Novanta giorni di Cina

di Matih Bobek
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   I cinesi amano alla follia il rosso. Non stupisce, a ben pensarci: Mao ha saputo riunire sotto l'egida di una bandiera rossa milioni e milioni di anime disseminate su di una terra immensa. Ora, nel 2016, La Cina è ancora rossa, come macchiata dal sangue versato in nome di un'utopia omicida. Pulsa come un cuore sotto sforzo, tallonando la chimera del progresso. Anche la sua capitale, Pechino, è rossa, come lo è la città probita e le sue mura di porpora, i  vicoli stretti impolverati di tradizione e povertà; sono rossi i tetti dei padiglioni, le porte antiche sparse nella capitale; i luoghi di culto sfavillano vermigli e la coltre di smog fa del sole un occhio di bue. Nelle case da thè le foglie di hongcha tingono l'acqua di tramonto; gli hongbao, sacchettini di carta riempiti di soldi che i cinesi si scambiano nei giorni di festa, rispondono alle lanterne appese ai tetti delle case; le vestigia imperiali risplendono di un rosso glorioso. Gli spiedini di lazzeruolo, lucidi di glassa, sono bolle di fuoco che spuntano dai carretti per strada. Il matrimonio è rosso, come il vestito della sposa, a simbolo di fertilità. La fortuna appesa a rovescio sull'uscio durante la festa di primavera anche è rossa. Ancora e sempre, la bandiera che sventola su piazza Tian'anmen, di fronte al sorriso bonario di Mao, ad un passo appena dal suo mausoleo, svetta fiammeggiante sullo sfondo di un cielo sempre più grigio.
   Arrivato a pochi giorni dalla partenza, con bagagli e borsoni pronti, mi resi conto di non avere uno zainetto da viaggio, utile anche per i libri di scuola. Giusto pretesto per l'ennesima crisi isterica pre-partenza, dopotutto io non mi faccio mancare nulla. Nel bel mezzo del melodramma, ecco spuntare, dea ex machina, la signora Zandri, brandendo in mano uno zainetto scarlatto formato mini. Pratico, comodo, leggero e soprattutto capiente. Ma anche brutto, brutto come i cuochi della mensa in Cina.  Almeno è rosso, pensai, come solo ai cinesi può piacere. Mi accorsi appena dopo della scritta " La Turchia più bella", bianco su rosso, sulla tasca esterna. Dettaglio trascurabile, dissi tra me e me. Non masticano mezza parola di inglese, figurati l'italiano! Per quanto mi sforzi di non commettere omicidi di stile però, certe cadute sono proprie di una mente innocente come la mia. Non potevo aspettarmi la marea di sfottò (in lingua italiana, si capisce) sotto la quale sono quasi annegato quando l'ho indossato  la prima volta. Bisogna immaginarmi vividamente, con dieci chili tra giacca, maglione, guanti, sciarpa e cappello, e poi questo fagottino rosso sulla schiena pieno zeppo di robaccia. E di fronte a me, gli scalini infiniti sopra i quali si staglia maestoso il profilo della grande muraglia. Non sei un eroe se non scali la grande muraglia, dicono i cinesi. Secondo me invece, non sei un eroe se non la scali con lo zainetto rosso firmato " La Turchia più bella." L'orrido bisogna saperlo indossare con la giusta ironia, in special modo quando ti accorgi tardi di quanto sia brutto ciò che stai indossando. Ormai, le uova si erano rotte e bisognava farne una frittata. Lo zainetto rosso è stato il mio simbolo, il mio segnale di riconoscimento, quello che mi ha reso individuabile nella labirintica Città Proibita, tra la nebbia dello smog e migliaia di occhi a mandorla. Vedevi un tizio occidentale dall'aria smarrita che pareva appena uscito da Up con un orrido zainetto rosso sulle spalle e potevi star certo che ero io. Addirittura gli amici cinesi hanno cominciato a sfottermi, e quando persino loro ti prendono in giro per l'abbigliamento, allora stai sicuro che stai oltraggiando mezzo secolo di moda. Lo zainetto era motivo di ilarità per tutti, e lo era anche la semplice ironia con il quale lo portavo. Devo ammetterlo, anche io trovavo divertente e paradossale attraversare Pechino in lungo e in largo con in spalle "la Turchia più bella". Può sembrare un dettaglio privo di importanza questo qui. Dopotutto, perchè raccontare la mia esperienza in Cina partendo proprio dello zainetto rosso? Perchè parlarne (che tra l'altro è la domanda che ponevo ai miei amici che mi perculavano senza pietà )? Be', forse perchè ha rappresentato la mia condizione psicologica: è stato il simbolo della sensazione di spaesamento che mi ha accompagnato per un buon mese e mezzo. Sradicato dal mio proprio terreno e trapiantato sulla superficie gelata e brulla della capitale cinese, a kilometri e kilometri di distanza. Lontano da famiglia, amici e parenti. Lontano dalle abitudini, dalla quotidianità, dalla sicurezza. Lontano da casa. Mi son sentito per molto tempo spaccato a metà, con i due piedi a mezz'aria non ancora pronti ad atterrare sul suolo cinese e con le mani aggrappate ai campi verdeggianti dell'agro romano. Ecco come ero: partito da Roma con due mesi di crisi negli occhi, arrivato a Pechino con un inguardabile zainetto rosso della "Turbanitalia" e con la promessa di altri tre mesi di pianto. Confusione e controsenso, spaesamento e paradosso. Inoltre, lo zainetto rosso è stato anche il segnale premonitore di ciò che sarebbe successo appena un mese dopo, e purtroppo lo avrei capito solo a posteriori, ma di questo parlerò in seguito.




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