«
Non è vero che abbiamo poco tempo:
la
verità è che ne perdiamo molto »
–
Seneca –
Chapter seven
“
Butterflies and hurricanes ”
♟»
New York,
Stati Uniti d’America, 2120
«Spero
vivamente che tutto ciò non sia che uno scherzo di pessimo
gusto».
Jude
scivola rapidamente lungo in corrimano polveroso delle scale
dell’Hilton Hotel, le mani che litigano furentemente con un
bottone della camicia che proprio non vuole saperne
d’infilarsi nell’asola, mentre i lembi della felpa
continuano a sbatacchiare contro il suo corpo, a causa della cerniera
lampo slacciata sul davanti e dell’aria sferzante che
s’è formata attorno al suo corpo, a forza di
andare a quella velocità insostenibile.
«Credimi,
anche io vorrei che lo fosse» Ray sospira di frustrazione,
stare dietro al ragazzo in quelle condizioni è piuttosto
difficoltoso, soprattutto considerando il fatto che si deve fare tutte
le scale a piedi e di corsa, mentre Jude può filare via
tranquillamente seduto su quel pezzo di legno.
Dark non
c’è potuto salire perché, chiaramente, con
ogni probabilità il corrimano non avrebbe retto il suo peso.
«Anche
perché» riprende l’uomo, passandosi
nervosamente una mano tra i capelli «che diavolo di
giovamento potrei trarre dal guastarmi da solo l’unico
momento della mia vita in cui finalmente mi sono sentito bene?»
Jude
termina una rampa di scale, saltando giù dal corrimano con
una capriola a mezz’aria ed atterrando in piedi senza
difficoltà, percorrendo di corsa il pianerottolo per poi
rituffarsi sulla scivolata successiva. Solo quando è sceso
già di un altro piano accenna finalmente a rallentare,
arrestandosi sul posto, come se fosse riuscito a comprendere solo
allora le parole dell’ex Comandante.
Quando
riesce a raggiungerlo, Ray ha il fiato corto, tanto che per
riacquistarne un po’ è costretto a piegarsi su se
stesso, le mani poggiate sulle ginocchia.
«Aspetta»
commenta Jude, osservando con cipiglio incuriosito l’uomo
«hai forse detto di essere stato bene con me?»
«Beh»
l’uomo si tira nuovamente su, drizzando per bene la schiena
«e te ne stai meravigliando?»
Un accenno
di rossore fa capolino sulle guance del ragazzo, che tuttavia si
appresta a nasconderlo, troppo orgoglioso per mostrare i propri
sentimenti perfino in un momento del genere.
«Piuttosto»
borbotta Jude, ostinandosi testardamente a tenere la testa china verso
il basso «perché non mi hai svegliato prima, se
avevi già visto quei cosi invadere la strada?»
«Potrei
dirti che osservarti mentre dormi è così
affascinante che anche solo il lontano pensiero di doverti svegliare mi
è sembrato incredibilmente doloroso» ammette
l’altro, sollevandogli il volto con due dita, in modo da
costringerlo a guardarlo negli occhi mentre gli parla «o che
ho valutato la possibilità di scendere senza dirti niente,
poiché non volevo metterti in pericolo. E non dubitare di me
se adesso ti dico che non saprei quale tra queste affermazioni sia la
più vera, Jude Sharp».
Per un
momento Jude teme di essersi dimenticato come si respira, per poi
costringersi a distogliere lo sguardo dall’uomo, mascherando
il proprio imbarazzo.
«Vedi
di non fare l’eroe, Ray Dark» lo riprende
seccamente, nel borbottio di voce più convincente che riesce
a tirare fuori «ti ricordo che in questa faccenda ci siamo
dentro entrambi fin sopra la testa».
«Certamente»
replica Ray, per poi chinarsi lievemente sul ragazzo, sfiorando le sue
labbra con le proprie. Jude è scosso da un fremito che gli
attraversa il corpo da capo a piedi, mentre il rossore sulle sue guance
non fa che aumentare.
Vorrebbe
poter rimanere ancorato per sempre alle labbra dell’uomo,
tuttavia ciò che gli è concesso non è
nient’altro che quel tocco leggero, eppure così
sorprendentemente e intimamente profondo, prima che Ray si separi da
lui.
«Forza»
mormora Dark, ancora a pochi centimetri di distanza dal ragazzo, le
fronti che si sfiorano soavemente «abbiamo alcuni affari di
cui occuparci».
Jude
vorrebbe fermare la mano di Ray sulla propria guancia, che sente venire
accarezzata con dolcezza, tuttavia non fa in tempo ad afferrarla che
anche quest’ultima si è già allontanata.
Ray si
avvia con ritrovato vigore lungo il corridoio, riprendendo a scendere
le scale, sebbene un velo di mestizia gli avvolga il cuore:
è chiaro che preferirebbe di gran lunga intrattenersi con il
ragazzo, tuttavia immagina che non ci vorrà molto prima che
quell’armata di combattenti di pietra invada anche
l’Hilton Hotel e non solo le vie circostanti. Piuttosto che
ritrovarsi incastrati e nell’incapacità di fuggire
da quel luogo successivamente, meglio agire subito e cercare una via di
salvezza – prima che sia troppo tardi.
Questa
volta Jude affianca l’adulto e decide di scendere le scale
insieme a lui, senza ricorrere allo stratagemma del corrimano. Mentre
una di gradini e gradini continua a scivolare davanti ai loro occhi,
così tanti che quasi sembrano essere infiniti, il ragazzo
lascia scivolare la propria mano in quella di Ray, simulando il gesto
con aria casuale, sperando che il suo ex allenatore non si accorga
della tensione e della paura che si nascondono dietro
quell’azione. Avrei
solo bisogno che tu mi rassicurassi, adesso…
Ray,
tuttavia, conosce fin troppo bene il suo ragazzo e sa cosa si nasconda
dietro ogni suo singolo movimento, figurarsi in una situazione del
genere. È fin troppo cosciente di star chiedendo molto a
Jude, anzi, forse addirittura troppo. E se ne dispiace, eppure spera di
star facendo la cosa giusta, almeno questa volta. Così
stringe con gentilezza quella mano, sperando – almeno in quel
modo – di riuscire a infondere un po’ di coraggio
al giovane.
Quando
ormai Jude comincia a credere che non vedrà mai la fine di
quelle rampe di scale, il ragazzo scorge in lontananza una luce tenue,
bluastra: ci mette qualche attimo a capire che si tratta della notte
eterna che imperversa all’esterno, di un color oltremare
lievemente più tenue rispetto al nero perenne del cielo.
In quel
lucore appena accennato, Jude deve stringere le palpebre, riducendo il
suo campo visivo a due fessure, pur di riuscire a intravedere qualcosa
di quel che accade all’esterno. Peccato che la scena che gli
si para davanti sia tutt’altro che incoraggiante.
Purtroppo
deve constatare che, quello che Ray gli aveva accennato poco prima,
corrispondeva alla verità: un esercito di giganti di pietra,
i ranghi serrati e le schiere perfettamente ordinate. Sono
lì, pronti ad attaccare, anche se forse la cosa
più inquietante è il fatto che quei guerrieri
impugnino, tra le loro mani granitiche, armi di ogni genere: spade,
asce, martelli e mazze chiodate, tutti rigorosamente formati da rocce.
«Oh
Dio» Jude s’arresta in fondo alle scale, fissando
attonito quelle statue «e questi da dove diavolo sono sbucati
fuori?»
«Non
ne ho la più pallida idea» ammette Ray, stringendo
il ragazzo a sé con aria protettiva
«però non possiamo restare più qui. Ce
ne sono a centinaia, non ci metteranno molto prima di sfondare il vetro
e invadere l’albergo».
Jude
deglutisce un po’ a fatica. Non ha paura, accidenti, solo che
per la prima volta in vita sua che si sentiva finalmente felice e al
sicuro, si ritrova nuovamente a dover fronteggiare una situazione
troppo grande di lui. Se
solo per una volta le cose fossero facili…
«Ehi»
Ray gli accarezza la testa, apprensivo «se hai paura puoi
restare qui, me ne occupo io».
«Non
se ne parla» Jude scuote il capo, discostandosi dal corpo
dell’uomo «non provare a fare l’eroe, te
l’ho già detto».
«Va
bene, ho capito» Dark annuisce, seguendo a pochi passi di
distanza il suo amato «e allora cosa pensi di fare?»
«Facile»
il giovane Sharp avanza con passo marziale – il che gli
ricorda in maniera inquietante il periodo in cui studiava ancora alla
Royal Academy – mentre raggiunge l’ingresso
dell’Hilton Hotel «li affrontiamo».
Questa
volta quello titubante sembra essere Ray, che per un momento tentenna
sul posto mentre domanda:«Eh? Sei serio, Jude?»
«Mai
stato così serio in vita mia» il sorriso sul volto
del ragazzo la dice lunga, mentre quest’ultimo pone le mani
ai lati delle porte «non ho intenzione di farmi accerchiare
da un esercito di giganti di pietra».
E,
ciò detto, spinge le porte di lato, che subito si aprono al
suo comando.
Non appena
lo schiocco secco delle porte riempie la via, le teste di tutti i
guerrieri di pietra ruotano in direzione dell’entrata
dell’hotel, le loro espressioni fredde e imperturbabili che
si specchiano in quella determinata di Jude.
«Qualora
ne avessimo bisogno, abbiamo appena ricevuto la conferma che questi
energumeni possiedono anche la capacità di
muoversi» sentenzia il giovane, lapidario.
«Beh,
te l’avevo detto» Ray sbuffa, indirizzando
l’improvviso getto d’aria verso una ciocca di
capelli, che proprio non ne vuole sapere di stare al suo posto,
continuando a cadergli in maniera irritante davanti al volto
«altrimenti come avrebbero fatto ad arrivare fin qui?
Materializzandosi dal nulla?»
«A
quanto pare, l’ironia non è il tuo
forte» replica Jude, seccato «ad ogni modo, non ho
la benché minima intenzione di rimanere qui con le mani in
mano».
«E
questo cosa vorrebbe dire?» domanda Dark, inarcando le
sopracciglia.
«Ovvio»
il ragazzo sogghigna appena, sa già esattamente quale
sarà la sua prossima mossa «li attacco per
primo».
Ray fa per
aprire la bocca, con tutte le intenzioni di ribattere – non
può certo lasciare che il suo ragazzo s’imbarchi
in un’impresa del genere – tuttavia non fa in tempo
a dire niente che Jude è già scattato in avanti.
Prendendo
una rincorsa poderosa il ragazzo scarta di lato, per poi spiccare un
balzo che lo fa atterrare direttamente sulle spalle di uno dei giganti
di pietra. Una volta lì, senza dare modo alla statua di
attuare un contromossa, colpisce con un calcio preciso la testa del
guerriero, che viene recisa di netto dal collo e il resto del corpo,
finendo per volare secondo una traiettoria orizzontale dritta davanti a
sé, colpendo e distruggendo i capi di altri tre combattenti.
«Bel
colpo!» esclama Ray, con un fischio di apprezzamento.
Jude
sorride soddisfatto, incrociando le braccia al petto.
«A
quanto pare, anni e anni di allenamenti hanno dato i loro
frutti» commenta, con estrema nonchalance.
A quel
punto, incoraggiato dai buoni risultati ottenuti dal giovane, anche Ray
decide di arrampicarsi su uno di quei lottatori. Certo, lui non
può contare sull’agilità e la
freschezza del ragazzo, tuttavia decide di non demordere lo stesso,
tirando fuori le unghie e scalando lentamente quell’ostacolo
terribile, inerpicandosi a forza lungo la schiena di un altro gigante.
Tuttavia,
il loro trionfo dura per poco.
A terra,
infatti, le teste troncate da Jude iniziano a vibrare, talmente forte
che di colpo l’intera strada è tutta un tremito e
Ray e il ragazzo devono fare appello a ogni briciolo della loro
determinazione – e anche alle scarse capacità di
equilibrismo che possiedono, certo – pur non perdere la
stabilità che faticosamente hanno acquisito e fare la figura
degli idioti, cadendo rovinosamente a terra.
Eppure, in
quel momento il loro problema è un altro: infatti, di colpo
le teste che Jude era riuscito a separare dai corpi dei giganti si
sollevano nell’aria, tornando a posarsi sulle spalle dei
guerrieri e ricongiungendosi saldamente ai loro colli.
«Oh,
no» mormora Dark, un’espressione funerea sul volto
«questa proprio non ci voleva».
Come a
voler confermare le sue parole, proprio in quel momento il gigante sul
quale l’uomo stava cercando di arrampicarsi colpisce con
decisione il marciapiede accanto a sé con la mazza in suo
possesso, sollevando una grossa nuvola di polvere e schegge di cemento
armato che volano da una parte all’altra della scena.
«Ray!»
grida Jude, il cuore in gola, una mano a coprirgli le labbra e la
disperazione dipinta negli occhi, alcune lacrime che già
fanno capolino. Lo sapeva, lanciarsi in una pazzia troppo grande, un
rischio che – ora come ora – non potevano
permettersi di correre, tuttavia lui si era lasciato convincere ed era
stato addirittura il primo a gettarsi a capofitto in una prova del
genere, mettendo a repentaglio anche la vita del suo compagno. Oh, Dio...
Lentamente
la polvere inizia a diradarsi, liberando il campo visivo e grazie al
cielo Jude può tirare un enorme sospiro di sollievo: Ray
è ancora lì, appollaiato sulle spalle del
gigante, tutto accoccolato per potersi proteggere da schegge e polveri
varie. Emette un profondo colpo di tosse, con ogni
probabilità deve aver respirato dell’aria
insalubre e carica di terra, per il resto però non sembra
aver riportato nessuna conseguenza fisica.
«Sto
bene» si affretta a comunicare, rincuorando infinitamente il
ragazzo «tuttavia non potremmo mai batterci alla pari contro
questi esseri. Anzitutto siamo in evidente svantaggio numerico
– saremo due contro duecento – inoltre hanno anche
uno sproposito di forza fisica: potremmo continuare a lottare con
questi cosi per quanto ci pare, però se loro continuano a
ricomporsi ogni volta che li colpiamo, allora le nostre chance di
vittoria sono sotto lo zero».
Il quadro
descritto da Ray è a dir poco desolante,
tant’è che Jude pesta per qualche secondo i piedi
nervosamente sulle spalle del suo combattente, cercando di ragionare.
Adesso gli farebbe tanto comodo una delle sue solite idee geniali,
peccato che ora come ora la sua mente sia un vero e proprio
vuoto cosmico.
«E
allora» riprende, turbato «come possiamo superare
un dispendio di forze del genere?»
«Beh,
non è poi così difficile» spiega Dark,
cercando di risultare pragmatico e preciso come al solito «di
affrontarli frontalmente non se ne parla, perciò ci
toccherà ricorrere alla nostra arma migliore:
l’astuzia»
«E
cioè?» lo incalza Jude, visibilmente impaziente.
«E
cioè» conclude Ray «non ci resta che
allontanarli».
♟»
Londra,
Regno Unito, 2059
Quando Amos
riesce finalmente a raggiungere Tower Bridge ha il fiato corto e il
volto arrossato dallo sforzo fisico. Deve poggiare le mani sulle
ginocchia e prendere delle profonde boccate d’aria per
tornare a respirare più o meno regolarmente – e
nonostante ciò non gli sembra ancora abbastanza.
Poco dopo
vede arrivare degli sconsolati e affaticati Thiago, Amelia e Andrea,
che purtroppo si presentano tristemente a mani vuote, la mestizia e
l’afflizione ben dipinte sui loro volti.
«Non
ditemi» inizia Amos, il fiato ancora altalenante
«che abbiamo fatto… tutta questa
strada… inutilmente».
«Beh,
inutilmente non direi proprio» replica Andrea in tono piatto,
mentre si sistema gli occhiali «considerando che quei
documenti erano per noi della massima importanza».
«Ma…?»
fa pressione su di loro Julie.
«Non
siamo riusciti a recuperarli» annuncia Thiago, seccamente.
In quel
momento, un crollo generale sembra imperversare tra i crononauti. Amos
si lascia sfuggire un mugolio di disperazione, tornando a valutare che
quello debba trattarsi di un ennesimo colpo di coda della sua perenne
sfortuna, mentre Claudine si affloscia letteralmente al suolo, esausta.
Atemu se ne rimane in disparte, deluso da quel risultato; quanto a
Julie, si limita a posare una mano sulla spalla della connazionale, nel
tentativo di rassicurarla.
«Non
fatevene un cruccio» cerca di rincuorarli la Dupont, un
sorriso solare nonostante i capelli color cioccolato siano in parte
sfuggiti alla sua elegante acconciatura, incollandosi alla fronte
imperlata di sudore per via della fatica «tutti noi abbiamo
dato il nostro meglio, dopotutto».
Margarita
muove passi lievi intorno all’atipico gruppetto, osservando
il paesaggio circostante. Sembra essere la meno affaticata, il respiro
perfettamente regolare e il volto ancora cereo – con ogni
probabilità, dev’essere abituata a grandi sforzi
fisici, considerando che appartiene alla vita di strada e si mantiene
con furti neanche troppo saltuari: bisogna saper correre via in fretta,
dopo aver commesso un reato, pur di non farsi beccare dalla polizia.
La giovane
lituana osserva attentamente il paesaggio che la circonda: dopo che la
nave ha attraversato il Tower Bridge, il ponte è stato
tirato di nuovo giù, così che il traffico delle
auto potesse tornare regolare. Il cielo sopra Londra è
grigio e tetro, alcuni cumuli di nubi che svolazzano qua e
là e una sottile nebbiolina che persiste
nell’aleggiare soavemente, anche se solo nelle zone limitrofe
al Tamigi. Un lungo viale alberato costeggia le rive del fiume, mentre
passanti di ogni genere scivolano lungo i lisci marciapiedi della
metropoli: ci sono uomini e donne di ogni età che praticano
jogging, dai giovani ventenni ai quarantenni con il callo per la forma
fisica, chi più affaticato e chi meno, quasi tutti con tute
in materiale sintetico un po’ troppo leggere per la stagione
e un paio di auricolari, musica rock a tutto volume che infonde loro
energia per l’attività sportiva; poi annovera nel
suo conteggio uomini d’affari, manager in carriera che
camminano con passo spedito, le giacche grigie infeltrite che arrivano
loro fino ai piedi mentre non riescono a staccare nemmeno per un
momento il cellulare di ultima generazione dall’orecchio
perché no,
il prezzo di mercato è ancora troppo alto, va ribassato;
infine turisti e abitanti della città, facilmente
distinguibili tra loro visto che i primi si guardano intorno con aria
frastornata e stupefatta, scattando foto a questo e quello –
finendo per immortalare anche scorci senza monumenti o comunque punti
d’interesse – con le loro reflex super costose, gli
altri cercano di farsi spazio tra tutta quella calca, imprecando tra i
denti mentre cercano di non arrivare in ritardo anche al prossimo
appuntamento di lavoro.
Oh,
Margarita ama così tanto analizzare quelle persone,
immaginare quale storia possano avere, resterebbe lì per
delle ore intere a ideare le sue supposizioni…
Amelia
tuttavia richiama d’improvviso l’attenzione dello
scapestrato gruppetto, tenendo un braccio alzato per catturare anche lo
sguardo di tutti i ragazzi.
«Torniamo
alla bottega» annuncia, la voce decisamente scoraggiata
«abbiamo ancora il foglio su cui stavamo
lavorando… speriamo che possa bastarci».
~♟~
Sulla via
del ritorno, Amelia rimane in fondo al gruppo, gli occhi bassi
sull’asfalto umido che percorre e la testa piena di mille
pensieri. Si sente terribilmente in colpa per essersi lasciata sfuggire
quel ladruncolo, inoltre potrebbe aver sottratto loro delle
informazioni importanti sugli Orologi… e tutto
perché lei non è riuscita ad acciuffarlo.
Chissà
cosa avrebbe pensato sua madre, se sarebbe stata fiera di
lei… ne dubitava. Anche se adesso Elizabeth Greene non
c’era più, continuava a darle dispiaceri
– Amelia sperava vivamente che non si stesse ribellando nella
tomba. Era sempre stata quel genere di “figlia
modello” che tutti i genitori desidererebbero: studiosa,
disciplinata, impegnata in mille attività, scolastiche e
non. Aiuto bibliotecaria alla London Library, iscritta al club di
atletica e a quello di dizione, spesso in prima linea in alcune
manifestazioni pubbliche… insomma, una ragazza perfetta.
Beh, almeno all’apparenza.
Amelia
infatti aveva imparato in fretta che il peso delle proprie
responsabilità finiva sempre per schiacciarti, se non
riuscivi a star dietro a queste ultimi. E la giovane, in effetti,
arrivata ad un certo punto della sua vita, non era riuscita
più a seguire ogni cosa come un tempo. Si era sentita
schiacciare dal peso opprimente di tutte quelle incombenze, un macigno
pesantissimo sul cuore che le impediva di respirare. Era stato proprio
per questo motivo se, di colpo, aveva iniziato a saltare sempre
più lezioni o ad abbandonare buona parte delle sue
attività pomeridiane. Si era richiusa sempre di
più in se stessa, passando interi pomeriggi rinchiusa in
camera sua e uscendo agli orari più improbabili della sera,
smettendo di frequentare i suoi vecchi amici e trovandosene di nuovi,
che la trascinavano nei vicoli più oscuri di Londra,
introducendola in una spirale viziosa di alcool e fumo dal quale era
impossibile sottrarsi. Se non ti omologavi alla massa, non eri degna di
entrare a far parte del gruppo. Era diventata sempre più
schiva e aggressiva, rispondeva spesso male anche ai suoi genitori e
sgattaiolava fuori casa agli orari più improbabili della
notte, tornando solo alle prime luci dell’alba, nonostante
suo padre e sua madre gliel’avessero vietato – era
diventata molto brava a scivolare di sottecchi su e giù
dalla scala antincendio fuori dalla finestra della sua stanza.
Con la
morte della madre, tuttavia, qualcosa in lei era cambiato, come se una
parte della sua anima si fosse spezzata definitivamente. Aveva
abbandonato le sue cattive frequentazioni ed era tornata a stare vicina
al padre, cercando di consolarlo – riteneva infatti che
portare un peso del genere in due fosse più facile che da
soli. Era tornata a scuola, finendo l’ultimo anno di liceo e
iscrivendosi all’università presso la
facoltà di giornalismo, il lavoro che aveva sempre sognato
di fare – e che un tempo era stato anche quello di sua madre
– conseguendo per altro degli ottimi risultati. Oltre a
gettarsi a capofitto nello studio, aveva anche cercato un lavoretto,
così da sostentare sia se stessa che suo padre, raggiungendo
una certa indipendenza economica: era stata commessa presso un negozio
di abbigliamento, barista, per un periodo aveva perfino consegnato i
quotidiani a domicilio e ricevendo uno stipendio miserrimo. Aveva
conosciuto – soprattutto all’università
– nuovi amici, persone dagli animi splendidi, sempre
così solari, gentili e disponibili, che con la loro
sensibilità e comprensione l’avevano accettata e
aiutata a riprendersi dopo quel brutto periodo.
Suo padre
era partito, trasferendosi in un’altra città
– Atlanta, in Georgia, uno stato americano – per
praticare ancora la sua professione di medico. Aveva detto ad Amelia
che restare ancora a Londra era diventato per lui impossibile, vivere
in quella casa una tortura che ogni giorno gli riportava crudelmente
alla mente i ricordi della moglie che aveva tanto amato e che adesso
invece aveva perso per sempre. Amelia aveva trovato la scelta di suo
padre estremamente ipocrita e non gliel’aveva mai perdonata,
sebbene da una parte riuscisse anche a capirlo. Anche per lei era dura
continuare a vivere lì, resistere ogni giorno
all’impulso di correre in camera sua e aprire
l’armadio, infilare il naso tra i vestiti della donna e
cercare, ancora una volta, perfino la più minima traccia di
quel profumo inconfondibile di acqua alle rose, che aveva sempre
associato a sua madre fin da quand’era una bambina,
illudendosi che lei fosse ancora lì. L’aveva fatto
spessissimo, i primi mesi dopo la sua scomparsa… ora invece
cercava di evitarlo, perché sapeva che se fosse tornata
lì probabilmente non sarebbe più riuscita ad
uscirne.
Per lunghi
mesi aveva temuto di essere lei la causa del suicidio di sua madre: le
aveva dato troppi dispiaceri, fino a che la donna era giunta al punto
in cui sopportare ancora fosse impossibile e per questo si era tolta la
vita. Quel rimorso le aveva roso lo stomaco per giorni e tolto il sonno
notti intere, perlomeno fino all’apertura del testamento.
Amelia era rimasta sorpresa di quella convocazione, non pensava che sua
madre avesse lasciato qualcosa in eredità – o
perlomeno, non si aspettava di essere lei una degli
eredi. Dopo tutti i “ti odio” che le aveva urlato
in faccia negli ultimi mesi – sebbene non ci credesse davvero
in quelle parole, certo, peccato che se ne fosse resa conto solo quando
lei ormai non c’era più – non credeva
che sua madre tenesse ancora a lei. In fondo l’avrebbe
capita, se avesse preferito estrometterla dal testamento, sarebbe stata
una scelta ben più sensata, tant’è che
nemmeno Amelia stessa sapeva che il suo nome fosse scritto
lì… l’unico altro erede era suo padre,
l’uomo che era stato accanto ad Elizabeth Greene fino
all’ultimo dei suoi giorni e questa era una decisione che
Amelia comprendeva già molto di più. Ma
lei…?
All’apertura
del testamento, suo padre non si era presentato, dichiarandosi troppo
impegnato con il suo nuovo lavoro ad Atlanta. Ennesimo punto a suo
sfavore, perlomeno a dire di Amelia. All’uomo era toccata la
maggior parte dei beni di sua madre, comprensivi di gioielli,
utilitaria e la vecchia villa di famiglia al mare. Era passato per la
riscossione qualche mese prima, senza nemmeno avvisarla del fatto che
fosse in città. Con ogni probabilità anche lui
riteneva Amelia responsabile della morte della donna, pertanto se
poteva evitare di vedere quella figlia che tanto a lungo si era
sottratta al suo controllo di genitore, lo faceva ben più
che volentieri. Quanto ad Amelia, invece, era toccato proprio
l’Orologio.
All’inizio
aveva pensato che si trattasse di un cimelio da niente, il genere di
rivincita personale che i genitori si prendono dopo che i figli si sono
comportati così tanto a lungo scorrettamente nei loro
confronti. Quando invece aveva scoperto che l’Orologio era in
grado di viaggiare nello spazio e nel tempo e che sua madre era morta
per difendere quell’oggetto, aveva pensato che si trattasse
di una punizione, che la incatenava crudelmente a patire lo stesso
destino della donna. Infine, nel momento in cui aveva conosciuto Darren
proprio viaggiando con quell’Orologio, le era balenato in
mente il sospetto che quello fosse l’ultimo regalo che
Elizabeth Greene aveva deciso di lasciarle. Già, ma
perché?
Quando
aveva ritrovato la lettera in cui le scriveva che era stato per via
dell’Orologio che era morta, uccisa da qualcuno che voleva
quell’oggetto e non suicidandosi, si era sentita immensamente
sollevata – allora
sua madre non si era tolta la vita a causa sua! Forse non ce
l’aveva poi così tanto con lei!
– ma al tempo stesso incredibilmente terrorizzata: se
qualcuno era arrivato ad uccidere sua madre pur di impossessarsi di
quell’artefatto, evidentemente senza riuscirci, allora forse
sarebbe potuto arrivare a cercare di far fuori anche lei.
Di una cosa
Amelia era assolutamente certa: se mai avesse incontrato
l’assassino di sua madre, gliel’avrebbe fatta
pagare, a qualsiasi costo.
«Amelia?»
di colpo la ragazza si sente ridestare dai suoi impenetrabili pensieri,
tratta via da quella matassa intricata da due braccia forti. La giovane
scuote lievemente il capo, cercando di risvegliarsi da quella sorta di
trance: si guarda a destra e a sinistra, nel tentativo di individuare
la fonte di quel richiamo.
Si
sorprende non poco quando si rende conto che la voce proveniva da
Thiago, che ora cammina al suo fianco. Il ragazzo le sorride
dolcemente, dimostrandole un briciolo di comprensione.
«Tutto
bene?» riprende, una nota interrogativa nella voce e nello
sguardo «Saranno tre o quattro volte che ti chiamo.»
«Cielo,
perdonami» mormora Amelia, passandosi con imbarazzo una mano
tra i capelli «ho la testa piena di
pensieri…»
«A
tal proposito» Thiago la anticipa, cogliendola in contropiede
«mi dispiace se non siamo riusciti a fermare quel ladro,
prima. So che per te questa questione è molto importante,
magari quel che ha rubato poteva esserci utile. Se solo fossi riuscito
a correre più in fretta…»
«No,
ha ragione Julie» Amelia sospira, scuotendo appena la testa
«è inutile adesso stare qui a parlare con i se e
con i ma, Thiago. Abbiamo fatto tutto quel che potevamo e non
è bastato, semplicemente. Per fortuna, abbiamo ancora il
foglio con le rappresentazioni di tutti gli Orologi. Non dobbiamo far
altro che tornare alla bottega e rimetterci a lavoro su quello; e poi
non credo che non ci siano altri documenti sugli Orologi, sparsi in
giro per il laboratorio…»
Thiago
sorride di compiacimento, incrociando con nonchalance le braccia dietro
alla schiena.
«Sei
una che non si da mai per vinta, eh?» commenta, lo sguardo
intenso e magnetico posato sull’esile figura di Amelia.
«Diciamo
che ho imparato a rinascere dalle mie ceneri, un po’ come una
fenice» replica lei, con fare pragmatico e allo stesso tempo
enigmatico, le guance lievemente arrossate per la sensazione di
soggezione che prova ogni volta che il ragazzo la osserva. Non
è fastidio, affatto… forse il punto è
che non riesce proprio a capire quale emozione provi, ogni volta che la
guarda.
«Già,
in merito a questo» riprende lui, distogliendo lo sguardo
dalla ragazza e puntandolo nuovamente sulla strada davanti a
sé «mi dispiace davvero. Per tua madre,
intendo.»
Nel sentire
quella frase, Amelia si sente come trafitta da una pugnalata in pieno
petto, sebbene cerchi di non darlo a vedere. Tiene la testa e lo
sguardo basso, puntati sulla strada che percorre – sono
finalmente tornati nel vialetto pieno di ciottoli dove si trova la
bottega. In un certo senso, se l’è cercata,
dopotutto era stata proprio lei a raccontare agli altri di sua madre.
Odiava la
compassione che trovava negli occhi e nella voce delle altre persone,
quando rivelava loro la verità sulla donna: i loro
“mi dispiace” suonavano incredibilmente falsi, alle
orecchie della giovane, mentre quegli sguardi si riempivano di una
comprensione così mendace. Cosa volevano comprendere,
dopotutto? Erano stati forse uccisi anche i loro genitori, a causa di
quell’assurda guerra magica?
Con Thiago
invece è diverso: lui almeno ha già in comune con
lei qualcosa, quel peso incredibilmente gravoso che entrambi sono
costretti a portare che altro non sono se non le
responsabilità che derivano dal possesso di un Orologio.
È
bello sapere che, almeno qualcuno sulla faccia della Terra, non la
giudicasse.
«Grazie»
mormora Amelia, riconoscente.
In quel
momento, i ragazzi in cima al gruppo rifluiscono nuovamente nel
negozio, scendendo lentamente lungo i gradini di legno, come se
stessero varcando la soglia di un luogo sacro e arcano – in
effetti, in parte è proprio così.
Gli ultimi
ad entrare sono proprio Thiago e Amelia, un tantino più
trafelati del dovuto. La ragazza si ferma sul primo gradino
d’ingresso, osservando attentamente gli altri ragazzi che si
dispongono all’interno. Sembra che stiano aspettando un
ordine dalla ragazza, che tuttavia esita. Quando ancora si trovavano
nei pressi del Tamigi ha dato prova di essere decisa e dal polso fermo,
indirizzando tutti di nuovo verso la bottega; ora che sono di nuovo
qui, tuttavia, non sa bene cosa fare: dove potrebbero cercare?
C’è una soluzione giusta o una sbagliata?
«Dunque»
esordisce, torturandosi le mani dietro lo schiena «dobbiamo
guardare ovunque, a costo di mettere ancor più a soqquadro
questo posto. Deve esserci qualcosa che possa farci capire quale strada
prendere…»
Atemu,
Amos, Andrea, Claudine, Margarita e Julie annuiscono, per poi
cominciare a rovistare un po’ ovunque, dividendosi in coppie
o piccoli gruppetti. Thiago scende invece un paio di gradini,
portandosi di fronte ad Amelia.
«Che
ne dici se io e te diamo un’occhiata insieme?» le
propone, allungando una mano nella sua direzione.
La giovane
acconsente, ponendo il proprio palmo pallido e minuto in quello forte e
abbronzato del ragazzo. A quel punto Thiago la conduce gentilmente
giù lungo le scale, ad ogni suo passo ne corrisponde uno di
Amelia.
I due
tornano al tavolo da lavoro su cui, poco prima, avevano lasciato il
foglio che stavano analizzando insieme agli altri crononauti, troppo
presi dall’inseguimento del ladro per potersene occupare
ancora.
Adesso che
si trovano di nuovo lì, tutti quei disegni e lettere
arzigogolate sembrano incredibilmente senza significato per Amelia,
tanto che la ragazza li vede vorticare in maniera confusa davanti ai
suoi occhi e nella sua mente, gettandola in una terribile caos. Si
porta una mano alla testa, d’improvviso le sembra di
avvertire una forte emicrania e per un momento i sensi le vengono meno,
tanto che rischia di cadere al suolo svenuta.
Fortunatamente,
Thiago riesce ad afferrarla proprio all’ultimo secondo, un
istante prima che le ginocchia della giovane impattino dolorosamente al
suolo.
«Ehi»
la richiama il ragazzo, tenendola sollevata con le mani poste sotto le
sue ascelle «a quanto pare la corsa ti ha stancata
più del dovuto.»
«Già»
ammette Amelia, sebbene non sia totalmente d’accordo con lui.
Si rimette faticosamente in piedi, reggendosi al bancone con i palmi
delle mani ben piantati su di esso.
La
verità è che è tutta
quell’intera giornata ad essere stancante, solo che Amelia si
rifiuta di ammetterlo a se stessa e agli altri, per paura che poi
qualcuno possa costringerla ad andare a casa a riposarsi. E lei non ha
alcuna intenzione di tornarsene a casa sua, assolutamente, almeno
finché non avranno risolto quella storia.
«Aspetta»
mormora Thiago, allontanandosi dalla ragazza solo quando è
certo che riuscirà a reggersi in piedi da sola, perlomeno
per qualche altro secondo. Poco dopo, infatti, se ne ritorna con uno
sgabello – lo stesso che Amos aveva fatto cadere a terra,
quando si erano resi conto della presenza del ladro nella bottega.
Amelia, seppur riluttante, si accomoda su di esso.
«Allora»
riprende il ragazzo, una volta tornato nuovamente al suo fianco
«io direi di ripartire da qui. Dopotutto, prima
dell’incursione del ladro, stavamo ispezionando questo
foglio.»
Amelia
annuisce, concorde, così Thiago prosegue:«Bene.
Allora, qui sono rappresentati sedici Orologi, tra cui gli otto in
nostro possesso – rispettivamente quelli con i simboli di
corvo, ragno, libellula, pavone, maschere, mondo, scheggia di vetro e
ingranaggi. Poi ce ne sono altri otto e il problema è qui:
io ero a conoscenza del fatto che esistessero dodici Orologi, non
sedici. Come sai ho studiato a lungo ogni cosa in merito a questo
argomento e, se non mi ricordo male, mi pare che una volta su un antico
manoscritto avessi letto che tra i dodici Orologi originariamente
costruiti da Joshua ci fossero – oltre ai nostri otto
– anche altri quattro che riportavano rispettivamente le
effigi del Sole, della Luna, di una freccia e infine una clessidra.
L’Orologio con quest’ultima immagine sarebbe, a
quanto pare, il più potente, una sorta di tramite tra tutti
gli altri. Il problema è che non ho la più
pallida idea di cosa diavolo siano questi quattro nuovi
Ori…»
Con
ciò, Thiago indica ad Amelia gli Orologi in questione sul
progetto: sono diversi da tutti gli altri, poiché i dorsi di
questi ultimi o sono più decorati o non lo sono affatto.
«C’è
scritto qualcosa accanto?» domanda Amelia, dubbiosa.
Thiago si
piega in avanti, osservando attentamente la vecchia scrittura raffinata
e piena di ghirigori. Ma
che lingua è, cirillico?
«Oro
del Bene, Oro del Male, Oro della Luce, Oro delle Tenebre. La cosa non
mi piace, sembra molto in stile fantasy medievale o qualcosa del
genere» annuncia Thiago, storcendo un po’ il naso.
«Non
posso darti torto» si associa la ragazza, che spia il
documento affacciandosi oltre le spalle del giovane.
Di colpo un
rumore improvviso raggiunge le orecchie dei due ragazzi, che subito si
voltano verso la fonte di quel trambusto. Amelia non si stupisce troppo
quando vede Julie lanciare un gridolino piuttosto acuto, gettando in
preda al panico le braccia attorno al collo di una Claudine
dall’aria alquanta apatica, come se non fosse affatto turbata
da un gesto del genere. In un primo momento la giovane dai corti
capelli corvini crede che si tratti di un inconveniente come quello di
prima – un altro ratto, oppure un ragno tutto intento a
correre lungo le travi di legno incassate nel soffitto del negozio
– quando tuttavia poco dopo si rende conto che non
è di questo che si tratta, subito si mette
sull’attenti.
Per un
lungo, terribile istante crede perfino che possa trattarsi nuovamente
di quel ladruncolo da strapazzo, eppure non è nemmeno di
questo che si tratta, così, una volta fatto il giro intorno
al ligneo tavolo da lavoro, affianca Claudine e Julie, seguita a ruota
da tutti gli altri crononauti.
Una volta
lì, la questione le è ancora meno chiara di prima.
A terra,
infatti, si trova una strano macchinario – piuttosto moderno,
soprattutto se si considera che quella bottega dovrebbe essere ferma
agli anni di fine ‘700 – che vibra rumorosamente e
brilla di una luce chiara e intensa.
Come
diavolo è possibile che un marchingegno del genere sia
arrivato in quel locale, rimasto chiuso per molti anni e inaccessibile
a chiunque? Lo ha forse portato il tipo di poco prima? No, impossibile.
Eppure Amelia è abbastanza certa di non averlo visto, al suo
ingresso lì.
Una cosa
del genere non dovrebbe passare inosservata, no?
Tutti i
crononauti sembrano essersi immobilizzati sul posto, troppo spaventati
al pensiero di dover prendere quel coso in mano. E se dovesse esplodere di colpo?
«È
c-caduto all’improvviso da là sopra»
spiega finalmente Julie, dopo diversi minuti in cui il silenzio
più assoluto aveva regnato sul locale «io e
Claudine stavamo dando un’occhiata qua in giro e lui bum!, è
piombato giù dall’armadio.»
Mentre
Julie non sembra ancora essersi ripresa del tutto dallo spavento,
Amelia invece non riesce a staccare lo sguardo da
quell’oggetto misterioso.
«Forse
non dovremmo toccarlo. Potrebbe essere
pericoloso…» la mette in guardia Atemu, le braccia
conserte strette al petto e un’espressione dura a solcargli
il volto.
Amelia non
sembra nemmeno sentire le parole del ragazzo,
tant’è che poco dopo si china in avanti e afferra
l’attrezzo non identificato tra le mani, tenendolo ben
stretto tra le mani.
Quando la
giovane drizza nuovamente la schiena, tutti i crononauti –
tranne Andrea e Thiago – fanno un balzo
all’indietro, impauriti. Amos, piuttosto terrorizzato, si
aggrappa alla camicia di Atemu, che viene allontanato a sua volta,
sebbene apparentemente contro la propria volontà –
probabile che Amos tema l’incombere dell’ennesimo
colpo di sfortuna e tenti di proteggersi come meglio può
– mentre Julie e Claudine sono ancora strette l’una
all’altra e procedono insieme verso l’interno del
negozio.
«A
me questa faccenda sembra proprio bruttabruttabrutta--»
commenta timoroso Amos, facendo capolino da dietro la spalla di Atemu,
gli occhi inquieti che saettano da una parte all’altra,
mentre sembra incapace di smettere di tremare.
«Riesci
a non tremare? Non credevo che fossi un idromassaggio»
replica Atemu, inarcando un sopracciglio folto e scuro mentre fulmina
con lo sguardo il ragazzo ucraino.
Amelia si
volta di scatto e quasi tutti gli altri ragazzi sobbalzano, chi per la
sorpresa e chi per la paura. La giovane prosegue dritta davanti a
sé, dirigendosi verso i tavoli da lavoro e al suo passaggio
i compagni crononauti le fanno ala, terrorizzati dal macchinario
sconosciuto che tiene tra le mani. Gli unici che la seguono senza
esitazioni, come al solito, sono Andrea e Thiago, imperturbabili.
La ragazza
poggia quell’affare sul tavolo e subito tutti gli altri le si
affollano attorno, alcuni stavolta però si tengono un
po’ più a distanza di sicurezza, spaventati da
ciò che quell’attrezzo misterioso potrebbe
provocare.
«Potrebbe
essere pericoloso, è vero» replica Amelia,
decidendosi finalmente a rispondere alle parole di Atemu di poco prima
«però non possiamo saperlo. Potrebbe anche
aiutarci a scoprire qualcosa in più su tutta questa storia,
forse, solo che non possiamo andare avanti con tutti questi mille
dubbi. Se non ci proviamo, non sapremo mai quale sia la
verità.»
Thiago,
Margarita, Julie, Claudine e Andrea annuiscono, convinti. Gli unici a
risultare un po’ più restii o dubbiosi sembrano
essere Amos e Atemu; il giovane dalla pelle color caffellatte si volta
in direzione del ragazzo dall’incarnato perlaceo, ancora
ancorato alle sue spalle. Pare piuttosto spaventato, tuttavia non
rivolge né parole né gesti o tantomeno cenni
– del capo così come di qualsiasi altra parte del
corpo – all’altro. Si limitano a guardarsi a lungo
negli occhi, per degli attimi travestiti da ore.
Quando
Atemu si decide finalmente a voltarsi di nuovo verso Amelia, le lascia
un unico cenno di assenso col capo, senza aggiungere altro. A quel
punto la giovano torna a focalizzare tutta la sua attenzione
sull’oggetto davanti a sé, analizzandolo
attentamente.
Le fattezze
sono piuttosto simili a quelle di un lettore cd – un pezzo
d’antiquariato, ormai, nel 2059 – quindi basso, di
base circolare e piatta, solo che un po’ più
grande; la superficie è liscia e lucida, probabilmente di un
materiale plastico o metallico. È in maggioranza di un
colore argenteo, anche se alcune rifiniture possiedono invece delle
sfumature bluastre. Infine, sul bordo che corre tutto intorno
all’oggetto, sembrano esserci dei pezzi in
rilievo… tasti, forse?
Amelia
avvicina con timidezza e riverenza – oltre forse ad un
pizzico di timore – la punta delle dita a quei pulsanti,
facendo ben attenzione ad essere quanto più delicata
possibile. Esercita una lieve pressione su quello centrale, fino a che
un violento fascio di luce azzurrognola si dirada a partire dalla
superficie di metallo di quello strano oggetto. Ma che diavolo…?
Al centro
di quell’alone luminoso compare la riproduzione del
mezzobusto di un uomo, probabilmente sulla sessantina. È
piuttosto basso, i capelli che gli rimangono sono bianchi e radi,
disposti ai lati della nuca come sparuti ciuffi d’erba in un
prato inaridito, mentre al centro il cranio è rivestito solo
da lembi di pelle chiara e lucidissima – una sorta di
acconciatura monastica – in uno stato di calvizie ormai
già palesemente avanzato. Ha occhi piccoli e scuri, sul naso
pende un paio di occhiali dalle lenti tondeggianti e microscopiche. I
suoi tratti sono gentili, tuttavia ogni cosa in lui ispira vecchiaia,
compreso il suo abbigliamento, a cominciare dalla camicia bianca con le
maniche arrotolate fino ad arrivare al vecchio camice da laboratorio,
ormai logoro e consunto. Nonostante la statura ridotta, la sua
è una figura magra, esile e minuta.
«Cosa…—»
cerca di domandare Julie, prima che la voce di
quell’ologramma interrompa le sue parole.
«Salve,
forestieri» comincia, una certa nota concitata nella voce
«se avete trovato questo messaggio, allora vuol dire che per
me ormai non c’è più speranza. Il mio
nome è Joshua Parrish e sono l’ideatore degli
artefatti che pendono al vostro collo, gli Orologi.»
Nell’udire
quella frase, tutti i crononauti sobbalzano, allibiti.
«Com’è
possibile?» mormora Thiago, confuso.
«Ci
sarebbero molte cose che vorrei spiegarvi, purtroppo tuttavia un
terribile nemico è sulle mie tracce e devo sbrigarmi e
fuggire via da qui il prima possibile, altrimenti per me
sarà la fine. Per più di duecento anni sono
riuscito a sostentarmi grazie alla magia degli Orologi, arrivando quasi
fino ai giorni vostri: chiunque sia in possesso di tutte le copie
presenti, infatti, potrà considerarsi il Signore del Tempo.
Credo che
vi sarete accorti che, grazie ai vostri artefatti, non solo siete
perfettamente in grado di viaggiare attraverso lo spazio-tempo a vostro
piacimento, ma anche che, per tutto il tempo in cui continuerete a
usufruire dei vostri Ori, vi sarà impossibile invecchiare.
Tuttavia, ahimé, c’è anche qualcun
altro che vorrebbe ottenere questo elisir di lunga vita, ossia colui
che sta per uccidermi. Se costui dovesse riuscire ad impossessarsi di
tutti gli Orologi presenti sulla Terra, per il mondo così
come lo conoscete sarebbe la fine: non ci penserebbe due volte infatti
a dare il via ad una serie infinita di carneficine ed altri abomini di
questo genere.
Per
scongiurare questo rischio, tuttavia, ho ideato il processo della
diaspora degli Orologi: è una sorta di protocollo di
emergenza, una misura di prevenzione che avevo apportato al momento
della creazione dei vostri artefatti. In poche parole, alla mia morte
ho fatto sì che tutti gli Orologi esistenti andassero
dispersi nelle più disparate aree del mondo. Se siete qui,
oggi, significa che voi fate parte dei fortunati che, fino a questo
momento, sono riusciti a ritrovarne uno. Sono così certo e
fiducioso del fatto che siate voi e non degli impostori o magari alcuni
degli emissari del mio nemico, poiché questo marchingegno
è incantato: l’ho reso visibile solo a quelli che
considero i miei eredi legittimi, coloro che si sono guadagnati il
proprio Oro per merito e necessità. Se non foste stati voi i
veri destinatari di questo messaggio, l’ologramma non si
sarebbe visualizzato affatto.
Tornando
a noi, ho una missione molto importante da affidarvi. So che non sono
nessuno per chiedervi di affrontare qualcosa del genere, tuttavia non
è per un mio eventuale tornaconto personale che vi chiedo di
lanciarvi in un’impresa simile, quanto piuttosto per
scongiurare la fine del mondo di cui vi ho parlato. Immagino che
nessuno di noi trarrebbe beneficio da una situazione del genere,
inoltre in caso di vittoria del nostro nemico comune, probabilmente
sareste i primi che verrebbe a cercare, pur di togliervi personalmente
dalla circolazione. Fate molta attenzione, è un uomo crudele
e senza scrupoli.
Quanto alla
missione, è presto detto: ci sono quattro Orologi, la cui
posizione è ignota per l’aspirante Signore del
tempo. Sono stati occultati in luoghi irreperibili e possono essere
conquistati solo superando delle prove specifiche. Si trovano
esattamente ai quattro angoli del globo e dopo questo messaggio vi
lascerò le indicazioni sulle varie località. Non
posso dirvi esattamente dove si trovano o che prove dovrete affrontare
per ottenerli, ho paura che in questo momento ci possa essere qualcuno
che mi stia ascoltando e non posso dare più informazioni del
dovuto, sarebbe fin troppo rischioso per tutti noi, credetemi
– le notizie che ho divulgato fino ad ora sono anche
eccessive, infatti quando avrò finito il messaggio si
distruggerà automaticamente, tramite una pioggia di
inchiostro che comprometterà irrimediabilmente gli
ingranaggi del riproduttore.
Sento che
il Nemico sta per giungere; per me è ora di andare. Vi
auguro buona fortuna, crononauti: il destino
dell’umanità è in mano
vostra.»
Ciò
detto, l’immagine di Joshua scompare, lasciando il posto
all’ologramma di un planisfero. Su di esso sono segnati
quatto punti luminosi, che scintillano di una luce rossastra secondo
un’intermittenza regolare. Mentre Amelia si avvicina per
osservarli, Andrea ha già segnato tutto su un taccuino, con
indiscutibile efficienza.
«Ecco
qui» commenta, allungando il block notes in mezzo al tavolo,
così che tutti possano vederlo «i punti segnati
sono Roma, Città del Capo, Pechino e la montagna di Uluru,
nell’outback australiano.»
Sguardi
accigliati osservano la scrittura precisa e ordinata di Andrea, non
tanto perché non riescano a leggerla –
è talmente chiara che riuscirebbe a comprenderla anche un
bambino di cinque anni – quanto piuttosto perché
comprendono di trovarsi di fronte ad un bivio: dovrebbero gettarsi a
capofitto in quell’impresa senza certezze? Oppure farebbero
meglio a temporeggiare, cercare di capire se si trovino davanti ad un
grande bluff?
«Dobbiamo
partire» sentenzia Amelia, in tono impetuoso. È
vero, anche se non si direbbe lei è una persona molto
impulsiva, si lancerebbe senza indugi anche nella più
sciocca delle abitudini. Eppure stavolta c’è in
gioco qualcosa di diverso, se non accettassero la missione affidata
loro da Joshua rischierebbero di andare incontro ad una fine orrenda,
tutti, nessuno escluso.
Lo scotto
da pagare sarebbe troppo alto, insomma.
Julie
inarca le sopracciglia, dubbiosa.
«Ma…
possiamo davvero fidarci di un messaggio del genere?» domanda
infatti, l’incertezza ben percepibile nella voce.
«Potrebbe
essere un falso» fa notare loro Atemu, in tono pragmatico
«dopotutto, non mi risulta che esistessero riproduttori di
ologrammi, sul finire del 1700.»
«Ma
ha detto che, grazie al potere degli Orologi, è riuscito ad
arrivare quasi fino ai giorni nostri, ecco dove si è
procurato un oggetto del genere» obietta Claudine, con un
certo senso di fierezza per essere giunta ad una conclusione del genere?
«Già,
ma ripeto: come fai a sapere che non fosse un falso? Della serie: non
abbiamo prove certe che quello dell’ologramma fosse il vero
Joshua Parrish. Magari era solo un buontempone che voleva tirarci uno
scherzo di pessimo gusto. In fondo, insomma, non abbiamo mai visto il
vero volto di quest’uomo, non sappiamo come sia fatto in
realtà.»
Quello
sollevato da Atemu è un dubbio lecito: dopotutto, come
potrebbero scongiurare una simile evenienza.
«Io
lo so» li informa Thiago, il petto che si gonfia di
soddisfazione per quella consapevolezza.
«Ah,
sì? E come fai ad esserne così certo?»
s’informa Margarita, i gomiti puntellati sul tavolaccio di
legno e il mento premuto sulle mani.
«Beh,
facile» Thiago scrolla le spalle, con nonchalance
«perché nel video ha detto una cosa che solo il
vero Joshua Parrish poteva conoscere.»
«La
diaspora degli Orologi» esclama Amelia, la prima ad arrivarci
«nessuno a parte lui era a conoscenza del meccanismo di
difesa ideato per mettere in salvo gli Ori!»
«Esatto~»
conviene Thiago, ammiccando lievemente in direzione di Amelia,
soddisfatto che qualcun altro oltre lui sia arrivato alla sua stessa
conclusione senza bisogno di doverglielo spiegare.
Gli sguardi
degli altri sei crononauti si puntano all’istante su Amelia e
Thiago, che sembrano essersi resi conto solo in quel momento di quanto
siano eccessivamente
vicini.
«Dobbiamo
partire» ribadisce Amelia, lo sguardo fermo e adesso ancor
più deciso.
«Okay,
potreste anche aver ragione» s’intromette Andrea,
rimasta imparziale fino a quel momento «però
adesso cosa avreste intenzione di fare?»
«Niente
di più semplice» risponde Amelia, balzando in
piedi e mettendosi a camminare – ha troppa adrenalina in
circolo, impossibile pensare che possa stare ferma – lungo la
bottega «ci sono quattro destinazioni segnate su quella
mappa, no? Bene, noi siamo otto: non dovremo far altro che dividerci
in quattro coppie diverse e recarci nelle località
indicate.»
«E
in base a quale criterio dovremmo dividerci?» azzarda
Claudine, mordicchiandosi il labbro inferiore.
«Beh»
s’intromette Thiago, con fare quasi involontario
«Andrea, tu hai detto di essere di origini italiane, giusto?
Una delle destinazioni è proprio in Italia, potresti andarci
tu.»
La ragazza
sembra sorpresa, tant’è che alza di colpo la testa
dal suo amato e inseparabile tablet, sul quale stava già
digitando comandi ad una velocità insostenibile.
«Uhm?
Oh, beh, non è così male come idea»
ammette, piegando appena la testa di lato.
«Potrei
venire io con te» si offre Claudine, alzando una mano con
entusiasmo «amo l’Italia, inoltre ci sono anche
stata un paio di volte. Sempre che per te vada bene,
certo…»
«È
indifferente» replica Andrea, con una rapida scrollata di
spalle.
«Bene,
e la prima coppia è sistemata» commenta Thiago,
soddisfatto «poi, vediamo: c’è la
Cina…»
«Oh,
io ho dei contatti in Cina!» trilla Julie, gli occhi che
d’improvviso le si illuminano di gioia.
«Ottimo»
riprende il portoghese, sorridendo appagato «con te potrebbe
andare—»
«Vado
io!» si offre Margarita, raggiante «potrebbe essere
un’esperienza estremamente…
interessante~»
«E
siamo a metà del lavoro» annuncia ancora il
portoghese, il sorriso sul suo volto che va via via sempre
più allargandosi «a questo punto mancano solo le
ultime due destinazioni: Africa ed Oceania…»
«Se
proprio dobbiamo ricorrere a questa follia di piano, allora io opto per
l’Africa» sentenzia Atemu, lo sguardo duro come la
pietra «almeno, essendo le mie origini riconducibili a questo
continente, spero di potermela cavare al meglio.»
«Penso
che andrò con lui» comunica Amos, mentre continua
a torturarsi nervosamente le mani in grembo «rispetto
all’Australia, è un viaggio decisamente molto
più breve. Se posso evitarmi una fatica del genere, lo
faccio ben più che volentieri.»
«Perfetto»
conclude Thiago, tirando le fila del discorso «in questo modo
a me e ad Amelia rimane l’Oceania. Siamo fortunati, mi
è capitato di recarmi lì una volta, in passato,
durante uno dei miei tanti viaggi. Direi che tutte le coppie sono
ufficialmente formate.»
«Bene»
conviene Amelia, annuendo con vigore «adesso non ci rimane
altro da fare che partire…»
«Ma…
siamo sicuri che questa sia la scelta giusta? Insomma, a me sembra
tutto così affrettato…» obietta Amos,
ancora una volta timoroso.
«Sentite»
Amelia sospira pesantemente, le sembra di essere invecchiata di colpo
di almeno dieci anni «mia madre ha pagato con la vita il caro
prezzo di dover difendere quest’Orologio. Se
c’è qualcuno intenzionato a distruggere il nostro
mondo e che potrebbe essere potenzialmente la stessa persona che
l’ha uccisa, io non ho la benché minima intenzione
di restarmene qui con le mani in mano mentre ogni mia certezza viene
rasa al suolo. Lotterò con tutte le mie forze per far
sì che mia madre sia fiera di me e se mai dovessi incontrare
chi le ha fatto del male… beh, non vi assicuro di riuscire a
trattenermi dal fargli molto ma molto male. Detto questo, per riuscire
a renderle giustizia io ho bisogno della collaborazione di tutti voi,
senza nessuna esclusione. Se ci arrendiamo a prescindere, non facendo
neanche una prova, allora siamo già vinti in
partenza.»
Segue un
silenzio che pare essere eterno, durante il quale i vari crononauti si
guardano tra loro, cercando di decidere quale sia la via più
giusta da percorrere. Nei loro sguardi sono ben visibili i mille dubbi
che li attanagliano in quel momento, ma anche consapevolezza del loro
compito e desiderio di dimostrare le proprie capacità.
Alla fine
di quel muto dialogo, tutti i ragazzi tornano a voltarsi verso Amelia
ed è Andrea a comunicare la loro decisione.
«Siamo
tutti d’accordo» annuncia, solenne
«affronteremo questa missione.»
Amelia
sorride, sollevata, mentre i tratti del suo volto si distendono, ora
non più in tensione.
«Bene»
comunica, con determinazione «tra i vari documenti sugli
Orologi di Joshua ho letto anche che, quando due persone devono
spostarsi nello stesso luogo, può bastare anche solo un
Orologio: infatti, essendo la catena che li sostiene piuttosto lunga,
se riescono ad infilarsela contemporaneamente due crononauti il viaggio
si può compiere tranquillamente.»
Poco dopo,
neanche si accorge di quando la catena sottile dell’Orologio
di Thiago le avvolge il collo. Il ragazzo, essendo di diversi
centimetri più alto di lei, ne approfitta per passarle una
mano tra i capelli, in maniera bonaria. Quel gesto fa arrossire
leggermente Amelia, che tuttavia cerca di nasconderlo, spostando lo
sguardo da un’altra parte.
Anche gli
altri si sono già approntati per il viaggio: Andrea ha
legato a sé una Claudine piuttosto impegnata a sistemare le
pieghe della sua gonna, Atemu ha condiviso di malavoglia la propria
collana con Amos e Margarita ha incatenato se stessa a Julie.
«Tutti
pronti?» domanda Thiago, in tono austere.
Le teste di
altri sei viaggiatori annuiscono, in contemporanea. Per avere il
consenso di Amelia, invece, gli basta guardarla negli occhi: il suo
sguardo arde così tanto di determinazione che è
praticamente impossibile aspettarsi da lei una risposta che non sia un
“sì”.
«Molto
bene» conclude il portoghese «ci rivediamo tra
cinque giorni alle Azzorre. Fate in modo che, per allora, abbiate
assolto tutti i vostri compiti.»
Dopodiché,
la stanza viene avvolta da quattro fasci luminosi di colori differenti:
blu, giallo, viola ed azzurro.
L’istante
successivo, la bottega è tornata ad essere deserta.
♟»
Roma,
Italia, 2059
Quando il
raggio traente si dirada e la luce azzurrognola comincia a dissiparsi
– come nebbia alle prime luci dell’alba –
Andrea si convince a riaprire gli occhi, certa che ormai
l’emissione luminosa violenta sia pressoché
scemata.
La prima
cosa che riesce ad appurare, ancora un po’ frastornata,
è che si trova in una grande piazza, a terra una distesa di
sampietrini sembra essere estesa come un mare. Davanti a lei
c’è un’enorme gradinata, che si innalza
maestosa ed imponente apparentemente verso il cielo; a metà
strada si biforca, due rampe semicircolari che procedono secondo
direzioni differenti, per poi ricongiungersi sulla cima. In alto, ha il
suo posto d’onore su una terrazza panoramica un maestoso
obelisco, mentre in fondo alla scalinata fanno la loro comparsa alcune
colonnine, sulla sommità delle quali vengono riprese delle
forme sferiche.
«Piazza
di Spagna» commenta Andrea, mormorando lievemente tra
sé.
Generalmente
quel luogo è uno dei fulcri del turismo della capitale
d’Italia, tuttavia quel giorno sembra essere deserto in
maniera desolante: di certo il clima non aiuta, visto che sono a
metà dicembre e il cielo è terribilmente plumbeo,
minacciando pioggia da un momento all’altro. Ci sono giusto
un paio di turisti, tutti intenti ad osservare i sontuosi gradini,
mentre la zona al momento sembra piuttosto un crocevia per uomini
d’affari, che corrono da una parte all’altra della
piazza, stringendosi i mongomeri pesanti al corpo e continuando a
parlottare nervosamente al telefono – smartphone di ultima
generazione – di questo o quell’altro argomento, in
un italiano rapido e fluidissimo.
Andrea
lancia un rapido sguardo al cielo, notando che alcune piccole e sottili
gocce di pioggia hanno cominciato a cadere al suolo, cerchietti scuri
sui sampietrini.
«Voglio
un ombrello» sussurra qualcuno, al suo fianco.
Andrea si
volta e sembra ricordarsi solo in quel momento sembra ricordarsi della
presenza di Claudine.
«Andiamo,
solo soltanto due gocce» ribatte Andrea, scuotendo lievemente
la testa.
«Sì,
ma potrebbero diventare ben più di due!» insiste
Claudine, pestando i piedi per terra in maniera un po’
infantile.
Andrea alza
gli occhi al cielo, sospirando lievemente. Ma chi gliel’ha
fatto fare?
«Comunque»
cerca di riprendere le fila del discorso la ragazza italiana
«a quanto pare il viaggio in Oro condiviso di cui ha parlato
Amelia ha funzionato: adesso siamo a Roma, dovremmo cominciare a
cercare il posto in cui potrebbe essere l’Orologio. Magari un
monumento famoso, come il Colosseo, oppure—»
«Oppure
potremmo andare a fare shopping!» la interrompe la francese,
tutta su di giri.
«Ma
se siamo qui è perché dobbiamo trovare
l’Orologio, no?» le rammenta Andrea, piuttosto
scettica.
«Zut alors!1»
sbotta Claudine, con una leggera punta di esasperazione
«Thiago ha detto che abbiamo cinque giorni di tempo per
trovare l’Orologio, no? Se per un pomeriggio non cominciamo
subito a cercarlo non morirà certo nessuno.»
A quel
punto Andrea apre la bocca per cercare di ribattere, tuttavia non fa in
tempo a dire niente che Claudine ha già cominciato a
trascinarla verso le centralissime vie dello shopping romane.
«Vedrai,
ci sarà da divertirsi~» conclude la francesina,
già eccitata al pensiero di immergersi in negozi pieni di
abiti all’ultima moda e griffati, una boutique dietro
l’altra, mentre la faccia di Andrea è quanto di
più vicino si possa immaginare alla rappresentazione vivente
della mestizia.
Sarà proprio un
pomeriggio indimenticabile, sì.
1 “Sciocchezze!” in francese
* Angolo autrice *
{In time
è ufficialmente la storia più lunga che abbia mai
pubblicato su Efp, yay!}
Vi giuro
che sono commossa. Sul serio, non immaginavo di riuscire a rispettare
la tabella di marcia che mi ero prefissata, soprattutto visto che lo ammetto
in questi trenta giorni ho bighellonato molto e scritto poco.
Praticamente mi sono messa d’impegno per finire questo
capitolo solo negli ultimi tre giorni ma oh!, alla fine chi
se ne importa: quello che conta è riuscire a portare a casa
il risultato, d’altronde, no? E beh, direi che anche questa
volta ci siamo riusciti alla grande.
Sì,
dico “siamo” e non “sono”,
perché ormai ritengo che questa di In time sia diventata una
grande famiglia, dove un po’ tutti cerchiamo di aiutarci come
meglio possiamo: io scrivo e poi chi può mi commenta il
nuovo capitolo direttamente qui in recensione, altrimenti bene o male
le altre riesco a sentire per via messaggistica, sia su Efp che
altrove. Insomma, ho capito che lamentarmi per il fatto che lo scorso
capitolo sia stato recensito solamente da due persone sarebbe un
po’ inutile, in fondo ho ricevuto più o meno
– in un modo o nell’altro – i pareri di
tutte voi in merito. Certo, sarei ancora più felice se
riusciste a recensire tutti i capitoli, solo che mi rendo conto da sola
di quanto sarebbe “gravoso”, tra scuola e tutti gli
altri vari impegni della real
life. E questo, fondamentalmente, è il motivo
per cui ho deciso di non fare richiami o altro.
Comunque, se recensite vi
voglio bene.
Volevo fare
ancora tanti auguri a Bea,
che ho sentito via MP. Lei è un po’
l’assente giustificata di questo periodo— no, non
faccio preferenze e no, Ange,
l’ho detto prima io che me la sarei portata
all’altare, adesso tu non puoi rubarmi la sposa--
ma sappiate tuttavia che è l’unica a cui concedo
(e per cause di forza maggiore) questo lusso, tutti gli altri sappiate
che dovrete comunque farmi avere un qualche genere di vostre notizie,
altrimenti sapete che fine fanno i vostri personaggi– quella
di Ethan Bailey, LOL.
Ah ehm,
torniamo a noi. Adesso gli aggiornamenti dovrebbero essere sempre
regolari (come avrete potuto ben notare e come mi avevo già
accennato nelle note d’autrice dello scorso capitolo) una
volta al mese, quindi sempre il 27. Ho notato che riesco (per ora) a
mantenere costanti gli aggiornamenti se continuo con questo genere di
“regolarità”, perciò per ora
il metodo adottato dovrebbe essere questo. Siete felici? Io parecchio.
Allora,
come vi avevo accennato i nostri crononauti hanno scoperto la loro
missione e finalmente sono partiti alla volta delle quattro
destinazioni che vi avevo accennato. Scopriamo qualche notizia in
più sul passato di Amelia, anche se c’è
ancora qualcosa di cui non vi ho parlato… e che scoprirete
tra qualche capitolo~ quanto mi piace tenervi sulle spine, ahahahahah
Piccole
info sul prossimo capitolo: i più rilevanti sviluppi di
trama saranno quelli sulle prove per recuperare gli Orologi delle
coppie Andrea/Claudine (di cui vi ho lasciato un assaggio alla fine di
questo chap) e Atemu/Amos. Preparatevi ad ogni genere di colpo di
scena, anche se con me ormai ci dovreste essere abituati.
Quanto alla
ormai conclamata e confermata coppia Kageyama/Kidou (altresì
nota come Kageki): eh, per le novità sulla loro vicenda vi
toccherà aspettare fino a dicembre-gennaio e sappiate che
saranno delle bombe! Della serie: possibile che non abbiate ancora
capito chi sia il cattivo di questa storia? Beh, certo, se non
avete letto quella trilogia…
Alcune
rettifiche a livello di trama: Darren vive davvero nel 2012
(è un AU, ergo i personaggi di IE me li spalmo un
po’ a mio piacimento attraverso tutti i vari secoli) e quindi
Amelia ha paura di rivelargli la verità sul suo conto
proprio perché è una crononauta, mentre la dolce Maricchan mi fa
notare – riguardo alla sua Claudine – che, mentre
nella lista dei pg ho segnato come simbolo del suo Oro una rondine, nel
capitolo ho scritto che è una libellula.
Comunque, il simbolo giusto è la libellula, giusto
perché lo sappiate, eh.
Bene,
dovrebbe essere tutto. Io vi lascio come al solito appuntamento al 27
novembre e mi auguro di potervi risentire presto. Sappiate che ho tutte
le intenzioni di concludere questa storia: i capitoli totali dovrebbero
essere circa sedici, di questo tuttavia non sono ancora sicura. Ho
invece forti certezze su quello che voglio scrivere in ciascun
capitolo: la trama c’è, ce l’ho ben
chiara nella mia mente. Fidatevi, qualsiasi cosa cercherà di
mettersi in mezzo tra me e la conclusione di questa fic, io lo
supererò, perché so che accanto a me ho delle
persone fantastiche che mi aiuteranno sempre, qualsiasi cosa accada.
Per il resto se volete con chi può ci incontriamo domenica
30 ottobre al LCG, che ci siamo io e Maricchan che vi lanciamo i bacini
e io devo
commettere un omicidio ma shh, non ditelo in giro.
A presto
(spero)
Aria
Next stop
.:: Chapter eight ♟ —Supermassive
black hole
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