Ava
cominciò a svuotare la sua valigia appena entrati nella loro
suite,
dopo aver dato un'occhiata in compagnia del fratello ai loro letti e
al minibar, trovando qualcosa da sgranocchiare. Amy si
guardò
attorno e sospirò: era felice di fare quella vacanza con i
bambini,
ed era un bene poter restare da sola con loro per due settimane, ma
Sarah non si era presentata e non poteva che restarne un po' delusa.
Non che non se lo aspettasse, Sarah aveva da sempre preferito suo
marito, la vita tranquilla e sicura, a qualsiasi altra cosa, ma non
riusciva a fare a meno di pensarci. E di sentire la sua mancanza. Si
sedette sulla prima sedia trovata e pensò di ricercare il
suo
telefono e assicurarsi che James non l'avesse chiamata per sapere dei
bambini, scoprendo di avere parecchie chiamate perse di Sarah.
Alzò
gli occhi al soffitto, sentendo una morsa allo stomaco. Lei aveva
provato a fermarla, pensò. Magari l'aveva chiamata per
chiederle
altro tempo, o di non partire, o per dirle di aspettare. Aspettare
chissà cosa. Scosse la testa. Cancellò le
chiamate, indecisa se
provare a mandarle anche solo un messaggio per non farla preoccupare,
quando Jackson le ricordò che aveva promesso di non stare
attaccata
al cellulare per due settimane, così lo rimise in borsa. In
ogni
caso non sarebbe cambiato niente, pensava: Sarah non era lì
e
significava che aveva fatto la sua scelta.
Doveva
ritrovare Root. Ancora non poteva credere che lei l'aveva lasciata
lì
e se n'era andata, sapendo ciò che anche lei aveva passato
quando
pensava fosse morta. Era egoista, irrispettosa, fuori di testa. Ma
più ci pensava e più non riusciva a togliersi il
pensiero che
probabilmente, a parti invertite, lei avrebbe fatto lo stesso per
proteggerla. Uscì dalle fogne e corse in mezzo al traffico,
guardandosi in giro per sapere dove andare. Ritrovò una
strada
conosciuta e la seguì, cercando di mantenere un passo
svelto. Oh,
una volta probabilmente avrebbe desiderato davvero che morisse; era
così fastidiosa e appiccicosa, così snervante e
così saccente che
solo il suo sorriso le dava sui nervi. E poi accadde che proprio il
suo essere fastidiosa e appiccicosa, il suo essere snervante e
saccente e che proprio il suo sorriso la rendessero così
attraente
ai suoi occhi. Attraente. Non era la parola esatta, lo sapeva. Root
era diventata il suo mondo, la sua ancora, il suo posto sicuro. Lei
era tutto ciò per cui valeva la pena vivere.
Appena
aprì il portone, scoprì una centrale di polizia
disorientata e
dimezzata che tentava di rimettersi in sesto: Root doveva essere
passata di lì. Aiutò Fusco a capirci qualcosa,
anche se aveva il
mal di testa, e alcuni agenti provarono a fermarla: era stata la sua
collega dell'FBI che a quanto pare non era davvero dell'FBI a far
evadere un prigioniero e non potevano lasciarla andare.
Gettò a
terra qualche agente e chiamò Bear, che sfondò la
porta e saltò su
un uomo per raggiungerla. Scambiò un'ultima volta un lungo
sguardo
d'intesa con Fusco e lui le fece un cenno con la mano di andare, di
non perdere altro tempo.
Si
guardò attorno. Il problema, per lei, era non sapere dove
andare.
Dove poteva nascondersi uno come Lars? Allora ricercò la
telecamera
sui tralicci in mezzo alla strada: lei non sapeva dove andare, ma la
Macchina doveva saperlo per forza.
«Dov'è
andata?», gridò. «Lo so che con me non
parli, ma lei è in
pericolo e tu sai dove devo andare». Nessun cenno, nessuna
luce,
nessun suono criptato. Davvero la Macchina avrebbe abbandonato Root?
Poi Bear abbaiò e Shaw si girò, facendo caso al
chiasso improvviso:
le automobili nell'incrocio si erano fermate tutte creando un ingorgo
e gli automobilisti avevano iniziato ad urlare su di chi fosse il
turno e contro il semaforo, suonando il clacson; i semafori difatti
sembravano tutti impazziti: verde, giallo, rosso, verde, giallo,
rosso, e poi, velocemente, si erano tutti spenti a parte uno,
restando verde. Si spense dopo qualche attimo e un altro semaforo
più
avanti si accese di verde al posto suo. E così avevano
ricominciato.
Voleva che li seguisse. Shaw riguardò la telecamera,
facendole un
cenno con la testa, e si mise a correre: ora sapeva dove andare.
Semaforo,
semaforo, un cartello con le frecce di cui se ne accese una sola,
altre insegne che solitamente di giorno erano spente, le televisioni
della vetrina di un negozio che cambiarono canale all'unisono,
mostrando un vecchio servizio cittadino che parlava di un ospedale
abbandonato al limite della città. Altre frecce. Shaw
notò una moto
parcheggiata dall'altro lato della strada e fece salire a Bear sul
carrozzino, agganciandolo e, facendo lo stesso con un casco per lei,
partì, girando la chiave, seguita dal grosso proprietario
che si
stava bevendo una birra davanti a un locale.
Il
vecchio ospedale. Il vecchio ospedale. Pensò che Lars non
avesse un
briciolo di originalità, parcheggiando accanto a una delle
tante
vetture. Lasciò il casco sul manubrio, sciolse Bear e si
strinse la
coda dei capelli e le nocche delle dita, entrando.
Nel
corridoio d'entrata c'era un uomo steso a terra che brontolava dal
dolore, tentando di rialzarsi. Le pareti erano ricoperte di
proiettili e l'uomo doveva essere ferito a una gamba, o forse a
entrambe. Lui la vide e cercò di farsi aiutare, ma lei lo
calciò in
faccia e continuò a camminare. Si chiese da che parte
dovesse andare
finché non capì di poter semplicemente seguire il
segno delle
pallottole sui muri. Non poteva essere stata Root, era davvero uno
spreco enorme di proiettili e non aveva mai sparato senza un
bersaglio: non capiva cosa stesse succedendo, se fossero impazziti i
Marshall Mason o se ci fosse qualcun altro oltre loro. Salì
per una
tromba di scale e appena vide un corpo su una pozza di sangue si
fermò per assicurarne il decesso: qualcuno lo aveva sparato
su più
punti senza lasciargli respiro. Poco più su ce n'era un
altro, ma
era ancora vivo, anche se senza conoscenza. E un altro. Qualcuno
aveva fatto una carneficina di Marshall Mason prima che arrivasse
lei, pensò. Corse quando notò una mitraglietta,
saltando una
macchia di sangue. La prese in mano e controllandola per poco non le
venne un colpo: era una delle loro, l'avrebbe riconosciuta su mille.
Completamente scarica. Ringhiò per il fastidio, richiamando
Bear che
odorava dappertutto, correndo sulle scale.
«Eccone
una», udì qualcuno gridare.
Schivò
dei proiettili nascondendosi dietro un angolo, richiamando Bear,
tirandolo indietro. Il tizio imbavagliato sparò ancora e
Shaw
aspettò che si avvicinasse, così lo strinse per
il bavero con una
mano e con l'altra gli scagliò un colpo secco contro il
collo,
gettandolo a terra. Mentre si contorceva per il dolore e tentava di
respirare, tossendo, Shaw pensò bene di prendergli la
mitraglietta
dalle mani, controllando in che stato fosse il caricatore,
inginocchiandosi. «Mh, sei fortunato che non siano
finiti…», gli
diede due pacche su una spalla. Si rialzò, richiamando il
cane.
Ricambiò
agli spari di altri due, ferendoli senza ucciderli, e mise fine alla
sparatoria che altri tre uomini imbavagliati stavano portando avanti
contro una donna dall'altro lato del corridoio, inviando Bear su di
lei e fermando i tre a suon di colpi. Notò che ogni arma che
portavano gli uomini imbavagliati apparteneva a loro, chiedendosi
cos'avesse combinato Root in sua assenza: aveva ammanettato e drogato
lei, ma a quanto sembrava si era portata dietro qualche amico che non
aveva nessun rispetto per le armi altrui.
Stava
per riprendere passo quando da una porta passò un viso
conosciuto e
sorrise laddove lui, vedendola, tornò indietro.
Guardò Bear e,
gridando, indicò la porta: «Neem het [Prendilo]».
Bear scattò immediatamente, seguendolo: lo sentì
abbaiare e poi lui
gridare, dopo un colpo. Doveva essere caduto e Shaw sorrise di nuovo,
raggiungendoli. «Oh, mi piace quello che vedo»,
fece dell'ironia,
intanto che Daryl Boscoferro strisciava sulla schiena lungo le
pianelle dell'ospedale in disuso, riempendosi di polvere, ringhiato
da un feroce Bear a un metro di distanza. Shaw lo prese per la
camicia e lo alzò, sbattendolo contro il muro.
«Dov'è lei?»,
domandò.
«Non
lo so, c'è un gran casino qui, se non ti è
chiaro».
«Bear!»,
richiamò il cane che subito abbaiò,
avvicinandosi, e Daryl
Boscoferro si portò le mani sul viso, stringendosi, cercando
di
farsi piccolo.
«Va
bene, va bene, senti!»,
urlò, «L'ho lasciata di sopra, nella sala di Lars,
è l'unica
pulita e in ordine… o
meglio non lo sarà più con l'arrivo degli amici
della tua ragazza,
ma l'ho lasciata lì, la trovi al quarto piano, seguendo il
corridoio
dopo le scale», gridò d'un fiato, «Ma
adesso levami questa
bestiaccia di dosso!».
Lo
servì con un destro, rigettandolo a terra e, carezzando
Bear, gli
diede l'ordine di non perderlo di vista. «Non sei una
bestiaccia! Se
fa un passo falso… sbranalo».
Sorrise e li lasciò soli, caricando la sua arma.
Sbranalo
lesse sul copione. Amy rise, tenendo la voce più bassa che
poteva,
ricordando quando avevano girato quella scena: correndo nel
corridoio, sia Sarah che Carl erano scivolati più volte e il
cane
aveva lavato la faccia a entrambi. Sospirò. Sembrava passato
tanto
tempo da allora ed erano invece solo poche settimane. Non sapeva
neppure perché aveva voluto portarsi appresso i copioni
degli ultimi
episodi. Glieli avevano lasciati portare via per favore ma avrebbe
dovuto restituirli. E intanto, anziché dormire, si stava
rileggendo
quelli. Forse era come riavere un po' Sarah ancora vicina e le dava
fastidio perfino pensarlo: in fondo l'avrebbe rivista presto per la
Convention. E magari suo marito l'avrebbe accompagnata. Forse lei
avrebbe fatto finta di niente e in privato avrebbe cercato di
parlarle: fin da subito, doveva mettersi un punto fermo e ricordarsi
di non crollare alle sue parole; doveva prometterselo.
Sospirò
ancora e cambiò pagina, ma si fermò di colpo
udendo dei passetti
che venivano verso di lei: era strano, aveva già messo i
bambini a
letto ed erano stanchi dopo aver passato tutto il giorno fuori, fra
piscina e gli animatori, dovevano essere già addormentati da
un
sacco di tempo, non svegli. Restò in ascolto e
abbassò il copione
quando vide sua figlia affacciarsi alla parete, strofinandosi un
occhio per il sonno. Quasi non credette alle sue orecchie: Jackson
stava ancora vedendo la tv. Si alzò e poggiò il
copione sul
materasso, raggiungendo la piccola cameretta dei bambini.
Sgridò il
figlio di tornare immediatamente a letto che l'indomani si sarebbe
dovuto alzare presto, ma la sua voce quasi si affievolì
vedendo cosa
guardava: c'era Steve ed era impegnato in una gag, appena quella e le
risate finirono, riprese un'intervista e non poté fare a
meno di
restare in ascolto, anche se il suo primo pensiero fosse quello di
spegnere.
«Allora,
dicci…», s'interruppe il presentatore, guardando
la telecamera e
il pubblico sfoggiando un ghigno, «sappiamo che le cose fra
te e tua
moglie sono ormai ai ferri corti! Ecco, l'ho detto, l'ho
detto»,
guardò di nuovo il pubblico.
Amy
prese un grande respiro, imbambolata, sentendo il suo corpo divenire
bollente. Ava la chiamò ma lei le fece cenno con la mano di
aspettare, non distogliendo gli occhi dallo schermo.
Steve
serrò le labbra in una smorfia e si sedette più
comodamente sulla
poltrona, poggiando una gamba sull'altra. «Le voci circolano
in
fretta, Robert», guardò la telecamera,
«Si dice che il posto
sicuro di ogni uomo sia la propria casa: torna e trova la moglie e i
figli e tutto quello che ha costruito e si sente sollevato, sta bene,
è bello tornare a casa e sentirsi davvero a casa, non so se
mi
spiego». L'altro annuì, mostrando un viso
corrucciato e
interessato. «Ma da un po' di tempo, quando torno a casa non
mi
sento più in un posto sicuro, non mi sento a casa, Robert.
Come
dire, i gemelli erano stati la nostra salvezza nel nostro rapporto,
ma adesso non bastano più e siccome non vuole fare un altro
figlio,
al momento…», prese una pausa e rise da solo,
seguito poi dal
presentatore e dal pubblico, «beh, se non vuole, ci tocca il
divorzio».
«Il
divorzio?!», esclamò l'altro, guardando la
telecamera portandosi le
mani sul viso. «Avevo capito che eravate ai ferri corti,
amico, ma
questo è precipitare in un baratro senza paracadute! Siete
già a
quel punto?».
Lui
annuì. «Sì»,
scrollò di spalle, «Sì, sì,
lo siamo e non credo
ci sia più niente che io possa fare per… salvare
la baracca,
chiariamoci: quando lei ti dice di essere innamorata di
un'altra…
persona, Robert, tu puoi solo stare zitto», fece il gesto,
per poi
allargare le braccia e rimettersi composto, «e lasciare che
il tempo
sbrighi le cose al posto tuo».
Ava
la chiamò di nuovo e Amy si girò per ascoltarla,
lasciandosi
catturare ancora una volta dalla televisione:
«Innamorata
di un altro?», sbottò il presentatore, dando per
scontato si
trattasse di un uomo.
Steve
si passò le mani in faccia come se cercasse di non dire
troppo; e
forse non poteva per via di restrizioni legali legate al divorzio.
Diventò rosso e rise, scuotendo la testa, abbassando la
schiena e
lasciando andare le braccia sulle cosce, a peso morto. «Ho
detto
innamorata di un'altra
persona,
Robert», specificò, non potendo farne a meno.
Sentì
Jackson e Ava ridere e così Amy tornò in
sé, decidendo di spegnere
la televisione. «Forza, vi voglio tutti e due a letto, senza
storie!
È tardissimo». Le fecero notare che era lei quella
che si era
incantata con l'intervista ma fece finta di niente, rimboccando le
coperte. Stava per lasciare la stanza e si voltò un'ultima
volta per
vederli sorridere e ghignare, così cambiò idea e
richiuse la porta
dietro di lei, lasciando la luce accesa. «Perché
ridete? Avete
visto qualcosa che vi ha fatto ridere?».
Ava
le disse che Steve era divertente, Jackson che lo era lei. Gli chiese
spiegazioni e non mancò di farle presente come entrambe, lei
e
Sarah, avessero chiesto il divorzio. La trovava una strana
coincidenza, accidenti, e non era riuscita a dirgli altro. Non che ci
fosse altro: Sarah stava divorziando, ma finché non si
sarebbero
parlate… Si mantenne la testa, capendo che nemmeno lei
sapeva cosa
stava per succedere e c'era voluto così tanto per far
sorridere
Jackson da quando gli dissero del divorzio che pensò di
lasciarlo
dormire e basta, che ci avrebbero pensato un'altra volta, che ogni
cosa avrebbe avuto il suo tempo. «Buonanotte! Vi voglio
bene».
Tornò
nella sua stanza e si accasciò sul letto, riaprendo le
coperte e
riprendendo in mano il copione, fissandolo. Sarah aveva chiesto il
divorzio, pensava. Sarah era innamorata di un'altra…
persona.
Sorrise, spegnendo la luce.
Brandon
aveva lasciato la sala con una strana luce negli occhi e, in altre
circostanze, Root ci avrebbe dato certamente più peso. Il
ragazzetto
sembrava sovrappensiero e che solo l'eccitazione dovuta all'usare le
armi riusciva a distrarlo. Ma non le interessava. Probabilmente
pensava ai suoi soldi e a Daryl che scappava con la
possibilità di
riaverli. Vide la sala pian piano svuotarsi, a parte l'avvocato che
svenuta sbavava sulla moquette. La trascinò di peso su un
divano per
non farla calpestare e si abbassò per riprendere il suo
fucile.
Piano, senza movimenti bruschi e, appena ce l'aveva stretto fra le
dita, si rialzò di tutta fretta, puntandolo alle sue spalle:
il
Marshall Mason pelato era lì davanti a lei, con in mano una
pistola.
«Ehi… Ma guarda un po', pensavo non ti avrei
più rivisto».
«Nemmeno
io. Non era nei suoi piani: qualcuno avrebbe dovuto ucciderti ma
è
stato un fallimento», sorrise sghembo e indicò con
lo sguardo
dietro di lui, così Root mosse lo sguardo: Philip Lars era a
poco da
loro, avvicinandosi con le mani nelle tasche dei pantaloni, senza
fretta.
Era
intento a osservarla con attenzione; anche Root lo guardava, pur
continuando a tenere sotto tiro il Marshall Mason. Come nella foto in
casa di Claire Weller, era strano rivederlo dopo tanti anni, un po'
più grosso, stretto in una camicia a righe con bretelle, con
i
puntini neri della barba che ricresceva.
Lars
aprì la bocca piano, dapprima come se volesse solo soffiare,
leggero, per poi dire quel nome: «Marguerite
Yves».
Root sentì un brivido. «No, Samantha Groves. O
forse dovrei
chiamarti Root?».
Aveva un'aria esausta, sconfitta, nonostante avesse davanti agli
occhi la donna che gli aveva procurato tanto dolore. Era stanco come
se non riuscisse a dormire da tanto, con le borse sotto gli occhi e
la bocca rovinata da tagli e pellicine.
Ci
mise troppo a rispondere, abbassando il fucile. «Puoi
chiamarmi come
preferisci».
Lui
sorrise fino a fingere una risata, a denti stretti, passandosi sulla
fronte una mano e, con l'altra, dando l'ordine al suo sottoposto di
abbassare la pistola. «Allora preferisco maledetta.
O diavolo.
Tu mi hai portato via tutto», la fissò negli occhi
e Root si sentì
stringere lo stomaco: aveva sbagliato tante di quelle cose, in
passato, che in fondo si meritava davvero tutto l'odio che lui
nutriva per lei. Ma lui doveva sapere ciò che successe
davvero
quella mattina.
«Non
è stato un mio proiettile ad uccidere Mona, tua
figlia», gli disse
a un certo punto.
«Cosa
stai dicendo?», il suo viso diventò rosso pastello
e, nell'impeto
di rabbia, corse verso il Marshall Mason e gli strappò la
pistola
dalla mano, puntandola su di lei.
Root
non si mosse, ricordando l'orribile periodo dopo l'accaduto che
l'avevano portata a coricarsi la notte con la pistola sotto il
cuscino, finché non decise di fare ricerche sul caso.
«Non sto
mentendo», scosse la testa, «È stato un
tuo proiettile a farlo.
Pensavo meritassi di sapere la verità sulla sua
morte».
«Tu
sei una bugiarda!», gridò diventando livido di
rabbia. «Bugiarda!
Non sei soddisfatta di avermi portato via mia figlia, di aver portato
via il nostro futuro, quel giorno…», strinse i
denti, tremando,
«Tu vuoi portarmi via anche l'unica certezza che mi
resta».
Root
deglutì. «Non posso dire o fare nulla per fermarti
dallo spararmi,
lo so…», abbozzò un mesto sorriso,
«Ho fatto davvero tante cose
brutte e sbagliate nella mia vita e tu sei solo una delle persone che
ho rovinato. Mi odi, Lars, ma, in questo caso, tu hai tante colpe
quanto me».
«Io
dovrei ucciderti e basta, senza ascoltarti».
«Non
volevi affrontarmi e per questo volevi farmi uccidere da qualcun
altro, ma adesso che sono qui… se avessi voluto uccidermi
senza
ascoltarmi lo avresti già fatto».
Lui
strinse gli occhi e, iroso, non riuscì a trattenersi e
premette il
grilletto. Root si voltò, sorpresa, scoprendo che Lars aveva
ucciso
a sangue freddo e con un colpo al petto l'avvocato stesa sul divano.
Non
si lasciò intimidire e continuò, inclinando la
testa: «Io non
avrei dovuto accettare di uccidere Portes, Lars, e tu non dovevi
voler assoldare qualcuno per ucciderlo. Lui non era il ragazzo giusto
per tua figlia, forse è vero, ma spettava a lei la scelta.
Potevi
prenderla da parte e chiederle di perdonarti per aver fatto ricerche
su di lui», raccontò, guardandolo dritto nei suoi
occhi che
diventavano lucidi, mentre corrugava la fronte e strizzava le labbra
dalla rabbia, «per poi dirle cos'avevi scoperto, di quando
era stato
arrestato ancora minorenne per aver picchiato la sua fidanzatina al
liceo. E allora sarebbe stata una sua decisione: se lasciarlo o
restare con lui perché aveva promesso di cambiare
vita», sorrise di
nuovo, con il labbro inferiore che le tremava. «Non lo
conoscevo e
allora non volevo neanche farlo, ma adesso so che le persone possono
cambiare, Lars. Anche quelle che fanno delle cose davvero brutte e
sbagliate… se hanno la possibilità di incontrare
nella vita
qualcosa di molto bello».
Lars
abbassò l'arma e pestò un piede a terra,
diventando ancora più
rosso, madido di sudore. Forse di lì a poco avrebbe detto
qualcosa,
ma dal chiasso all'interno dell'ospedale riecheggiò uno
sparo a poco
da loro e si voltarono, avendo catturato l'attenzione di tutti e tre:
Brandon era rientrato nella sala e aveva sparato un colpo verso il
soffitto, per poi mettersi a ridere. Era rosso e sembrava quasi
disorientato, impazzito.
«Mi
sono perso qualcosa, lo so», si avvicinò,
applaudendo. «Vero,
papà?».
Velocemente, prese la mira e sparò un altro colpo, uccidendo
il
Marshall Mason pelato che cadde a terra con un buco sulla fronte.
Root
spalancò gli occhi, colta di sorpresa, guardando l'uomo che
era
stato appena ucciso senza pensarci, e dopo Lars che diventava
paonazzo e indietreggiava.
«Brandon?»,
sbottò, degnando poco il cadavere del suo tirapiedi.
«Allora
sai il mio nome, wow», gridò lui, saltando per un
ultimo passo.
Rise ancora, guardando poi Root e indicandoglielo con la canna della
pistola: «Sentito? Sa il mio nome! Che
fico».
Philip
Lars riuscì a stento a sorridere, pur restando molto
stupito. Non
sapeva come comportarsi, colto da un'euforia improvvisa e allo stesso
tempo cercando di mantenersi lucido, perché aveva ancora fra
le mani
la donna che aveva ucciso sua figlia. «Brandon…
Credevo non ti
avrei mai ritrovato… N-Non sapevo nemmeno dove abitassi,
ormai».
«Ma
certo», il ragazzetto sforzò un sorriso colmo di
rabbia, «Perché
avevi pagato mia madre affinché mi nascondesse, porco
schifoso».
Root
cominciò a capire: Brandon era figlio di Lars, un figlio
illegittimo. Non c'era nulla sulla rete o non avrebbe mai affidato
un'arma a un potenziale pericolo. Credeva di usarlo a suo vantaggio,
ma era stato lui a usare lei e forse lo stesso Daryl Boscoferro.
Tutto per arrivare a suo padre. Solo ora comprendeva meglio l'aria
pensierosa sul suo viso.
Lars
aprì la bocca, intento a dire qualcosa, ma una delle porte
si aprì
con un brusco scatto e l'arrivo di Shaw con la mitraglietta puntata
verso Lars rimescolò le carte del gioco. Root si
accigliò e la
squadrò fino a che non la vide avvicinarsi, intanto che
l'uomo
gettava a terra la pistola, arrendendosi.
«Non
mi posso proprio liberare di te, eh?!», non riuscì
a fare a meno di
sorridere, scuotendo brevemente la testa.
Anche
Shaw accennò un sorriso. «Pensavo la stessa
cosa», mormorò, poco
prima di ordinare a Lars di allontanarsi dalla pistola gettata a
terra e a Brandon di buttare la sua.
Lars
guardò il ragazzino con attenzione, venendogli le lacrime
agli
occhi. «Non potrò mai dimenticare ciò
che è accaduto a Mona»,
esclamò, passandosi ancora una mano per ripulirsi dal sudore
e
distanziandosi, mentre Shaw dava un calcio alla sua pistola a terra,
«La mia bambina era la mia casa, il mio unico posto
sicuro… Ma
almeno ora ho un figlio e posso ricominciare» si rivolse al
ragazzetto, porgendogli una mano.
Brandon
sorrise e strinse gli occhi e la bocca come in preda all'entusiasmo,
fino a quando non alzò il braccio con la pistola e,
cambiando
completamente espressione, sparò all'uomo in pieno petto,
gettandolo
a terra sotto lo stupore delle due. «Sì, beh, col
cazzo»,
strepitò. Loro non fecero in tempo a veder l'uomo affogare
sul suo
stesso sangue che Brandon non perse tempo e puntò di nuovo
l'arma
contro Root: «Grazie per avermi portato da lui, non sai
quanto cazzo
ho desiderato questo momento… Il
suo unico posto sicuro,
l'hai sentito, cioè, io non ero nessuno fino a ieri, vecchio
di
merda», sospirò, intanto che Shaw gli puntava
contro la
mitraglietta e gli ordinava di abbassare l'arma. «Beh,
tornando a
noi», continuò, senza badare alle minacce,
«credevo che con
Boscoferro non ci sarei arrivato mai… Ma come sai
è colpa tua se
la mia sorellina che non ho mai conosciuto è morta e
io», rise,
«desideravo tanto una sorella, accidenti».
«Non
farlo», sussurrò Root.
Shaw
tentò di avvicinarsi, pensando di potergli strappare l'arma
dalle
mani prima che premesse il grilletto. «Fai come dice,
perché non
sai quanto anche io ho desiderato questo momento».
Il
ragazzo sbuffò e scosse la testa con fastidio, muovendosi
per
abbassare la pistola. «Va bene, avete ragione, non
è così che si
risolvono le cose… Dopotutto, tu hai portato via una sorella
a me e
io», scrollò di spalle, «devo portare
via qualcosa a te».
D'improvviso, Brandon risollevò l'arma e la puntò
contro Shaw,
sparando un colpo senza pensarci. Anche Shaw sparò con un
gesto
automatico ma, per sfortuna del ragazzetto, non c'era nessuno a
prendere i proiettili per lui: Root si mosse in fretta e
riparò
l'altra con il suo corpo, venendo sbalzate entrambe sulla moquette.
Era
una perfetta giornata di sole e Amy non poté che esserne
più
felice: la vacanza era finita e non avrebbe sopportato di ritornare a
casa con il cambio di stagione. Parcheggiò l'auto e Ava e
Jackson
presero i loro bagagli, entrando in casa di corsa. Appena
varcò la
porta, Amy fu colta da sensazioni contrastanti: era casa ma non il
posto che ricordava di conoscere; si sentiva la mancanza di James che
aveva deciso di sparire un po' per passare del tempo dalla sua
famiglia, e poi aveva imballato delle cose e c'erano degli scatoloni
in un angolo dell'ingresso che le mettevano addosso una certa
malinconia, ma non era solo quello, c'era qualcosa di diverso
nell'aria.
Sentì
subito i bambini ridere e parlare a voce alta, così
immaginò
dovevano esserci i suoi genitori che avevano aspettato il loro
rientro. Appena vide la testa di sua madre camminò
più velocemente
per raggiungerla, ma scoprendo che in braccio aveva una bimba piccola
si fermò. La bimba di Sarah, Violet. Non capiva. Sua madre
si girò
e, vedendola, parve chiamare qualcuno.
Era
lì. Sarah era lì. In preda a un attacco d'ansia,
non poté che
aspettare il suo arrivo appoggiandosi contro una parete, mettendo le
mani nelle tasche dei pantaloni. Cosa faceva Sarah a casa sua? Era
agitata all'idea di affrontarla, ma, appena la vide affacciarsi,
s'illuminò: aveva Knox in braccio che giocava con un peluche
e con
una ciocca dei suoi capelli; sembrava esausta, era un po' tirata e
senza trucco, vestita con un jeans largo e una felpa. Aveva
così
voglia di abbracciarla. Ava venne a prendere il bambino e lo mise a
terra per farlo camminare mano nella mano con lei, riportandolo dagli
altri per giocare. Sarah lo lasciò andare e, accostandosi a
lei,
parve tremare come una foglia, sospirando: probabilmente nemmeno lei
era pronta ad affrontarla, anche se l'aveva aspettata.
Aveva
perso la nave, non era andata, aveva scelto Steve e poi aveva deciso
di divorziare da lui. Non aveva senso. Si era forse accorta di aver
commesso un errore? Aveva promesso a se stessa che non avrebbe ceduto
a qualunque cosa lei avesse provato a dirle, ma l'aveva fatto prima
di sapere del suo divorzio. Poteva cambiare tutto. Il suo viso era
così affranto, così timoroso ma allo stesso tempo
audace che pensò
avrebbe potuto perdonarle qualunque cosa. Ma non era così
semplice.
«Ho
perso la nave», enunciò Sarah tentando un sorriso.
Amy
sorrise a sua volta, abbassando gli occhi. Sospirò.
«Hai perso più
della nave». Non avrebbe ceduto con così poco:
l'aveva delusa e
l'aveva fatta sentire una seconda scelta. Poteva capirla, aveva avuto
paura delle conseguenze proprio come aveva avuto paura da adolescente
in ciò che le aveva raccontato, ma lei, né i suoi
sentimenti, non
era un giocattolo che poteva usare come e quando voleva. La loro
relazione era stata bella, ma era destinata ad avere una fine;
nascoste dal mondo, dai loro mariti e dalle loro famiglie non era una
relazione sana. Amy voleva di più e se Sarah non era pronta,
allora
non potevano stare insieme.
«Non
volevo perdere anche il ritorno», continuò lei,
mordendosi un
labbro. «Scusa se sono piombata qui con i bambini e per la
confusione».
«Hai
detto tutto ai miei genitori?».
«Ho
parlato un po' con loro…», la fissò,
per poi mettersi a ridere,
«Ma dai! Non ho detto niente… anche
perché sono la prima a non
sapere niente».
Amy
annuì, trattenendo la risata e abbassando lo sguardo
dall'imbarazzo.
Nessuna delle due sapeva cosa stava succedendo, cosa facevano o cosa
avrebbero fatto: c'era un non so che di ironico in tutto quello.
«Ho
cercato di venire, quel giorno. Davvero. Ma mi ha fermato una
pattuglia e ha fatto domande, poi non trovato la patente, e non avevo
biglietto, e i poliziotti mi guardavano spazientiti, ero vestita da
casa e non avevo valige, ero sospetta; poi si sono messi a dire che
la nave non sarebbe partita se c'era qualcuno che mi
aspettava»,
disse velocemente e senza respiro, facendo ridere Amy, «ma io
cercavo di spiegare che non lo avrebbe fatto perché nessuno
mi
aspettava», si morse un labbro, guardandola negli occhi,
«E così,
infatti, ho perso la nave».
Amy
scosse la testa, mantenendo un sorriso.
«E
io non volevo proprio perderla quella nave», si
avvicinò ancora e
alzò la mano destra per sistemarle dietro l'orecchia una
ciocca di
capelli, approfittando della vicinanza per accarezzarle la guancia.
Amy
socchiuse gli occhi e si lasciò coccolare. «Io ti
aspettavo».
Sarah
sorrise. «Avrei dovuto esserci».
«Avresti
dovuto».
«Ma
sono qui ora».
Amy
annuì ma in un attimo si tirò indietro, dando
un'occhiata verso la
porta, ma nessuno sembrava pronto a disturbarle, non sentiva
più
voci vivine e capì che probabilmente sua madre doveva aver
portato i
bambini in cortile per lasciarle parlare. Magari immaginava
parlassero di lavoro. Sarebbe stato bello raccontarle poi la
verità,
con la dovuta calma. «Sei qui ora, va bene», disse
e Sarah la
guardò corrucciando lo sguardo, con la mano ancora alzata
verso di
lei, a mezz'aria. «Ma non basta, Sarah», scosse la
testa. «Non mi
basta sapere che sei qui ora e non sapendo dove sarai
domani».
«Ho
chiesto il divorzio, Amy, non capisci».
«Va
bene, lo so, ma… Ma un giorno te ne pentirai. Sei qui ora e
hai
chiesto il divorzio ma se devo vivere una relazione nascosta
da…»,
diede un altro sguardo verso la porta ma non c'era nessuno,
«dalle
persone che amo non… Non voglio vivere così! Se
posso amarti,
voglio poterlo fare alla luce del sole», la fissò
negli occhi, «Se
sei qui ora come dici, vorrei che ci fossi sempre. Per me».
«Ci
sono, Amy», ribadì, annuendo piano,
«Sono qui per te ora come lo
sarò domani. Te lo prometto: non me ne andrò
via». Amy arrossì e
Sarah le accarezzò di nuovo una guancia, avvicinandosi con
fretta,
dimostrandole che faceva sul serio. «Non me ne
andrò via perché
sono innamorata di te! E non riuscivo più a tenermelo
dentro, dovevo
assolutamente dirtelo».
Amy
abbassò il viso di colpo e se lo nascose con una mano,
iniziando a
ridere e trattenere il fiato, prima di guardarla di nuovo in faccia.
«Meno male che ti amo anch'io, allora, o sarebbe stata
davvero una
pessima figura».
«Sì?».
«Decisamente
sì», annuì; le prese il viso con una
mano e avvicinò le labbra
alle sue, stringendosi a lei.
Quel
ragazzino aveva sparato e per un attimo tutto era diventato sordo.
Root aveva provato a spingerla avanti ma erano troppo vicine alla
pistola da cui era partito il colpo, così l'aveva stretta a
sé e le
aveva fatto scudo con il suo corpo.
Shaw
tremava. Non poteva accadere davvero, non adesso; sarebbe stato un
orribile presa in giro del destino. Era corsa lì per
aiutarla e non
perché si prendesse un proiettile per lei.
La
sentì brontolare e la sollevò, cercando
delicatamente di
appoggiarla sulle sue ginocchia. Vide che aveva un rivolo di sangue
che le usciva dalla bocca e, con lo stomaco che le si contorceva e la
gola che si faceva secca, per un attimo si perse tra i suoi pensieri,
nelle le sue paure e le sue debolezze.
«Root…»,
la chiamò, vedendola stringere gli occhi e i denti,
respirare con
affanno. «Sei una stupida, stupida…». La
toccò appena per capire
dove l'avesse colpita che l'altra emise un lamento e
risollevò la
mano con paura. «D-Devo toccarti…», le
strinse il bordo della
maglia scura ma la fermò con una mano sulla sua,
«Devo capire se
posso… Dove ti ha preso, così posso-»,
si fermò, ansimando,
guardandosi attorno: si trovavano in un ospedale in disuso e non
sapeva se avrebbe o meno trovato qualcosa da usare per estrarle il
proiettile, ma avrebbe fatto qualunque cosa in suo potere per
salvarla. Qualunque. La prese fra le sue braccia e la
riportò sul
pavimento, così stava per lasciarla quando Root la strinse e
si
guardarono. «Non pensarci neanche»,
soffiò appena, con un
movimento lento della testa. «Non morirai… Tu non
hai proprio idea
di quello che ho passato», strinse i denti, «E non
te lo
permetterò. Sono stata abbastanza chiara?».
Root
aveva il fiato corto e la guardava quasi senza battere ciglio.
Riusciva a tenerla a sé con troppa forza, quasi fosse la sua
ultima
volontà. Shaw sapeva di dover fare qualcosa ma lei la
tratteneva e
allora forse temeva di perdersi qualcosa. Lei non voleva che fossero
gli ultimi istanti di Root, ma se lo fossero stati, si sarebbe voluta
perdere di immergersi nei suoi occhi per l'ultima volta?
«Non
puoi farlo…», le vennero gli occhi lucidi.
«Ho bisogno di te…»,
li chiuse, stringendo le labbra. «Io ti-».
Brandon
tossì e sputò sangue tanto forte da far
sobbalzare entrambe,
distraendosi. Root perse la sua stretta su Shaw e lei, in un momento
di lucidità, si accorse che l'altra non perdeva sangue. Si
guardò
le mani e, per come l'aveva stretta a sé, avrebbe dovuto
averle
fradice, ma non era così: erano appena rosse e un po'
spaccate per
come aveva colpito i tizi con il bavero poco prima.
«Ti?»,
la sorprese Root, rialzando la testa. Vedendo che l'altra non
continuava, mise su il broncio. «Ah… Bisogna
trovarsi sul punto di
morire per sentirsi dire le due paroline magiche?», sorrise,
inclinando la testa. «Allora
sarà…», si sedette, reggendosi le
costole, «per la prossima volta». Si
sfilò la maglia scura,
recuperando il proiettile incastonato nel giubbotto antiproiettile,
sotto il muto sgomento di Shaw.
Root
lo sollevò e lo scrutò, mettendo poi a fuoco
Shaw, che stava ancora
in silenzio. Le sorrise, vedendola finalmente muoversi, scuotere la
testa con la bocca aperta. Pensava si sarebbe arrabbiata e forse un
po' lo era, ma avrebbe sfidato chiunque a dire che quello nel suo
sguardo non era amore.
«Indossavi
un giubbotto».
«Ti
avevo detto che avrei fatto di tutto per tornare da te», si
ripulì
la bocca e sentendo Brandon gemere si voltò, decidendo di
muoversi.
Una
chiamata anonima mise in moto la polizia e, quando loro arrivarono al
vecchio ospedale, si ritrovarono davanti a una scena senza pari, fra
muri impallinati
come gruviera e uomini e donne uccisi a sangue freddo. L'ambulanza
accorse per recuperare i feriti più gravi e i poliziotti si
occuparono di trascinare sulle volanti tutti quelli che riuscivano
ancora a camminare. Brandon Norren era in una pozza di sangue in una
sala in compagnia di altri tre cadaveri; sembrava morto, ma aveva
solo perso conoscenza. Aveva perso molto sangue
e i paramedici si premurarono
di intubarlo immediatamente.
Un
poliziotto trovò il fuggiasco Daryl Boscoferro legato a una
porta
con un tubo d'idrante e il detective Fusco decise di riportarlo
dentro. In un momento dove nessuno poteva sentirli, gli chiese se
Root stesse bene e l'altro rispose che stava meglio di lui, che se
n'era andata con le sue gambe dopo che la psicopatica con lei lo
legò
come un salame. Gli stava aprendo la portiera dell'automobile quando
vide delle ombre in lontananza e strizzò gli occhi: Shaw e
Root
erano nascoste dalla vegetazione, dietro un albero, lontane dal
piazzale su cui sorgeva l'edificio ospedaliero. Shaw teneva Root
sottobraccio. Era viva. Fusco sorrise e loro si girarono per
allontanarsi, con Bear vicino. Lui sapeva che quello voleva essere un
addio, ma sapeva anche di non essere tanto fortunato. Boscoferro si
fermò e si voltò anche lui, così lo
spinse dentro in modo brusco:
«Muoviti, damerino».
«Stavi
per dirmi qualcosa, quando ero sulle tue braccia, prima».
«Non
credo».
«Mi
piacerebbe molto se riprendessi l'argomento».
«Ho
un vuoto di memoria».
Root
tentò di sbuffare ma facendole male il petto
lasciò stare,
reggendosi contro una panchina. Bear le si mise vicino come per
confortarla e Shaw le disse che, al momento di trovare sistemazione,
le avrebbe controllato il petto e la schiena. A Root sembrò
una
proposta allettante. Stavano per rimettersi in cammino, quando a un
tratto il telefono a poco dalla panchina iniziò a squillare.
Nessuno
sul marciapiede parve badarci a parte loro. Root scambiò uno
sguardo
con Shaw e si accostò alla cornetta, pronta ad ascoltare
ciò che la
Macchina aveva da dirle. Parlare con Lei al telefono era come
ritornare ai vecchi tempi. Ascoltò e Shaw la vide poco a
poco
cambiare espressione, dal sorriso felice a quello malinconico.
Riattaccò con le lacrime agli occhi.
«Cosa
ti ha detto?».
Root
prese fiato: «Addio».
Shaw
aggrottò le sopracciglia, seguendola con lo sguardo mentre
raggiungeva la panchina e si sedeva.
«Non
parlerà più con me»,
proseguì. La Macchina non lo aveva detto
chiaramente ma lo aveva fatto ben intendere: il problema di
comunicazione fra loro non apparteneva alla sua orecchia buona, non
dipendeva dal suo morire e tornare indietro, ma era dato dalla
Macchina stessa. Non poteva sistemare il fischio perché non
voleva.
Le stava lasciando la mano un poco alla volta. In verità non
ne era
stupita; era come se lo avesse sempre immaginato ma non era mai stata
pronta ad ammetterlo. «Vuole che io…»,
si fermò e alzò gli
occhi verso l'altra, sorridendo da orecchia a orecchia, «viva
la mia
vita».
La
Macchina era tutto ciò che aveva sempre sognato e ora
l'aveva
lasciata dicendole che temeva non potesse vivere appieno la sua vita
se poteva avere Lei. Un ostacolo alla sua realizzazione come persona.
Non lo era. Per Root non lo era, e forse anche questo era parte del
problema. La Macchina non aveva più bisogno di lei, magari,
ma lei
avrebbe sempre avuto bisogno della Macchina. Se non ci fosse stata
Shaw, probabilmente. Avrebbe dato di matto e avrebbe sfogato la sua
rabbia su qualcosa o qualcuno se la Macchina le avrebbe detto addio
in passato, ma era una persona diversa adesso, e aveva altri sogni,
aveva un obiettivo, aveva un fine e aveva una compagna. Amava
più
Shaw.
Bear
si accostò e le leccò il viso, sedendo davanti a
lei. Shaw guardò
lei, poi il telefono e dopo la telecamera, un po' più a
lungo. Annuì
un poco, come se avesse voluto che recepisse un messaggio da parte
sua.
«Beh…»,
mormorò, rigirandosi verso di lei, «Mi pare di
ricordare volessi
fare una vacanza: potremmo iniziare da lì».
Root
le sorrise, rialzandosi e riprendendo Bear per il guinzaglio,
così
si rimisero a camminare. «Ti amo».
«Me
lo hai già detto».
«E
tu mi…?».
«Root…
cammina».
Rise.
«Samantha. Credo tu possa chiamarmi Samantha,
adesso».
«Samantha…»,
le prese la mano libera e intrecciò le dita con le sue,
«accontentati».
Si
sorrisero, sparendo nella folla.
È
finitaaaa… Questo è l'ultimo capitolo ma in
effetti no, non è
proprio finita, e ci rileggeremo fra qualche giorno (non
farò
aspettare lunedì prossimo) per il breve epilogo :)
Amy
e Sarah si sono finalmente ritrovate e sembra proprio che la loro non
sarà più una relazione nascosta dal mondo,
dall'altra parte,
intanto, Root ha pensato bene di indossare un giubbotto
antiproiettile, mettendo che le possibilità di essere
sparata da
Lars erano alte, la Macchina le ha detto addio
e Shaw si è vista concedersi un futuro.
Bene…
come scrissi nello scorso capitolo, questa fan fiction mi manca
già.
Sono sempre stata una scrittrice da storie originali e le poche fan
fiction che mi sono messa a scrivere non sono mai state più
lunghe
di un capitolo, se poi contiamo che non ho mai scritto una storia in
due parti come questa, beh, è stata una vera e propria
sfida. Una
sfida che non sono certa di aver vinto.
Mi
è piaciuto scriverla e a un certo punto mi è
proprio piaciuta la
fan fiction e cosa stavo inventando, ma man mano che postavo i
capitoli online e li rileggevo, mi capitava più volte di
restarne un
po' a bocca asciutta. Mi spiego: mi è piaciuto creare la
storia in
due parti ma ho come la sensazione che, se avessi scritto le due
storie separatamente, avrei potuto osare di più. Tuttavia
c'è da
dire che se avessi scritto le storie separatamente non sarebbero mai
state così, o almeno per quanto riguarda la parte di Amy e
Sarah.
Per Root e Shaw sì, avrei potuto creare molto di
più, ma per Sarah
e Amy no, che la trovo molto più legata all'altra parte,
quella
dello show che, senza di esso… non credo l'avrei proprio
scritta.
Ci sono pro e contro.
In
ogni caso, se ho vinto o meno questa sfida spetta a voi lettori
dirlo!
E
per il resto… rimando questa discussione nell'angolo autrice
dell'epilogo che posterò a giorni :)
Spero
che il capitolo e che la storia in generale vi sia piaciuta ^_^
Ringrazio
ancora tutti coloro che mi hanno accompagnato in questa piccola
avventura e ci si rilegge all'epilogo ^^ Bye e... buon dolcetto o
scherzetto :3
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