha avuto una brutta avventura,
ma ha riportato a casa la pelle. Questo è già qualcosa, no?”
Passò
qualche secondo di silenzio. Seduto sul letto con le gambe sotto le
coperte e un pigiama un po' troppo largo addosso, von Rohr faceva
davvero pensare a un bambino nei panni di un adulto.
“Non
mi ha ancora detto come sta,” gli giunse la voce di Müller.
“Sono
pronto a riprendere servizio, signore,” rispose l'altro
meccanicamente.
Il
capitano gli appoggiò una mano sulla spalla. Per un attimo fu quasi
sul punto di domandargli perché avesse l'aria così triste, poi ci
ripensò e disse: “Le porto un paio di belle notizie, von Rohr.”
Il
tenente lo fissò serio. “Quali, signore?”
Müller,
che non era tipo da perdersi d'animo, sorrise e spiegò: “Per prima
cosa, ho convinto il vecchio a non punirla per quello che ha fatto. È
ben vero che lei ha preso un aereo senza autorizzazione, ma in fondo
si è fatto abbattere al posto mio, quindi credo che dovrei anche
ringraziarla. E poi ci ha portato in cambio un bello Spitfire nuovo
di zecca! Come minimo le daranno una promozione, per una prodezza del
genere.”
Von
Rohr preferì non rispondere, trovava indegno di un ufficiale tedesco
mostrarsi soddisfatto per essere scampato ad una giusta punizione.
Senza contare che avrebbe quasi preferito scontarla, sarebbe stato
perlomeno un atto catartico.
“Non
doveva disturbarsi, signore,” disse soltanto, al protrarsi del
silenzio.
“Ah,
sciocchezze!” rise Müller, il cui buonumore sembrava impossibile
da scalfire, “lei è il mio nuovo gregario. Visto che avrà il
dovere di proteggermi in aria, come minimo devo ricambiare
proteggendola a terra!”
A
quelle parole von Rohr si girò di scatto e lo fissò con occhi acuti
come lame. “Il suo nuovo gregario?” ripeté, quasi non si
capacitasse di quello che aveva appena udito.
“Esattamente,
quindi veda di rimettersi in fretta. Il suo Messerschmitt 109 la sta
già aspettando in linea di volo.”
“Davvero?”
“Deve
contribuire anche lei alla vittoria finale, von Rohr,” rispose
Müller ostentando un tono di serietà grave.
Lungi
dal cogliere l'ironia della frase, raddrizzandosi nella persona il
tenente rispose: “Sono qui per questo, signore.”
L'altro
parve soddisfatto. “Benissimo, allora comincia a chiamarmi Heinz,
perlomeno quando siamo in volo. Non penserai mica di dire frasi tipo
'signor capitano, nemici a ore undici', vero? Ora che ho capito cosa
mi stai dicendo, ci hanno già abbattuti tutti e due.”
“Sì,
signore.”
“Heinz.”
“Heinz,
certo. Mi scusi. Scusa.”
Il
capitano Müller dava l'idea di essere felicissimo della piega che
avevano preso gli eventi. “Appena Ebersbach ti molla facciamo un
volo di prova, che ne dici?”
Indeciso
se usare il tu o il lei, von Rohr si limitò ad annuire.
Non
poteva dire di essere felice per la notizia appena ricevuta, perché
ciò che provava era qualcosa di molto più profondo rispetto a una
semplice felicità. Era un senso di completezza, di appartenenza. Era
la consapevolezza che presto avrebbe fatto ciò che era suo dovere
fare, e che questa era cosa buona e giusta.
Si
sentì come un cavaliere che ha appena ricevuto l’investitura.
“Ora
che sei dei nostri,” riprese Müller, accentuando inconsapevolmente
il senso di appartenenza iniziatica che aveva pervaso von Rohr, “e
vista la tua bella prodezza coi Tommies, penso che tu abbia diritto
al tuo emblema sull’aereo. Hai già qualche idea?”
Il
tenente ci pensò un po’ sopra, poi sorrise e disse: “Sì, ce
l’ho.”
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