House of Cards
Il solito raggio di sole mi colpì in pieno viso anche quella
mattina, irrompendo con tenacia fra le immagini
dell’ennesimo, irrequieto sogno. Se non fosse probabilmente
dipeso dal fatto che esser svegliato dall’incombere
dell’alba in pieno week-end mi lasci sempre una certa
indisposizione addosso, avrei persino potuto essergli stato grato.
Muovendomi a fatica in quell’ingrovigliato ammasso di federe
e lenzuola riuscì a conquistare la tanto agognata posizione
eretta. Per cinque, lunghissimi secondi il mondo creato dalla mia
piccola camera mi apparve nitido come non mai. Spazi di luce
interminabili, ordine e perfezione.
Cinque secondi che il mio organismo non riuscì a sopportare
un attimo di più, facendomi ricadere a peso morto su
ciò che rimaneva di un letto mal fatto.
Imprecando e scalciando, riuscì a giungere a due,
irrilevanti conclusioni. L’esser reduce di una sbronza
probabilmente mi dovette esser apparsa come la più evidente.
In sin dei conti il dolore pulsante alle tempie e la vista sfocata non
sarebbero potuti esser stati riconducibili a nient’altro. E
poi il numero di lattine vuote di birra sul pavimento sembrava saperla
molto più lunga della mia mente annebbiata. Non mi rimase
nient’altro che affidarmi a quel misero fattore.
La mia seconda, ermetica soluzione, trovata con maggior fatica, stava
appena lasciando la camera, vestita di tutto punto. Con occhi stanchi
mi ritrovai ad osservarla andar via dal nostro rifugio
d’amore, uscendo con non curanza dalla stanza.
Sul comodino un foglietto stropicciato ad attestare il suo passaggio ed
a confermare, come se fosse stato necessario, il posto dove poterla
ritrovare. Lo presi gettandolo fra i tanti che affollavano il cassetto
del mobile.
Se lo scorrere della mia vita non fosse scandito da quelli
insignificanti recapiti telefonici, probabilmente non avrei esitato a
prenderlo di peso e ribaltarlo nel cestino dei rifiuti.
Senza quasi accorgermene mi corressi scuotendo la testa.
Più che da quei numeri, era alle voci che rispondevano alle
chiamate che avrei dovuto esser stato grato. Ed in sin dei conti non
avrei potuto pretendere nulla di meglio da quell’esistenza
piuttosto avara in quanto sentimenti.
Il suono insistente del campanello contribuì a far crescere
esponenzialmente il cerchio attorno ai miei lobi. Maledicendolo, e
maledicendomi per non averlo staccato la sera prima, strinsi con rabbia
la presa contro il legno del portone. Deciso a buttar fuori a calci in
culo chiunque avesse deciso di irrompere senza uno straccio di
preavviso nella pace che unicamente di domenica si sarebbe potuta
assaporare fra quelle mura ammuffite.
Ma un sorriso gentile finì con il disarmarmi ancora una
volta, facendomi ingoiare ogni buon proposito. Accompagnato dalle
scarne parole con cui ogni volta ero solito riceverla, quella mattina
tuttavia ingabbiate in una sottile barriera di fumo ed effluvi di
alcol. La vidi osservarmi accigliata, per poi borbottare qualcosa di
molto simile ad un – ancora- .
- Quando metterai la testa apposto, eh? – la lasciai entrare
ancora una volta come una tempesta nella mia vita, travolgendomi
lentamente.
Mai nome più appropriato sarebbe potuto esser dato ad una
persona.
- Sempre a far baldoria! Casino! Ma è mai possibile?
– continuai ad osservarla divertito lanciare qua e
là mutande ed altri vestiti sparsi senza troppa cura sui
pavimenti della casa, imprecando occasionalmente contro qualche boxer
finito nel posto sbagliato. Sapevo che nonostante tutto quella era la
stessa, medesima vita che conduceva lei.
Il fatto che riuscisse a conciliarla con un lavoro a tempo pieno, degli
studi sempre più frenetici ed un amico incasinato come me,
di certo non cambiava le cose. Serviva solo a mescolare ancor
più le carte in tavola.
Le rendeva illeggibili agli occhi di estranei e per qualche assurda
ragione sempre più chiare ai nostri. Ci aiutava e forse ci
sosteneva persino.
Ma di certo non cambiava nulla.
- E togliti quel sorrisino idiota dal volto!Sai che serve solo a farmi
incazzare ancora di più! – non so cosa
fu a scatenare il mio riso in quel momento.
Se la serietà con cui pronunciò quella frase
accompagnata dalla splendida immagine del suo corpo travolto da una
massa informe di capi di vestiario. Se il suo tono, così
aspro eppure quasi materno o il suo semplice sguardo: curiosa
astrazione di un’arrabbiatura che nonostante tutto il suo
spirito sembrasse quasi non riuscire più a simulare.
Non so che cosa mi fece star bene in quelli istanti e che
tutt’ora probabilmente la mia anima si ostina ad ignorare. Ma
mi piacque, e per un attimo riuscì quasi a spingermi a
gettare realmente il contenuto di quel maledetto cassetto nella
spazzatura.
- In tazza o bicchiere? - fu un attimo, ma i suoi occhi
tornarono ad osservarmi confusi quasi come all’entrata. Mi
limitai a ricambiare quello sguardo ambrato, nascondendo parte del mio
dietro uno scompigliato ciuffo paglierino. Indossare le vesti di una
sicurezza che non avevo mai posseduto era un gioco che con lei non
avrebbe mai potuto reggere.
Meglio tornare ad esser il solito coglione di sempre, timoroso persino
di una sua sgridata.
- Prego? -
- Il caffè, Nami–san. Come lo preferisci?
– le sue labbra si aprirono più volte,
alla ricerca di qualcosa di sensato con cui controbattere. Conoscendola
sapevo che mi avrebbe potuto rispondere tanto facilmente con un
– in tazza – quanto con un maggiormente sensato, ed
oltremodo doveroso fanculo.
- Non cambiare argomento adesso! – la fissai accigliato,
soppesando una terza ipotesi che sino ad allora non avevo voluto
constatare. Del resto il portare sin troppo a lungo una lite non era
qualcosa che le si era mai ben addetto, forse ancor prima per la mia
inerzia nelle discussioni che per la sua voglia di controbattere.
- Non sto cambiando proprio niente, ma incominciare la mattina senza
una buona colazione è nocivo per la salute. –
- E non tirare in ballo il tuo lavoro! –
lasciai scivolare dolcemente il cucchiaio contro il bordo ricurvo della
ceramica. La mia mente raccolse a malapena quell’indistinto
pling riecheggiare sulle pareti graffiate della cucina, per infine
scontrarsi con il respiro accelerato di lei.
- Sanji... – la sua voce tradì
quell’insicurezza che tanto faticava pur di riuscire a
mascherare. Era il nostro copione.
Saperlo rientrava unicamente a far parte di quel mazzo che
così meticolosamente avevamo fatto in modo di mischiare.
- Non osare! – furono le ultime cose che riuscì a
sussurrare prima di finire schiacciata sotto il peso del mio corpo. Ma
la mia forza era inesistente, la mia stretta esigua.
Mi ritrovai così a stringerla come ogni altra volta su quel
letto disfatto, caldo di un amore che nel mio cuore non aveva mai
pulsato. Nessun bacio, nessuna carezza.
Solamente quell’abbraccio con cui tanto sapevo riuscire ad
infastidirla e che tuttavia sembrava esser divenuto importante per la
mia anima quasi quanto l’ossigeno per il resto di
quell’inutile corpo.
- E’ da quando avevamo sei anni che vai avanti con questo
gioco idiota. – il suo tono mi raggiunse ancora una volta
simulando una durezza che nei miei confronti sapeva non poter riuscire
più a conservare. Lo sentì divenire sempre
più lento, sino a tramutarsi in un sussurro pacato.
- E’ divertente. –
- No, è semplicemente insensato. – eppure le sue
mani affondarono nei miei capelli, scompigliandoli ancor più
di quanto la natura li avesse concesso di essere. Socchiusi gli occhi
al tocco del suo respiro contro la mia pelle.
- Non è di certo colpa mia se il solo modo con cui possa
farti stare zitta è coglierti alla sprovvista. –
- Ed abbracciarmi è il solo modo che ti venga in mente ogni
volta per farlo? –
- E’ il solo che conosca. - l’avrei
potuta amare, quella bambina.
Stringerla a me la notte sino a farle urlare il mio nome, donarle ogni
singola parte del mio essere. Ma quell’amore di cui tanto ho
amato riempirmi la bocca me lo ha sempre impedito, questo sfogo.
Sa che la ferirei solamente, privandola dell’unico fulcro
saldo di una vita costruita su fragili impalcature. La farei vacillare,
ferendola esattamente come uno dei suoi tanti ex a cui ho avuto il
piacere, onore ed in parte onere di spaccare la faccia. Ed allora mi
frena.
Così come spinge le mie mani a muoversi avidamente su corpi
che neanche conosco, con lo stesso impeto mi urla di lasciarla andare.
E non importa se è anche il suo animo a cercarmi.
Si sforza di riuscire ad ignorarle, quelle dita lente sulla pelle.
Temendo di poterle far allontanare per sempre con un singolo, inutile
passo falso.
Paura di perderla?
No.
Terrore. E, credetemi, la differenza è abissale.
- Ed allora stringimi ancora un po’, stupido cuoco.
Perché questa semplice morsa non sarà
più sufficiente a mettermi a tacere anche questa volta.
- e come in un riflesso incondizionato le mie mani si
trovarono a scivolare sulla sua schiena, sfiorando quella carnagione
diafana ed ancora calda.
La sentì premere il capo contro il mio petto, cercando
quella fossetta poco sotto scapole in cui ogni volta il suo viso
sembrava riuscire a trovare un rifugio sicuro.
- Perché deve essere così difficile? -
perché l’amore è infido, Nami-san.
Bastardo, cruento, spietato. Meraviglioso, mia bambina.
- Perché non possiamo amarci e basta? – ti dilania
lentamente, privandoti di ogni cosa.
Ed io non posso permettere che i tuoi bell’occhi si
inaspriscano, che la tua voce divenga vuota. Ti amo per ciò
che sei, e non per il demone in cui potrei trasformarti.
- Non lasciarmi andare. Ti scongiuro, stupido cuoco. - non ti
lascerò cadere, lo sai.
Ma quell’insignificante castello di carte su cui con
così tanta fatica avevamo costruito ogni cosa adesso è
andato distrutto. E con lui, ogni nostro appiglio per non cedere alle
lusinghe di un sentimento sin troppo feroce per non percepirne il
battito. Per quanto ancora potremo ignorarlo?
- Ti amo –
Per quanto rifugiarci ancora fra le nostre menzogne?
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