Appuntamento all'inferno Capitolo 1. La selva oscura
"Il
mondo è caduto, le tenebre hanno preso il sopravvento, il
male
dell'inferno si rovescerà sulla terra. Catone mi ha tradito,
il
motivo ancora non lo scorgo ma qualcosa ha causato il suo folle gesto.
La distruzione del purgatorio comporterà eventi che non
siamo
ingrado di prevedere, che non siamo in grado di fronteggiare, e gli
uomini sono troppo deboli per capire da che parte schierarsi. Abbiamo
bisogno di un'idea, abbiamo bisogno di qualcosa che lui non ha, una
vita, solo una vita può sconfiggere la morte, solo un'anima
ancora nella sua casa fatta di carne ed ossa, solo un'anima
caratterizzata da onore e coraggio. Ciò che è
stato
è stato, ciò che succederà dipende da
noi. Ora,
miei angeli, andate e fermate per quanto potete il male nel suo cono di
tenebre e oscurità."
Nel mezzo del cammin di nostra
vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la dritta via era
smarrita
Sbaglierei
se iniziassi il mio racconto in questo modo, e non per un sol motivo.
Ma il motivo che più influenza questo punto del racconto
è un fatto temporale, ovvero che io non mi trovo nel mezzo
del
cammino della mia vita, ben si un decennio prima dell'età a
cui
si riferisce questo celebre verso. Tuttavia ricordo
solo il calar della notte fonda ed io segnato dalla serata, tornavo a
casa barcollando. Tanto era il sonno e la stanchezza che crollai per
terra senza neanche concepire come successe.
Mi
svegliai forse qualche ora dopo. Frastornato e confuso mi guardai le
mani, sporche di terreno umido e maleodorante. Alzai il capo verso
l'alto e mi accorsi che sopra di me i rami degli alberi s'intrecciavano
come a formare un tetto naturale, che mi impediva di scorgere il cielo.
Le radici monumentali si piantavano al suolo quasi con violenza, come
se quegli alberi fossero aggrappati al terreno viscido e irregolare. La
fitta rete di querce nascondeva la profondità di quella
foresta
putrida e copriva ogni squarcio di luce che per pochi attimi riuscivo a
cogliere. Mi sembrava quasi di non riuscire a respirare. Nel silenzio
spettrale potevo sentire di tanto in tanto degli strani versi
animaleschi, inquietanti e senza una precisa provenienza. Nell'aria era
visibile uno strato di umidità che pareva colorarsi di rosso
ogni volta che qualche raggio di sole riusciva a penetrare l'intreccio
di rami. La puzza nauseabonda di putrefazione mi provocava un certo
malessere, così decisi che dovevo trovare il modo di tornare
alla luce, alla salvezza.
Cominciai
a correre per quanto potevo, cercando di non affondare troppo i passi
nel terreno spesso e pesante, e di evitare le grosse radici che
sporgevano da quel che pareva un mare nero. Più volte
inciampai
e il mio viso toccò quel terreno in più
occasioni,
macchiandosi di paura. Ma non persi la speranza, mi alzavo e
ricominciavo a
correre, dovevo uscire da quel posto di cui ignoravo l'ingresso e il
modo con cui vi entrai. Finalmente dinanzi a me, un fascio di luce mi
colpì gli occhi, e prima che potessi perderlo mi fiondai
nella
direzione in cui nasceva. Più andavo avanti più
il fascio
cresceva, fino a che non riuscì a vedere una via d'uscita
che si
colorava della luce del sole. Mi lasciai alle spalle il buio pesto,
davanti avevo la salvezza e l'incoronazione della speranza mai persa, e
della tenacia.
Appena
misi il piede davanti all'ultimo arbusto che mi separava dalla luce,
balzò con una velocità sovrannaturale davanti a
me una
creatura selvaggia, una lince. L'animale con i piedi ben piantati per
terra puntava lo sguardo verso di me, la sua postura era quella di un
predatore che aveva in trappola la sua preda, e il suo manto era folto
e ben pulito pur essendo un animale selvaggio. I colori della bestia
erano sorprendentemente vivi, e nei suoi occhi riuscivo quasi a
scorgere la sete di sangue. Io caddi per terra tanto
era lo spavento, e con l'aiuto delle mani strisciavo indetro un
pò alla volta. La creatura mi fissava attenta pronta a
tendermi
un agguato, ma non mi attaccava, quasi sembrava che stesse cercando di
farmi ritornare nella foresta come in realtà stavo
già
facendo. Appena toccai il terreno viscido con le mani, ne strinsi un
pò in un pugno e senza neanche riflettere, glielo lanciai
sugli
occhi per poi cercare di dileguarmi. La bestia però non ci
cascò del tutto e prima che io potessi scappare, mi
afferrò il braccio destro con la bocca staccandomi brandelli
di
carne. La paura era tanta che anche il dolore venne meno, ma la
creatura accecata dal terreno non riuscì completamente a
fermarmi, e sanguinante scappai da quella delicata situazione.
Cercavo
di costeggiare i fianchi della foresta per non perdere la luce
seminascosta da una collina, che poggiava le sue pendici sui confini
della selva. Spaventato e ferito a un arto, avanzavo a fatica cercando
di trovare un posto famigliare che mi permetesse di orientarmi, e di
trovare la via di casa. Camminavo con la testa china strigendomi il
braccio ferito e fù li che udiì un rumore
violento, il
ruggito di un leone. Mi nascosi tempestivamente dietro ad un masso e
sporsi la testa per cercare la fonte di quel grido di battaglia.
Proprio un Leone uscì dalla selva, e la sua
maestosità
era tale che il suo corpo quasi illuminava la strada su cui poggiava le
grandi zampe. Quella reale bestia era così grande, troppo
per un
normale leone, e la sua criniera lucente non presentava imperfezioni.
Un esemplare perfetto. Non sembrava lì per caso, cercava
qualcosa,
annusava ruggiva anche a basse frequenze, ascoltava la terra con le sue
zampe, e manteneva la sua posizione come un soldato pronto a difendere
il suo re. Io affannato osservai la scena con stupore, il braccio mi
faceva davvero male, sentivo di diventare sempre più debole
e la
vista di un feroce predatore non mi aiutava.
Un
tonfo richiamò la mia attenzione, un grosso arbusto si
staccò dalle sue radici, e da sotto una lupa dall'aspetto
mal
concio e i denti macchiati di sangue, si scagliò con
disperazione contro il leone. La situazione mi era ormai chiara. Il
leone stava difendendo il suo territorio e attendeva il suo nemico
pronto a combattere, mentre la lupa affamata cercava qualcosa da
mangiare e si spinse troppo nel territorio del leone stesso. La
battaglia tra le due belve fù inevitabile. Le due bestie che
avevano dimensioni ben più grandi di quelle a cui noi umani
siamo abituati, si scontrarono a suon di graffi e morsi, attimi di
tregua utili a studiare l'avversario, e con movimenti ben coordinati si
attaccavano. Il suolo sotto di loro soffriva le numerose cadute che
capitavano ad entrambe le belve. Nel mezzo di quella lotta
sanguinolenta il leone, molto più possente della lupa,
l'afferrò per il collo con i suoi denti e la
gettò vicino
al masso dov'ero nascosto. Le due bestie erano talmente concentrate a
battersi tra di loro che non fiutarono la mia presenza. Dovevo mettermi
in salvo o lo scontro avrebbe coinvolto anche me con un finale tragico.
L'unica mia salvezza sarebbe stata quella di tornare
nell'oscurità della
selva e allontanarmi il più possibile. Così feci
dopo che
lo scontro portò le due belve ad allontanarsi un
pò,
accucciato e in silenzio sgattaiolai dal mio nascondiglio di nuovo
nella foresta, sperando che le due bestie non mi notassero.
Ero
disperato, spaventato, la mia speranza di ritrovare la strada di casa
si riduceva a vista d'occhio e come se non bastasse perdevo sangue. Mi
inginocchiai e cascai per terra, ancora. Cominciai a pensare,
perchè mi trovavo lì, dov'ero, avrei rivisto
ancora i
miei cari, i miei amici? Cominciai a crogiolarmi nel mio dolore e
chiusi
gli occhi sperando che tutto ciò fosse solo un brutto incubo.
Un
rumore metallico stuzzicò le mie orecchie, alzai la testa
lentamente e guardai di fronte a me. C'era una luce, non una luce
solare ma qualcosa di più mistico che in qualche modo
provocava
quel rumore. La luce si faceva sempre più viva tanto da
dovermi
coprire gli occhi ancora abituati al buio, e una figura prese forma al
centro del raggio. Una figura umana. Neanche quella vista mi
tranquillizzò dopo quello che avevo passato, ma mi alzai,
sempre
tenendomi il braccio dolorante, e mi preparai a ricevere quell'uomo che
pareva
camminare nella luce. Prima che potessi scoprire l'anatomia del suo
viso, lui Parlò "sono sorpreso, ma avrei dovuto
aspettarmelo,
tante cose sono cambiate, persino questa selva è diventata
più faticosa". Mentre farneticava la luce si riduceva e
riuscì a vederla, la sua faccia, una fisionomia non nuova ai
miei occhi ma che non riuscivo a ricollegare a nessuno che conoscessi
di persona. "Chi sei?" gli chiesi, "sono colui che venne prima, colui
che descrisse agli uomini le terre dopo il trapasso, colui che da vivo
vide la dannazione, la redenzione e la beatificazione, guidato dal
massimo poeta corressi il mio destino ma non quello del mondo.
Fallimentare fù il mio tentativo al cospetto della
volontà divina, ma colui che mi chiamò non si
arrese come
il sottoscritto, cercò il suo secondo tentativo, e lo
trovò. Ora giaci segnato al mio cospetto, ma non temere,
sono
qui per darti le risposte che cerchi" mi spiegò. Io
frastornato
gli chiesi ancora "perchè mi trovo qui? Cos'è
questo
posto?" e lui "tu conosci già la risposta ma non ne hai
scorto
il motivo, tu sai chi sono, ma non lo realizzi, tu hai appreso la via,
ma hai paura. Le risposte che cerchi sono nella tua tasca". Mi guardai
attorno ancora una volta, e poi mi toccai la
tasca destra, era piena. Ne tirai fuori il contenuto, e
scoprì una rosa di
spine, i petali emanavano una luce rossastra e le spine piangevano
gocce di sangue, come il veleno dal pungiglione di uno scorpione.
Improvvisamente tutto mi fù più chiaro. "Non sei
un folle
e non lo sei mai stato, ma sei stato ingannato. Tuttavia, la tua poca
fede non ti ha precluso dall'essere prescelto, l'inganno ai tuoi danni
è stato congeniato proprio per la tua sincera
umanità e
sensibilità" mi disse con tono da maestro, ed io replicai
"non ho
mai voluto che succedesse, ma non ho avuto scelta, la sofferenza era
tanta!" e lui mi rispose "sarà ancor di più se
non farai
niente per liberarti dall'oscurità".
Riconobbi
l'uomo che mi parlava, era Dante Alighieri, e il destino e le mie
azioni in qualche modo, mi portarono dove lui mosse i suoi primi passi
verso la sua celebre impresa, la selva oscura. Lui era molto
più
alto di me e i suoi vestiti erano proprio come tutti i dipinti lo
ricordano. In qualche modo le sue parole enigmatiche mi portarono a
cogliere il significato di tutto quello che mi era accaduto. La rosa
che portavo nella mia tasca ne era una prova, e osservandola, tutto mi
tornò nella mente come un lampo di luce negli occhi. Mi ero
liberato del sentimento più forte che un uomo possa provare,
l'amore, e lo avevo riversato in forma di sangue in quella rosa,
l'unico oggetto che tenevo
in mano quando successe. "E' stato per colpa di una ragazza, soffrivo
troppo per lei" dissi io, e prima che potessi continuare il sommo mi
interruppe e disse, "non una ragazza ha mai avuto tale potere,
poichè solo un essere può nutrirsi di tanta
sofferenza e
non rigurgitarla. Ciò che ti ha fatto perdere la strada
è
stato un artifizio diabolico, una creatura infernale, un demone del re
dei dannati, che ha preso sembianze umane servendosi di una ragazza e
ha corrotto i tuoi sentimenti". La ragazza di cui raccontava Dante e
che io prima di lui citai,
riuscì ad aprirmi il cuore con la sua dolcezza e con la sua
bellezza. La sua chioma rosso splendente era sintomo del potere che
risedeva nella sua anima e pian piano, cominciò a nutrirsi
del
mio amore e della mia energia positiva. Il nome della ragazza era
Giorgia. "Aprire il cuore per buttarci
dentro il veleno!" esclamò il poeta. L'artifizio di cui
parlava
Dante una volta compiuto il suo volere, abbandonò il suo
ospite
inacidendo il suo animo, e il suo aspetto. "Ora nella città
dannata pieno di potere risiede, con tutto ciò che di buono
ti
apparteneva" Disse il sommo rivolgendosi al demone, e
continuò
"così come il mondo che ha perso i suoi martiri vanamente e
ora
risiedono tra i dannati sperando che l'umanità risponda ai
loro
insegnamenti, per rovesciare il giudizio divino" e io gli chiesi "cosa
devo fare sommo?", e lui mi rispose posandomi la mano sulla spalla
"devi prima
salvare te stesso. L'inganno diabolico ti ha oscurato l'anima ma
finchè terrai la rosa con te, avrai speranza". Il sommo mi
spiegò che nella rosa c'era il mio amore caricato di energia
negativa, un sentimento molto forte che può causare
sofferenza a
chi lo prova, ma che in qualche modo spaventa le creature
più
ripugnanti. "Se quella rosa dovesse finire nelle luride mani del
demone, o del suo creatore in persona, per te non ci sarebbe
più
nulla da fare, continuerai a vivere dimenticando l'amore, e un'altra
divina impresa fallirà" mi spiegò il sommo, "come
posso
rimediare?" gli chiesi scoraggiato e lui fece un sospiro e
cominciò "ancora una volta sentirò i loro
lamenti, ancora
una volta dovrò assaporare la paura della dannazione, ancora
una
volta sarò al cospetto delle atrocità di cui si
serve la
giustizia divina, ancora una volta dovrò guardare negli
occhi
l'oscurità incarnata in un essere maledetto e dannato dalla
mano
di Dio in persona, ma che non smette ancor di portare terrore. Ti
aiuterò ragazzo, e ti guiderò nella
città dolente,
ti traccerò la strada nelle viscere dell'inferno,
perchè
tu possa vedere e toccar con mano la giustizia divina, e quanto questa
possa essere spietata ma giusta! Ti mostrerò i nove cerchi
della
dannazione, inversamente proporzionali tra grandezza e
gravità
dei peccati, arriveremo nel cerchio più basso e costringerai
Lucifero a mostrare il suo demone, così che tu possa mettere
fine ai suoi respiri e riprenderti ciò che è
tuo!". Io
fui per un attimo spaventato e affascinato, ma l'impresa pareva assai
ardua, e come la nascita di un campo di grano in una ripresa ad alta
velocità, così le domande mi sovrastarono la
mente;
"sommo, come farò a convincere Lucifero a mostrare il suo
demone? Come ucciderò il demone?" e lui che
cominciò a
mostrarmi la direzione, si voltò ancora verso di me e mi
disse
con aria speranzosa "Te lo mostrerò", e poi dalla sua veste
estraette un libro il quale mi porse con genitilezza, e
continuò
a dire, "Questo è il tuo diario, nel quale racconterai la
tua
impresa, e se vorrai potrai scriverci le tue memorie di vita passata".
Fui lusingato del dono che il poeta mi avanzò,
poichè
quel diario simboleggiava l'esortazione del sommo nei miei confronti, a
raccontare di un'altra divina impresa, come lui stesso fece a suo
tempo. Quasi non mi sentivo degno di questa sorta di staffetta passata
proprio tra le mie mani, e mi domandavo se anche Dante prima di me,
avesse provato gli stessi sentimenti, la stessa sensazione di non
essere pronto per un'avventura simile, non per paura, ma per
rispetto a chi ancora in vita merita tale onore. Il fardello del
destino dell'umanità, o ciò che di buono era
rimasto, ora
era nelle mie mani.
Io ero fermo ad ammirare il diario donatomi che aveva la copertina di
pelle nera, fino a quando Dante attirò la mia attenzione
dicendomi "avanza ragazzo, la strada è lunga!".
Dante mosse i suoi passi nella direzione opposta alla
collina dove vi trovai le bestie, ed io diedi uno sguardo indietro
un'altra volta,
come a voler vedere la luce del sole prima di scendere
nell'oscurità, poi seguì il sommo.
Mi
affiancai a lui sempre tenendomi il braccio ferito. Dante si
fermò, mi strappò la manica destra della felpa e
me
l'avvolse attorno alla ferita per cercare di fermare il sangue, e disse
"la mia guida arrivò prima a prendermi, fui più
fortunato" io lo guardai grato e lui continuò "dovrai
guarirla
se dovrai brandire una spada".
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