Shaw
strappò e tirò tanto forte da farne due pezzi e
restò a fissarli,
prima uno e poi l'altro, riprendendo fiato, fermando le lacrime. Non
passò molto che si pentì di averla rotta e
avvicinò i due pezzi
come se avessero potuto tornare a essere una giacca intera.
Ansimò
ed emise appena un altro strillo quando si spaventò e di
colpo si
girò, udendo la porta del bagno scattare e aprirsi. La
fissò a
bocca aperta mentre camminava scalza verso di lei. Bear la
scrutò
allo stesso modo e dopo tornò a dormire, come se nulla fosse
successo.
Root
si fermò in mezzo alla stanza, guardandola così
come si guarda
qualcuno che non è in grado di comprendere ciò
che gli succede: con
compassione. «Non dovevi alzarti dal letto, avrai ancora la
febbre
alta», disse piano, a bassa voce, riuscendo a sorridere per
lei.
Si
avvicinò e provò ad alzare Shaw dal pavimento ma
lei si divincolò,
saltando via, stringendo un pezzo della giacca in una mano. Per
interminabili secondi non riuscì a fare altro che esaminarla
a occhi
sgranati. «Non può essere»,
mormorò, toccandosi la fronte, «Sto
impazzendo».
«Non
stai impazzendo, Sameen», provò qualche passo
verso di lei. «Hai
solo paura di risvegliarti e scoprire che è tutto finto.
È normale,
sei stata per mesi nelle mani di quei pazzi che hanno cercato di
usarti! Ma tu sei sopravvissuta a loro e adesso stai lottando e
sopravvivendo anche a quello che ti hanno lasciato. Stai vincendo,
Sameen Shaw, perché tu sei più forte di tutto
questo». La prese
fra le sue braccia e Shaw chiuse gli occhi. «Sei confusa ma
ti
sembrerà più chiaro presto. Molto
presto».
«Ho
bisogno di te».
Root
fece una pausa, prima di parlare: «Io ho bisogno di
te». Alzò la
mano destra e premette la siringa, infilandole l'ago nel collo.
Shaw
spalancò gli occhi dalla sorpresa e poi li richiuse piano,
lasciandosi andare.
Era
così triste. Un sentimento tanto forte per lei che non ne
aveva
provato per così tanto tempo. Aveva il volume basso, le
aveva detto
un giorno una bambina, e pur non dandoci peso allora lo aveva tenuto
in mente perché in fondo sapeva che era vero e che Root in
un modo o
nell'altro era riuscita a girare la manovella per alzarlo.
Si
mosse per asciugarsi gli occhi appiccicati di lacrime e
sentì la sua
pelle strisciare su freddo cemento, non comode lenzuola. Si
sentì
sollevata, aprendo gli occhi e vedendo di essere nelle fogne: non lo
aveva sognato ma era accaduto il contrario. Era stato un incubo;
quello di cui aveva paura da quando l'aveva ritrovata in una notte
ancora giovane e piovosa. Era ora di svegliarsi del tutto dalle paure
e dai tormenti; perché era più forte di tutto
quello. Che ci
provasse pure, il suo cervello, a farle credere di essere in una
simulazione o in un sogno; pensò che non le sarebbe
più importato
da quel momento in avanti perché voleva vivere. Voleva
vivere e
essere felice. Quella era la vita vera e avrebbe lottato con tutta se
stessa affinché potesse proteggere quella realtà
dalle sue
paranoie. Basta simulazioni, basta rivedere quella giacca appesa come
se Root, quella volta, fosse morta davvero. Forse un giorno chi le
aveva fatto tutto quello aveva vinto, ma quel tempo era finito.
Shaw
si alzò dapprima con fatica, tastandosi il collo sul punto
dove
l'aveva punta con l'ago, e poi calciò le manette, facendole
cadere
nel canale di scolo. Era arrivato il momento di riprendersi Bear.
Dopo
aver lasciato le rispettive roulotte e il set per ripartire verso
casa, Sarah e Amy non parlarono più molto. Amy pensava di
darle il
suo spazio e, dal canto suo, Sarah pensava di stare impazzendo. Si
salutarono senza baciarsi, con un lungo abbraccio che sembrò
durare
in eterno, e dei mesti sorrisi. Amy non le ricordò del
viaggio, non
le disse più niente a riguardo, era solo nervosa di dover
affrontare
e parlare con i suoi bambini a fianco dell'uomo che sarà
sempre
l'uomo della sua vita di come a volte era necessario separarsi e
essere tristi per diventare più felici. Forse un giorno
avrebbero
capito anche loro.
Intanto,
Sarah stava ancora cercando di capirlo. Amava Steve con ogni cellula
del suo essere: si erano incontrati sul set, si erano divertiti
insieme, poi si erano baciati e qualcosa fra loro era nato, dal nulla
alla simpatia, dalla simpatia al matrimonio. E insieme avevano avuto
tre splendidi bambini. Pensava di non aver bisogno di altro nella
vita e tornare a casa, di primo impatto, glielo aveva confermato.
Respirare l'aria della vita che lei e Steve si erano costruiti
insieme, riabbracciare i suoi figli, vedere nei loro sguardi la
sicurezza di tutto quello che avevano attorno e sapere che ci sarebbe
stato sempre, entrare nelle loro camerette, nella sua camera da letto
e vedere come ogni cosa, ogni centimetro di quelle stanze, era stato
pensato da entrambi per tutti loro. Avevano molto più che
una casa e
dei figli insieme: avevano un mondo costruito su misura per loro.
Però non faceva che pensare a lei. Capì di aver
creato una crepa in
quel mondo e che stava diventando sempre più grande
perché glielo
permetteva. Con Amy era tutto diverso. Era come averla sempre
conosciuta, sempre aspettata, e fino a che i loro corpi non si erano
uniti, sempre desiderata.
Ma
non poteva mandare all'aria ogni cosa per lei. A pensarci, non lo
aveva fatto nemmeno Amy. Aveva sempre pensato di essere responsabile
del suo divorzio, ma lei avrebbe lasciato James in ogni caso, che
fossero rimaste insieme o meno. Non per lei e non per la loro
relazione, ma per lui. Lo aveva lasciato per amore, perché
non
poteva amarlo come si meritava. Perché amava lei. Non glielo
aveva
detto a parole, ma glielo aveva detto con i fatti.
Erano
già passati tre giorni. Le inviò un messaggio per
chiederle come
stava, se andava tutto bene con i bambini, ma non le aveva ancora
risposto. Quaranta minuti di attesa. Ogni tanto ricontrollava il
cellulare, forse non aveva sentito la vibrazione, ma non c'era
nessuna risposta. Ansimò. William le mostrò il
disegno che stava
facendo e lei gli mosse i capelli, gli disse che era bellissimo e
guardò fuori dalla finestra, poi di nuovo al cellulare. Era
perennemente distratta e nervosa, tanto che il bambino le
poggiò una
mano sul viso e tentò di farle vedere di nuovo il disegno,
non
soddisfatto. Una lumaca gialla su una riga di prato verdissimo. Oh,
era davvero bello.
«Sei
bravissimo», gli disse, stavolta con sincerità.
Probabilmente
la lumaca era quella che avevano visto in cortile il pomeriggio: lui
l'aveva notata, le aveva fatto fare un volo sulle sue piccole dita e
dopo l'aveva poggiata su un fiore. Era caduta e così aveva
provato a
rimetterla. Lo aveva fatto almeno cinque volte prima di capire che in
quel modo non avrebbe funzionato per poi posizionarla sull'erba. Gli
aveva chiesto perché non avesse tenuto la lumaca ma l'aveva
lasciata
andare, e il bambino, spiazzandola, le aveva risposto che con lui
sarebbe morta, che glielo aveva detto la nonna che era meglio
lasciarla andare se le voleva bene davvero. Oh, si accorse che il suo
piccolo aveva compreso quel concetto molto prima di lei. Ma non
poteva lasciare Steve, neanche per amore: senza di lei, lui era
perso.
Root
aveva bisogno di credere che era possibile. Aveva superato di peggio
e malgrado tutto era viva. Aveva avuto qualcosa, qualcuno da perdere
e aveva lottato affinché non accadesse, rischiando tutto,
rischiando
di non tornare come prima. Philip Lars era la minaccia che tornava
dal passato ora che voleva credere nel futuro. Non lo avrebbe
permesso. E Shaw l'avrebbe perdonata.
Dei
Marshall Mason l'avevano seguita da quando aveva lasciato le fogne e
iniziarono a sparare per le strade. In lontananza si sentirono le
volanti della polizia che arrivavano; doveva fare presto. Si era
nascosta dietro un muretto e si alzò per sparare, ferendo
uno di
loro, poi un altro ancora. Un bambino aprì la porta di casa
e lo
acchiappò trascinandolo di nuovo dentro insieme a lei,
socchiudendo
la porta e facendogli il cenno di tacere, mentre lui fissava il
fucile con occhi sgranati. Si assicurò di vederli girare un
angolo e
poi era uscita, ringraziando il picciolo per averla aiutata.
Si
diresse direttamente lì. Gettò il fucile
all'interno di un
cassonetto e ne tirò fuori uno zaino, entrando in centrale
con
fretta mentre se lo sistemava sulle spalle. Fusco tentò di
fermarla
ma lei gli passò avanti con decisione, accarezzò
Bear e lo prese
con sé: lo spinse in una saletta degli interrogatori e gli
infilò
una mascherina presa dallo zaino.
«Non
puoi vederlo», sbottò Fusco alle sue spalle,
intanto che lei
chiudeva la porta. «Il suo avvocato ti ha fatto avere un
divieto, lo
sai questo? Stanno visionando i tuoi dati», le disse poi
sottovoce,
«presto scopriranno che non sei una vera detective e lo
stesso vale
per Shaw! Mi hai sentito, Riccioli D'oro? Root?». Lei lo
ignorò,
continuando a camminare, e sbuffando spalancò le braccia,
guardandosi poi intorno: «Dove mi ha messo il
cane?».
Entrò
nella sala e Daryl Boscoferro restò seduto sulla brandina,
pur non
mancando di sorridere.
«Alzati!
Voglio che mi porti da Lars». Prese delle chiavi da una tasca
e aprì
la cella, spalancando la porta. Lui si alzò piano, andandole
incontro. Root si sfilò lo zainetto dalle spalle e, cercando
al suo
interno, tirò fuori due maschere antigas e gliene porse una.
Lui se
la infilò senza fare domande vedendo lei che lo faceva e la
donna
controllò l'orologio, mostrando un conto alla rovescia con
le mani.
Tre, due, uno: dall'impianto d'areazione uscì una nube
grigia.
Attesero qualche secondo, sentendo il chiasso attraverso la porta, e
finalmente uscirono. Qualche poliziotto provò a fermarli e
loro se
li tolsero di dosso con facilità, camminando velocemente
verso il
portone d'uscita. Udirono Bear che mugugnava e raschiava la porta,
chiuso nella saletta degli interrogatori, e Fusco, tossendo e
incespicando sui suoi passi, provò a fermarla di nuovo,
balzandole
addosso.
«Non
puoi farlo», tossì, «Pensaci».
Ci
aveva già pensato. Stava cadendo a terra esanime e lei
fermò la sua
caduta, accompagnandolo sul pavimento, mentre Daryl Boscoferro
continuava verso l'uscita. Proverò
a non morire,
pensò, poggiandogli dolcemente la testa sul pavimento.
Sapeva di non
avere molte altre alternative e che avrebbe dovuto rischiare di nuovo
per mettere la parola fine a tutto quello. Sapeva di aver creato al
suo amico un danno irreparabile e che le scuse non sarebbero mai
state sufficienti a risanare ciò che era stato fatto, ma
forse un
giorno avrebbe compreso le sue ragioni e sarebbe riuscito a
perdonarla davvero, anche ora che lo stava abbandonando di nuovo. Lo
guardò, in piedi davanti a lui, prima di andarsene.
Una
volta fuori dal portone si tolsero le maschere e le gettarono dentro
il cassonetto.
«Hai
un piano?», domandò lui, seguendola. S'inoltrarono
in una stretta
strada dietro l'edificio, saltando un muretto.
«Sei
tu il mio piano». Si fermò e alzò le
mani in segno di resa,
sentendo un grilletto scattare: l'avvocato uscì dietro un
cespuglio,
puntandole contro un fucile. Root sorrise: era certa che quella donna
fosse un Marshall Mason da come l'aveva guardata quando si erano
conosciute.
«Reciprocamente,
anche il nostro», disse lei.
Daryl
le poggiò una mano sulla spalla, invitandola a proseguire.
Inutile
dire che se lo immaginava e che faceva esattamente parte del piano:
doveva arrivare da Lars in un modo o in un altro.
La
fecero salire in un auto e Daryl guidò fino ai limiti della
città,
verso un'ospedale abbandonato, mentre lei teneva il fucile puntato su
Root, sui sedili posteriori. Lei aveva un gps addosso, nascosto in
una calza: nessuno dei due se n'era accorto neanche dopo aver
controllato che non avesse pistole o altri armi con sé. Le
avevano
slacciato il cinturino con l'arma e lasciato in macchina insieme al
suo cellulare, forzandola a camminare sulle scalette e ad aprire il
portone scolorito, sporco e cigolante. Un uomo armato la
seguì con
lo sguardo dall'entrata, mentre loro le intimavano di continuare a
muoversi. Era fatta. Era vicina a mettere fine a quel triste episodio
avvenuto molti anni prima.
«Un
ospedale. Ci sarei dovuta arrivare», esclamò lei,
«Mh, è così
poco originale».
Il
corridoio successivo era pieno di uomini e donne armati: dovevano
essere altri Marshall Mason attivi. Il loro scopo sembrava essere
cambiato: parevano diventati semplici tirapiedi a pagamento. La
guardavano così come si guarda un pasto prelibato che
scorreva
davanti ai loro occhi. Erano stati tutti ingaggiati per trovare
quella donna e ucciderla, sarebbero stati pagati adeguatamente, ma
nessuno di loro c'era riuscito e nessuno di loro avrebbe avuto fra le
mani l'enorme somma di denaro in palio, invidiosi e seccati che fosse
stata già presa da qualcun altro. Lei si premurò
di sorridere
davanti a tutti senza riserve.
Boscoferro
e la donna la spinsero all'interno di una saletta: al contrario del
resto dell'ospedale che avevano visto fino a quel momento, quel luogo
era ben curato, c'era la moquette nuova e pulita sotto i piedi,
divani e cuscini, tavolini, tre lampadari nuovi e le tende dai colori
pastello davanti alle finestre. Root pensò di guardarsi
attorno ma
non c'erano telecamere o altri apparecchi: al momento era davvero
sola. La invitarono a sedersi in mezzo a uno dei divani e
obbedì con
un sorriso, intanto che da ogni porta entravano gruppi di tre persone
per tenerla d'occhio. Non poté che trovarlo divertente.
«Sono
disarmata e sola, eppure tanta gente si disturba solo per me: come
non essere lusingata».
«Ogni
precauzione è d'obbligo, mi sembra», rispose
Boscoferro, mani
intrecciate sulla schiena, «Personalmente ho imparato io
stesso a
non sottovalutarti».
Attraverso
le tende, Root fissò una finestra, pensando a Shaw. Sarebbe
tornata
da lei presto, pensando a cosa stesse sognando in quel momento e a
quanto si sarebbe arrabbiata una volta sveglia. Sorrise di nuovo e
prese un bel respiro, udendo un rumore al piano di sotto, da
dov'erano passati: stava per succedere. Un altro rumore, un grido e
poi uno sparo e tutti i Marshall Mason nella sala si guardarono gli
uni con gli altri, imbracciando meglio le proprie armi. Qualcuno
pensò di andare a controllare cosa stava succedendo e lo
sentirono
gridare di lì a poco, accompagnato da qualche sparo e un
botto.
Tutti iniziarono a muoversi come formiche impazzite e Daryl
Boscoferro e l'avvocato si girarono verso Root, allarmati. «Cosa
sta succedendo?», domandò lui.
«Parla»,
ordinò lei puntandole contro il fucile.
«Come
posso saperlo? Sono qui con voi», scrollò di
spalle.
Una
delle porte si aprì e qualcuno lanciò dentro un
fumogeno; dopo poco
la sala si riempì di altre persone imbavagliate e armate per
mettere
fuori gioco i Marshall Mason. Root approfittò del trambusto
per
alzarsi dal divano e stringere il fucile per la canna, strappandolo
di mano dalla donna e colpendola in faccia con il manico.
«Questo
lo prendo io se non ti dispiace, non vorrei che finissi per fare male
a qualcuno». Lo puntò poi contro Daryl Boscoferro
ma lui stava già
tentando la fuga verso una delle porte. Un ragazzo si
avvicinò a lei
e si scese il bavaglio, mostrandole chi fosse.
«Bei
regaloni in quel pacco che ci hai fatto avere, donna
poliziotto»,
Brandon rise entusiasta; alzò una mano per battere il cinque
ma lei
non ricambiò. «Troppo forte».
«Non
sono regali», sospirò, «Piuttosto un
prestito: la mia ragazza non
ne sarebbe felice, credimi». Lui annuì e lei gli
indicò una porta
con un cenno della testa: «Il vostro uomo è
scappato da quella
parte, signori».
Il
ragazzetto ringraziò ma Root lo vide pensarci più
del dovuto,
soprattutto per uno come lui che solo pochi secondi prima si
comportava come un bimbo a Natale. Si fermò e si
guardò in giro
accuratamente, come stesse cercando di mettere a fuoco qualcosa, poi
pensò di chiamare altri che lo seguissero e sparì
dietro la porta
insieme a loro.
Sarah
aprì la cabina armadio, sovrappensiero. Sei giorni. Erano
già
passati sei giorni e Amy non aveva risposto a nessuno dei suoi
messaggi; a un certo punto aveva dovuto smettere o avrebbe pensato di
non volerla lasciare in pace e non voleva essere pesante. Ma le
mancava, sentiva un vuoto nel petto che non riusciva a colmare in
nessun modo e capì come doveva essersi sentita Shaw quando
si era
risvegliata su quel letto scoprendo che lei non c'era. Prese un abito
a fiori e lo squadrò senza reale interesse, rimettendolo a
posto.
Non riusciva a smettere di pensarci: la differenza era che, almeno
Shaw, poi si era risvegliata davvero scoprendo di poter ancora fare
qualcosa per rimediare. Lei invece cosa poteva fare? Fra poche ore
Amy sarebbe partita con i suoi figli per una vacanza lunga due
settimane e le avrebbe detto addio per sempre. Non che non le avrebbe
più rivolto la parola, lavoravano insieme, ma il rapporto
fra loro
non sarebbe mai più stato lo stesso. E chissà
come avrebbe evitato
ogni tentativo di nuovo approccio da parte sua. E aveva ragione lei,
lo sapeva bene, non poteva continuare a volere un piede in due
scarpe, ma non riusciva a dire addio
a nessuno dei due. Era ancora lì, indecisa su una decisione
che in
fondo aveva già preso, fra una vita certa e al sicuro con
Steve e
una incerta e piena di imprevisti con Amy. Era tutto una scommessa,
un capire per chi il suo cuore batteva più forte, a chi
pensava per
primo la mattina e l'ultimo la notte prima di dormire, con chi dei
due immaginava realmente un futuro.
Steve
era a casa dal giorno prima e com'era nervosa lei lo era lui. Non
sembrava essere il lavoro, stavano facendo una breve pausa e sarebbe
tornato sul set l'indomani, e allora doveva esserlo solo
perché con
molte probabilità pensava ancora all'evento di chiusura
della prima
stagione di Shoot:
ultimate chance,
a quando l'aveva sorpresa a parlare tanto bene del suo rapporto con
Amy. Ma cosa si aspettava? Che dicesse di amarlo nel frattempo che
parlava di Amy e di come andavano d'accordo? La sua gelosia a volte
rasentava il ridicolo, ma non poteva fare a meno di pensare che
questa volta avesse ragione: lei lo aveva tradito, era inutile
girarci intorno. Lo aveva fatto consapevolmente più volte.
Non era
riuscita a farne a meno. Non voleva smetterla e basta,
perché Amy…
perché amava Amy. Oh, accidenti, la amava tantissimo. Le sue
guance
calde la mattina ancora sotto le coperte. Il suo imbarazzo e come
tentava di nascondersi il viso. La sua voce che ogni volta che la
chiamava era un battito del cuore. Le sue preoccupazioni e la
frustrazione, la sua fragilità che faceva esplodere in lei
un senso
di protezione mai provato. Il suo viso duro e dolce allo stesso
tempo, come inarcava le sopracciglia. Il suo sorriso sempre diverso
per ogni occasione. La tenerezza dei suoi occhi, l'innocenza di ogni
suo sguardo. Il suo corpo che vibrava sotto ogni suo tocco. Era stata
con lei perché per quanto amasse Steve, amava Amy. E
né lui né
potevano farci niente. Non voleva farci niente.
Richiuse
la cabina armadio e si precipitò a guardare il cellulare,
scoprendo
che Amy non le aveva inviato ancora alcun messaggio. Lei doveva
essersi arresa all'idea che sarebbe rimasta con suo marito e non
aveva torto, poiché era proprio ciò che aveva
deciso di fare…
prima.
Esattamente fino a poco prima.
Scese
le scale di casa con il cuore che le batteva furiosamente, torcendosi
le mani. I bambini giocavano fuori con la nonna e Steve era in cucina
a bere il suo bicchierone di caffè, leggendo un giornale, in
piedi
davanti alla penisola. Lei lo guardò per un po', ferma sulla
porta,
cercando di prendere coraggio. I suoi occhi erano umidi. Doveva
davvero farlo? Sentì il suo corpo nutrirsi di adrenalina al
solo
pensiero di correre da Amy. Era ciò che voleva, ma aveva
paura.
Guardandosi attorno solo un attimo, capì che avrebbe perso
tutto o
quasi ciò che aveva; che avrebbe stravolto ogni cosa non
solo nella
sua vita ma in quella di tutte le persone che amava. Che
probabilmente era egoista a pensare solo a sé. Ma il tempo
scorreva
e doveva essere coraggiosa, doveva provare a pensare anche lei che
forse un giorno lui avrebbe capito, e con lui i loro figli quando
sarebbero stati più grandi, e la sua famiglia che, a causa
della
paura provata quando era adolescente, non era mai venuta a conoscenza
di una parte di lei.
Lui
alzò lo sguardo, sentendosi osservato. «Che
c'è?», sbottò,
«Pensavo volessi portare fuori i bambini con tua
madre… non ti sei
cambiata?».
Era
arrivato il momento. Deglutì, avvicinandosi.
«Steve… dobbiamo
parlare», si passò due dita sulla fronte.
Era
come se lui avesse capito al volo, senza che gli dicesse altro,
poiché abbassò la scodella e
l'appoggiò al banco, fissandola in
modo contrariato. «Mi hai preso per un visionario, un pazzo
geloso,
e invece… era tutto vero. No?», sibilò
con la voce che gli
tremava. Si allontanò dalla penisola e si
appoggiò con fare stanco
al mobile dietro, scuotendo la testa, alzando gli occhi al soffitto.
«Dimmelo che non mi stavo inventando le cose»,
alzò la voce.
«No…»,
emise a fior di labbra, come liberandosi di un peso, e lui scosse la
testa ancora, «Ma non è sempre stato
così! È solo che…
che…».
«Che
ti sei innamorata di lei?», domandò, passandosi
una mano sul viso.
«Sì».
Lui
sembrò trattenersi, chiudendo gli occhi, e dopo
calciò a terra,
sfiorando un mobile. «Oh, dannazione, Sarah… Siete
state a letto
insieme? L'avete fatto?», si morse un labbro, osservando il
viso di
Sarah abbassarsi, «Cosa stai cercando di dirmi, uh? Che lei
ha
divorziato per te? Che tu vuoi divorziare per lei? Mi stai lasciando,
per caso?».
Sarah
strinse i pugni e si tirò in avanti, decidendo di agire:
doveva
sbrigarsi o Amy sarebbe partita senza di lei. «Sì,
ti sto
lasciando», iniziò a piangere e si
asciugò le lacrime, tirando su
con il naso. «Ti sto lasciando perché amo lei
più di te e non
posso stare con te sapendo questo! Non lo merita nessuno dei
due».
Incuriositi
dai rumori verso la cucina, sia la nonna, con i braccio i gemellini,
che William, guardarono attraverso la porta a vetri; capendo che
stavano discutendo, la signora pensò di distrarre il
bambino, dando
comunque un occhio all'interno.
«Oh,
quindi stai cercando di farmi credere che se mi lasci è per
me? Per
il mio bene?», s'indicò il petto, «Devo
essere davvero un uomo
fortunato…».
«Per
favore, Steve, non gira sempre tutto intorno a te».
«Quindi
cosa dovrei fare? Devo essere paziente, stare zitto e accettare il
fatto che mia moglie mi abbia tradito? Devo fare
così?».
Sarah
si passò la mano sulla fronte, abbattuta. «Ho
sbagliato… lo so».
«Una
cosa giusta l'hai detta», si passò di nuovo le
mani sul viso,
riprendendo fiato, e Sarah non riuscì più a
guardarlo in faccia.
«Adesso
devo andare».
«Adesso?»,
«Adesso!
Se non vado adesso-», le scappò un singhiozzo,
trattenendosi,
facendo una smorfia con la bocca.
Lui
la interruppe, stringendo gli occhi: «Sai una cosa? Ho
capito! Non
entriamo nei dettagli che non mi interessano! Sono frustrato, sono
incazzato e sono deluso, non voglio sentire un'altra parola! Devi
andare? Vai! Ne riparliamo quando torni, cosa vuoi che ti
dica?»,
sbottò. «Tornerai, no?».
Annuì,
sospirando. «I bambini…».
«Vuoi
portarti dietro anche loro?».
Fissò
verso l'esterno e sua madre stava guardando nella sua direzione,
così
uscì. Prese i piccoli in braccio uno alla volta e li
baciò
stringendoli forte, poi William, a cui disse che sarebbe tornata
presto, che andava a fare una cosa importante e che si sarebbero
sentiti per telefono. Gli consigliò di continuare a
disegnare perché
al suo ritorno avrebbe voluto vedere tanti suoi capolavori. Erano
abituati a vederla andare via per lavoro e il piccolo le diede la
buona fortuna per la videocamera. Dopo abbracciò anche sua
madre,
chiedendole di badare ai bambini e che anche loro si sarebbero
sentite per telefono per spiegarle la situazione. La signora era
molto incerta e tentò di parlarle ma lei, che tremava, non
si lasciò
fermare. Per un attimo, Sarah si rivide una ragazzina spaventata al
pensiero che sua madre scoprisse la verità, ma erano passati
tanti
anni e le cose non erano più come prima, ed era arrivato il
momento
di affrontare tutto: poteva farcela. Era inutile nascondersi, a
maggior ragione da se stessa.
Stava
per andare, fermandosi un'altra volta verso il marito, con decisione:
«Se non altro… adesso tornerai sulla
piazza». Gli diede le
spalle.
Guidò
suonando il clacson ad ogni curva, ad ogni intoppo, facendo
innervosire qualcuno. Era in ritardo. Amy sarebbe partita senza di
lei e l'avrebbe ufficialmente lasciata. Non poteva permetterlo. Le
aveva inviato un messaggio prima di prendere l'auto e aveva provato a
chiamarla mentre metteva in moto, ma Amy non rispondeva come al
solito, e forse non aveva neppure il cellulare vicino. Corse
più che
poteva, stando attenta a non superare il limite, e alla fine
arrivò
al porto. Forse era ancora in tempo. Una nave ancora in mare si stava
avvicinando e probabilmente sarebbe attraccata dopo che quella da
crociera avrebbe lasciato il porto, ora stazionata davanti a
tantissime automobili. Sarah dovette fermarsi e riprendere a
camminare più lentamente per via della fila di auto. Scorse
una
pattuglia che fermava le automobili a caso e faceva domande, sperando
di non essere una dei prossimi. Non aveva biglietto. Non aveva
valigia e indossava una maglia larga, un pantalone da casa e delle
scarpe da ginnastica sporche di fango ai lati, che solitamente
indossava per potare piante in giardino: non sembrava certo pronta a
partire per una vacanza. Guardò la fila, la nave, la gente
che si
era radunata davanti, e poi il cellulare sul sedile del passeggero,
provando a chiamarla ancora.
«Forza,
Amy… rispondi, ti prego, ti prego… Non farmelo,
per favore…».
Si
affacciò al finestrino e un poliziotto incrociò
lo sguardo con il
suo, mettendole ansia. Rigettò il cellulare sul sedile e
mise in
moto; proprio quando sperava di averla fatta franca, i poliziotti le
fecero cenno di fermarsi e lei si morse un labbro dall'agitazione.
Scese di più il finestrino, intanto che il poliziotto con
cui si era
scambiata uno sguardo le chiedeva di mostrargli i documenti e il
biglietto d'imbarco.
«Viaggia
da sola?», le chiese un altro, mentre lei cercava i documenti
all'interno del cruscotto, togliendo fazzoletti e peluche,
disponendoli sul sedile; non era nemmeno certa di averli presi. Non
poteva credere di essere davvero uscita senza patente.
«N-No,
io… a dire il vero devo raggiungere la mia-», si
fermò,
grattandosi un orecchia e tirando indietro i capelli, «con i
bambini», s'impappinò e alla fine
sbatté il cruscotto per
richiuderlo, non trovando i documenti. Prese la borsa sperando di
fare meglio, tirando fuori altre cose come ciucci e giocattoli.
I
tre uomini guardavano con attenzione, spazientendosi, intanto che le
altre macchine della fila passavano avanti. «La
sua…?
Ha il biglietto e i documenti?».
Sarah
sbuffò, rialzando la testa e scrutando i loro visi
corrucciati uno
per uno. Sorrise. «Sì… No, il biglietto
deve averlo la mia-»,
s'interruppe ancora, mentre loro la fissavano con concentrazione.
«Sentite, se mi lasciate passare e andiamo insieme dalla mia
fidanzata, che è già dall'altra
parte…». Pensò di aver detto
qualcosa di sbagliato, o di troppo, poiché i tre
cominciarono a
guardarsi fra loro e a sorridere, e Sarah continuò a cercare
nella
borsa almeno la patente.
«Ha
una faccia già vista, signorina…?».
«Signora»,
rispose, sorridendo d'impaccio, rialzando il viso, «Va bene
anche
signorina!
Shahi, Sarah Shahi, e finalmente ho trovato la patente», la
passò
ad uno dei tre, che ancora sorrideva. Fissarono il documento e se lo
passarono di mano in mano, esaminandolo, e Sarah guardò
fuori con
smania, poiché sentiva la gente gridare e le salì
ancora più
ansia. «Mi avrete vista in tv! Non vorrei mancare di rispetto
a
nessuno, ma ho davvero fretta, non vorrei che la
nave…».
«Se
la stanno aspettando, non partirà senza di lei».
«Il
problema è questo: non penso mi stia aspettando»,
mormorò,
ansimando.
I
tre continuarono a chiacchierare e a ridere, a dirle di averla
già
vista e cercando di ricordare dove, le chiesero perfino l'autografo e
dopo la lasciarono passare, anche se con qualche
perplessità.
La
nave era ancora lì ma alcune automobili si stavano
già spostando
per liberare la zona e Sarah parcheggiò come
poté, con il cuore in
gola. Uscì senza nemmeno assicurarsi di averla chiusa,
doveva averlo
fatto in automatico, e corse, ma non vedeva più nessuno che
potesse
aiutarla. Scorse un uomo e lo fermò, ma le disse che avevano
già
fatto salire tutti e che la nave si stava preparando per salpare,
poiché l'altra stava arrivando. Si guardò in giro
e, spaventata,
pensò di provare a richiamarla, accorgendosi di aver
lasciato il
telefono in macchina. Non poteva davvero partire senza di lei. Corse
indietro e aprì la portiera, cercandolo in fretta sotto le
cose che
aveva tolto dalla borsa e dal cruscotto e, quando finalmente lo prese
in mano e tentò di comporre il numero, udì un
rumore e si voltò,
vedendo che la nave si stava preparando a lasciare il porto.
Non
ce l'aveva fatta. Era finita. Aveva fatto tutto per niente. Si
passò
una mano sulla fronte e poi anche l'altra, stringendo i denti,
ansimando. Forse stava sudando. Aveva passato giorni a perdere tempo,
persa nell'indecisione e allo stesso tempo convinta di voler restare
con Steve, e alla fine aveva perso nell'unico giorno in cui proprio
non poteva permettersi di perdere. Amy era partita e ora là,
da
qualche parte, a pensare a lei che aveva scelto Steve.
Nuovo
lunedì, nuovo capitolo!
Ma
davvero davvero vi aspettavate che tutto ciò che era stato
finora
non era altro che un sogno di Shaw? Oh, non posso non dire che per un
attimo piccolino piccolino io abbia pensato veramente a questa
opzione, ma a mio dire non sarebbe stata una grande scelta
perché
non solo tutta la storia di Philip Lars non avrebbe avuto alcun senso
(e quindi perché arrivare fin lì?), ma anche e
soprattutto perché
il mio intento era quello di costruire una trama che le avrebbe
portate a ritrovarsi. Dunque ci stava come effetto trama, ma non come
finale, che lo trovo atroce… Io stessa poi sono rimasta a
dir poco
traumatizzata da come si è svolta la quinta stagione, quindi
volevo
inventare qualcosa di diverso dalla solita tragedia :P
Alle
note per tornare sull'argomento!
Invece,
ritornando al capitolo… Shaw pensa di aver perso Root ma se
la
ritrova davanti all'improvviso e lei le spiega che ciò che
sta
vivendo è qualcosa che le hanno lasciato dalla sua prigionia
da
Samaritan, che ci sta ancora lottando e che sta vincendo, poi la
stordisce (è un sogno) e finalmente si risveglia, stavolta
davvero,
ritrovandosi nelle fogne. Nel frattempo Root ha messo in atto il suo
piano, servendosi di Brandon e il suo gruppo per creare caos e
mettere a tappeto i Marshall Mason. Dall'altra parte, Sarah esplora
se stessa e dopo tanto rimuginarci capisce di amare Amy più
di suo
marito e che deve andare da lei prima che sia troppo tardi, ma
purtroppo si fa davvero tardi, perde la nave e con lei l'ultimatum
che le aveva dato Amy lo scorso capitolo.
Le
note:
- Avevo scritto nelle note al
primo capitolo che il titolo di questa
fan fiction sarebbe potuto cambiare verso il penultimo/ultimo
capitolo ma alla fine ho deciso di tenere quello che c'è con
una
piccola differenza: il titolo della fan fiction esternamente resta
quello, ma cambia all'interno da questo capitolo in avanti. Questo
solo perché col capitolo 9 si viene a sapere il nome dello
spinoff
- Il
decimo capitolo inizialmente doveva essere più lungo, ma in
rilettura ho aggiunto qualche pezzo e ho deciso di dividerlo in
capitolo dieci e undici
- Il vero
nome di Sarah è Aahoo Jahansouz Shahi ma non ho idea di
quale usi nella patente, così ho mantenuto Sarah
- Quello
che è successo a Shaw quando perde conoscenza alla fine
dello
scorso capitolo e crede di aver sognato tutto è una cosa
che, in
realtà, era stata 'predetta' da alcuni momenti in due scorsi
capitoli. Shaw continuava a ricordarsi della giacca di Root appesa al
muro e aveva paura, non era sicura della realtà. Vediamole
insieme:
“All'improvviso
le venne il dubbio e le immagini si ripresentarono prepotentemente
nella sua testa: la finestra che diventava bianca, il rumore della
pioggia e le gocce che precipitavano sul vetro, lei sul materasso,
con solo il lenzuolo addosso. Era sola. La giacca di Root appesa con
una stampella su un chiodo nel muro. Deglutì. La notte stava
sognando o quello era un sogno e Root era morta?” [Capitolo 2]
“Si
preoccupava, accidenti, e non che Root non sapesse badare a se
stessa, in special modo ora che poteva contare su ambe le orecchie,
ma si sentiva irrequieta in ogni caso. La giacca di Root appesa con
una stampella su un chiodo nel muro continuava ad apparirle nei
pensieri come un monito, accompagnata da un'orribile sensazione che
tentava di strapparsi di dosso ogni giorno. Era il suo
tormento.”
[Capitolo 6]
Era
una cosa che Shaw prima o poi avrebbe dovuto affrontare. Mi sarebbe
dispiaciuto vedere che una volta tornata in libertà dopo la
prigionia da Samaritan, dopo tutto quello che le avevano fatto, non
avesse riportato un qualche 'piccolo' danno collaterale. Ma Shaw
è
forte e, come le dice Root nel sogno, sta vincendo. Non per niente in
questo capitolo, al risveglio, si stufa e semplicemente decide di
continuare la sua vita, sfidando il suo cervello a farle credere di
essere di nuovo in un sogno.
Bene.
Grazie di nuovo a tutti: lettori silenziosi, recensori vecchi e
nuovi, chi pigia sul link del capitolo a caso perché
è curioso…
bon,
tutti! Il prossimo capitolo è… l'ultimo! E questa
fan fiction mi
manca già. Spero che vi sia piaciuta leggerla fin qui e che
il
prossimo capitolo (e l'epilogo) non vi deluda ^^
E
quindi ci si rilegge lunedì con l'undicesimo capitolo: Il
suo posto sicuro.
Bye
~♥
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