Dove tu sei – quella – è casa
Dove
tu sei – quella – è casa
Si
risvegliò di soprassalto sudato fradicio, la maglietta che
aderiva come una seconda pelle all’incavo delle clavicole,
disegnando con un tratto netto e deciso le linee del petto che si
abbassava ritmicamente. Il respiro leggermente affannoso riempiva di
nuvolette la capanna del figlio di Poseidone. Nessun altro rumore
pareva interrompere il quieto sonnecchiare notturno.
Si mise a
sedere scostando i ciuffi di capelli neri dagli occhi, ancora
vagamente frastornato dal sogno. Scorse la luna stagliarsi piena e
luminosa nella valle del Campo Mezzosangue stranamente illuminato di
un bagliore spettrale, immobile.
Scese con
fare risoluto dal letto e, senza infilare i sandali di cuoio che
utilizzava al Campo, imboccò la porta della capanna
lasciandosi investire da una ventata d’aria fredda tipicamente
invernale. Percepì i peli sulla nuca rizzarsi per il brivido,
ma non cambiò idea.
Aveva
bisogno di aria. E quel posto incominciava a soffocarlo.
Nonostante
i suoi sedici anni Percy Jackson restava un ragazzo atipico: gli
occhi acquamarina, in parte nascosta da una lunga frangia di capelli
neri, apparivano per lo più assorti, sospesi in una dimensione
estranea persino a quella delle divinità dell’Olimpo.
Annabeth ribatteva sempre salacemente che quello che aveva guadagnato
con il suo metro e ottanta di altezza era andato a discapito della
sua facoltà di parola. A quelle considerazioni sarcastiche
Percy aveva preso a ribattere con un ostentato mutismo, tradito
unicamente da uno spasmo muscolare di irrequietezza mista ad
insofferenza.
La verità
era che ci sarebbero stati dei momenti in cui Percy avrebbe voluto
solamente scomparire. E l’unica cosa che gli faceva provare
quell’ebbrezza di annullamento dal retrogusto onirico era
l’acqua. Ogni volta che la lieve increspatura della risacca gli
lambiva anche solo le punte dei piedi il cuore sembrava rallentare
impercettibilmente la sua corsa, le rughe sulla fronte appiattirsi, i
muscoli delle spalle sciogliersi fino a rilassarsi completamente.
Ogni
volta Percy avvertiva come un fremito irradiarsi lungo delle linee
invisibili e, intimamente, si sentiva ricompattato.
Non
avrebbe saputo spiegarlo efficacemente a parole, per questo motivo
aveva rinunciato da lungo tempo anche a comprenderlo lui stesso.
Qualcuno alle sue spalle mormorava che fosse connaturato alla sua
natura di figlio di Poseidone, ma la verità era che Perseus
non doveva niente a suo padre. Quando questo pensiero si
materializzava nella sua mente la linea delle sue labbra si
assottigliava e la mascella si irrigidiva insensibilmente, sigillando
ogni emozione sull’argomento.
Per
quanto ne sapeva l’unica cosa che aveva preso da lui erano
quegli occhi, a tratti chiarissimi e limpidi, alle volte scuri e un
po’ bui, come quelle profondità in cui si avvolgono con
un sibilo lunghe spire di mostri da sempre sconosciuti. Sua madre
sosteneva che avessero anche lo stesso temperamento dolce, ma
impetuoso, anche se gli risultava difficile immaginarsi quell’Uomo
in una veste diversa da quella dell’armatura greca che lo
cingeva, sempre pronto alla battaglia. Eppure una volta aveva giurato
di vedere il suo sguardo oscurarsi come le onde di un mare prossimo
alla tempesta, come se la battaglia, quella vera, fosse sempre in
atto, ogni minuto di ogni giorno. Per l’eternità.
Ma era
stato tanto tempo fa, quando ancora non aveva trascorso abbastanza
estati al campo e si faceva aspettative su chi potesse essere suo
Padre.
Si era
allontanato parecchio dal cuore del campo, ma il passo non accennava
a diminuire, si fece, anzi, d’un tratto più veloce, per
poi arrestarsi davanti a quello che sembrava essere uno specchio
d’acqua limpida ma poco profonda circondata per un versante da
canneti. Il frinire quieto dei grilli cadenzava lo scorrere pigro dei
minuti.
Facendo
scorrere i due indici lungo i fianchi allentò l’elastico
del pantaloncino fino a farlo scivolare ai piedi, tolse quindi anche
la canottiera verde bottiglia su cui era disegnato a trame sottili un
tridente dorato. In un gesto fluido assaporò la libertà
di movimento acquistata e stirò le braccia, protendendosi
verso un punto del cielo non ben precisato. Arricciò le dita
delle mani come per chiuderlo in un pugno, per poi farle ricadere
contro i fianchi leggermente stretti e spigolosi. Alla luce della
luna si potevano disegnare reticoli geometrici passando per le
numerose cicatrici che gli segnavano le braccia e la schiena, ognuna
bisognosa di raccontarsi se solo ci fosse stato qualcuno ad
ascoltare.
Scrollando
le spalle inspirò profondamente – un’abitudine
piuttosto che una necessità – e si tuffò nel
laghetto cheto.
Spalancò
gli occhi per abbracciare tutta la vita che pulsava dal fondale dello
stagno: piccoli pesci e crostacei, conchiglie madreperlacee mezze
abbandonate, ciottoli lisci e lucenti. Sorrise, lasciandosi scappare
bollicine d’aria. Ogni volta lo sorprendeva sempre.
Ogni
volta, nel silenzio assordante della vita, si ritrovava sempre.
Quella
era Casa.
Nota
dell'autore: Scritta
e pubblicata d'impulso, più per me che per qualcuno. E' la
lucida testimonianza di quanto sguazzi in questi rapporti travagliati
padre-figlio – Freud avrebbe molto da commentare.
Sono
ancora al quarto libro, spoiler free, per cui ho lasciato che il
casting dei film stimolasse la mia fantasia (ho un debole non poi
così nascosto per Kevin McKidd <3 ).
Recensioni
ed insulti sono ben accetti :)
Clara.
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