Heart burst into fire_Episode 19
Titolo: L'imprevisto
porta un nome
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 2334 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric, Jason Mustang
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
ai, What if?
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
[ STORIA FUORI SERIE ]
EPISODIO
19: L’
IMPREVISTO
PORTA UN NOME
Ci
trovavamo sul divano del soggiorno,
ormai divenuto il nostro tacito
osservatore in serate
come quella, quando sfruttavamo lui anziché il morbido
materasso.
Da meno di poche
ore, eravamo tornati dal gelido
Quartier Generale del Nord, dove molti di noi avevano dovuto compiere,
sotto
diretto ordine del Comandante Supremo, una specie di giro d'ispezione
che era
durato una settimana. Una settimana passata in balia della
neve, tutti stipati in una grande
stanza
con brandine dove non avevo nemmeno potuto godere di un po'
di intimità con
Edward, che aveva dormito al lato opposto della stanza da dove mi ero
ritrovato
io. Fortuna almeno che, in quel momento, potevamo permetterci
qualche minuto di
svago dopo una cena consumata al volo, godendomi frattanto il mio dolce
tranquillamente disteso sul divano.
In quel silenzio
rotto solo dai mugolii
d'assenso che sia io, che lui, ci lasciavamo sfuggire, le mani e le
labbra si
muovevano e si cercavano da sole, seguendo il ritmo di quella passione
che
andava crescendo man mano. Giusto un attimo dopo, fui
sul punto di ansimare nel sentire la
sua mano
fra le mie gambe, al di sopra della stoffa dei pantaloni. L’allontanò
subito, chinandosi verso di me per
darmi un bacio sulle labbra, girandosi di schiena
per
sdraiarsi su di me,
con i suoi lunghi capelli che mi solleticavano il petto nudo.
Non
fiatai e cominciai a lisciargli quella chioma bionda, alzando le
gambe per
poggiare i piedi sul divano, in modo che lui potesse meglio stendersi
fra di
esse. Un contatto piacevole, senza dubbio,
dopo l’astinenza che
avevo dovuto - anzi,
avevamo entrambi dovuto - sopportare in quella settimana
bianca. Con la coda dell'occhio, vidi Edward
giocherellare con i miei
occhiali da vista che, fortunatamente, non erano rimasti coinvolti
nella
nostra lotta
di supremazia avvenuta sul divano pochi minuti prima,
rigirandoseli fra le
mani e rimirandoli distrattamente, come per voler perder tempo.
Mi scappò una risata e,
togliendoglieli dalle
mani, gli presi un dito d'acciaio per baciarglielo con devozione, accarezzandolo con la punta della
lingua, allusivo e
sensuale,
nonostante fosse freddo; gli cinsi i fianchi con le braccia
qualche attimo dopo, così da poterlo attirare
verso di me. «Che ne diresti se
sfruttassimo un po’ di questo
tempo da soli, ora che
possiamo?» gli chiesi,
sperando in una sua
risposta affermativa. Dato che Jason era uscito, magari
avremmo potuto godere di qualche
carezza
negata.
Edward fece scorrere il suo sguardo dorato per tutto il mio corpo,
soppesando il mio petto prima di scendere interessato
verso il basso
ventre, ritornando a guardare i miei occhi. L’ombra di un sorriso gli
illuminò il volto, mentre si chinava verso di
me per gettarmi le braccia al collo. «Och, beh... è
da tanto che non lo
facciamo», sghignazzò, stuzzicandomi appena il
lobo dell’orecchio. «Direi che si può
benissimo fare... ma ad una condizione»,
soggiunse, sciogliendo la presa delle sue braccia e costringendomi a
fare lo
stesso con le mie.
«E quale sarebbe la condizione?» chiesi, vedendo
che non accennava ancora a
porla, ma si limitava solo a catturarsi fra le dita la mia frangetta,
quasi
distratto. Abbandonato il suo passatempo mi
sorrise, ammiccando malizioso.
«Beh, sai...» mormorò, prendendomi le
mani per farmele poggiare sulle sue
spalle, come se volesse che gli sfilassi la camicia. «Stavo
giusto pensando di comandare io anche stavolta».
Sbattei le
palpebre, perplesso. Erano rare le occasioni in cui voleva
essere la parte
attiva del
nostro rapporto, o almeno per quanto ricordassi. Senza sapere cosa dire, provai ad
aprire la bocca ma, prima ancora che
potessi,
mi posò un dito sulle labbra con un sorriso bastardo,
imponendomi silenzio.
«Non accetto un no»,
continuò
divertito, scostandosi i capelli dal viso.
«Non lo facciamo da tanto e, adesso che Jaz è
fuori, voglio giocare un
po’ con te». Ancora più perplesso, fui
quasi tentato di alzarmi e lasciar
perdere, ma qualcos’altro sembrò
non
avere lo stesso parere quando Edward vi
poggiò sopra una mano. «Lo considero un
sì?»
sghignazzò al mio orecchio quando si chinò,
scendendo
poi piano con le labbra per saggiare la pelle della mia gola. Me la stuzzicò con i
denti, catturandone delicato i lembi, e a quel trattamento non potei evitare
di lasciarmi sfuggire un gemito
languido. L’esperienza si acquisiva
davvero con gli anni, non
c’era nulla da fare. «Non hai nulla da dire, mammina?»
mi prese in giro, rendendo la voce
ancor più bassa e suadente.
In
risposta al suo quesito, mugolai ancora una volta. La sua risata vibrò come
un diapason contro la mia carne, il
suo corpo si
strusciò lentamente contro il mio quando scese per lambire
la pelle del mio
petto, accarezzando con la lingua una delle tante, bianche e piccole,
cicatrici
di guerra. Una sua mano
scivolò lungo il mio fianco e carezzò anche
quella causata da un proiettile un po' di
anni prima, sfiorando
di sfuggita una coscia quando scese ancora.
Seppur
sentissi offeso il mio ruolo di dominante,
non volevo che
smettesse. Era eccitante, sentire tutta
quell’esperienza sprizzare in
quel corpo ancora un
tantino minuto nonostante gli anni passati. Mi sfuggì un altro gemito
e incassai la testa nelle spalle,
voltandola un po’
di lato. Così facendo,
però, gli diedi ancor di
più libero arbitrio. Con piccoli colpetti decisi della
lingua, mi accarezzò la
mascella, poi dietro
l’orecchio.
«Sei troppo accondiscendente, stasera», lo sentii
sghignazzare ironico,
mentre poggiava le mani sulle mie spalle, come se volesse tenermi
fermo, sotto
di lui.
Chiusi
gli occhi e poi li riaprii, perdendomi in quel color whisky che
amavo. «Preferiresti che facessi
resistenza?» domandai
sarcastico,
regalandogli un sorriso.
Rise
nuovamente, scuotendo piano la testa, lasciando che i capelli si
muovessero fluenti. «Renderebbe tutto molto
più eccitante, non lo
nego», replicò, sfiorandomi la
punta del naso con il suo. «Ma sarebbe infruttuoso per me,
dato che posso
averti facilmente e senza sforzo...»
«Sei troppo sicuro di te», ribattei, senza riuscire
a nascondere un sorriso.
«Posso permettermelo, in fondo».
Frustrato, richiusi gli occhi con forza, passandomi poi velocemente una
mano
fra i capelli. «Zitto e muoviti, non posso
aspettare ancora»,
evitai di esclamare, vedendo
un sorriso quando riaprii gli occhi.
«Quanto
siamo impazienti», ridacchiò,
appropriandosi delle mie labbra.
Unito
in quel bacio, mi limitai solo ad annuire. Lasciai a lui il completo comando del
gioco,
godendo di ogni minima
attenzione che quel giorno sembrava donarmi. Mugolai di nuovo quando mi
creò un succhiotto, proprio dove
chiunque avrebbe
potuto vederlo anche se indossavo
la divisa. Ridacchiò contro la mia
pelle e, inconsciamente, lo attirai
maggiormente a me, intensificando il contatto fra i nostri corpi nudi a
metà; gli feci scorrere le mani lungo la
spina dorsale e le fermai a
coppa sulle
sue natiche, sentendo il suo volto affondato nell’incavo del
mio collo.
Le sue
mani scesero lungo i miei fianchi, posandosi stabili sul mio
bacino,
mentre le labbra cercavano bramose le mie nel tentativo di far durare
quegli
attimi per un tempo indefinito. Ma, anche lui per impazienza, non
resistette un minuto di
più, liberandosi dei
pantaloni e restando in mutande, a cavalcioni sopra di me, ancora quasi
vestito. Si arrischiò a lanciarmi
uno sguardo divertito, forse per
valutare la mia
espressione. «Oh... qui qualcuno
si è svegliato»,
scherzò, soffermandosi
su un punto ben preciso.
Non
potei non sorridere, portandogli le
mani
alla mia cintola. Volevo i fatti, in quel momento, non
le parole. E non ero il solo, da quel che
riuscivo a scorgere.
Con un
sorriso impudente dipinto a sua volta sulle labbra,
cominciò ad
abbassare piano la zip, guardandomi ancora una volta per
sporgersi verso di me e
baciarmi a lungo. Stava cominciando a sfilarmi i
calzoni quando sentimmo un rumore. Lui mi guardò, sbattendo
perplesso le palpebre senza capire
cosa fosse stato. O, almeno, finché non lo
capimmo entrambi.
«‘Ka-san, ho dimentica-
oh...» Jason, appena entrato nel salotto, ci
guardava allibito e accigliato,
gli occhi
azzurri increduli e fissi sulla scena che gli stavamo offrendo. Aveva le guance completamente
imporporate di rosso, mentre immobile ci
fissava. Anche Edward e io ci irrigidimmo,
deglutendo
all’unisono. Lui era ancora cavalcioni sopra di me,
io avevo i calzoni calati sulle
cosce
e... beh... meglio sorvolare sul resto.
Jason
avvampò ancora più violentemente, riuscendo
finalmente a darci le spalle. «Non volevo interrompere
nulla e non ho visto
nulla!» esclamò un tantino
isterico, una mano poggiata sullo stipite della porta mentre
l’altra l’agitava
frenetica in aria. Edward si allontanò più
veloce che poté e recuperò i calzoni,
infilandoseli svelto prima di darmi un pugno sulla spalla, alzarsi la
zip alla svelta e avvicinarsi a Jason; proprio lui,
scorgendolo con la coda
dell’occhio, si grattò dietro al collo. «Ero... ero tornato per
prendere il portafoglio»,
gli disse, ancora un
tantino a disagio.
Edward
mi lanciò uno sguardo d’avvertimento, e capii
subito al volo cosa
voleva dirmi. Alza le
chiappe e rivestiti,
semplice da capire. Massaggiandomi il
punto colpito mi drizzai a
sedere, avendo l’accortezza di alzarmi a mia volta i
pantaloni per nascondere i
boxer.
«Se penso che stava per salire anche un mio compagno
di camerata...»
riprese Jaz, avvampando nuovamente quando si voltò verso di
me
per osservare
l’espressione che mi si era dipinta in volto. A dir poco sconvolta, bisognava
aggiungere. Un conto era che lui, che aveva
vissuto tanto con noi e conosceva il
rapporto
che ci legava, ci avesse beccati a fare cose non tanto caste e pure in
salotto
quando piombava all'improvviso in casa con il suo migliore amico... un altro, invece,
era che avevamo rischiato
che ci vedesse un estraneo.
«Beh, stavolta è colpa mia»,
replicò tranquillamente Edward, dando vita ad una
delle sue solite scrollate di spalle che potevano significare tutto o
niente,
dando poi una pacca sulla schiena a Jaz utilizzando piano la sua mano
d’acciaio.
«Faccio a meno dei dettagli», ribatté
lui, facendo un piccolo colpetto di
tosse. Forse per disperdere
l’imbarazzo che ancora gli colorava le
guance.
Chiusa la patta, mi sistemai il colletto
della camicia ancora
sbottonata. «E non te li avremmo
nemmeno dati», feci,
guadagnandoci un’occhiataccia da
entrambi. Jason alzò lo sguardo al
soffitto senza dire niente, come se
ribattere sarebbe
stato praticamente inutile e infruttuoso, e agitò pacatamente entrambe
le mani, facendo qualche passo
verso il disimpegno. Ma, prima che potesse dileguarsi, lo
richiamai. «Le chiavi», feci
schietto, e i suoi
occhi azzurri si soffermarono sul mio
volto.
Aggrottò la fronte, portandosi sospettoso una mano
sulla
tasca dei
pantaloni.
«Perché?» La sua non suonò
come una domanda, bensì come
un’affermazione vagamente accusatoria.
Incrociai le
braccia al petto, cercando di
essere il più saccente possibile. «Non voglio rischiare che
piombi in casa
in momenti inopportuni»,
replicai, piegando il palmo verso di lui in modo che mi consegnasse le
chiavi.
«Ormai per te e il tuo amichetto Cedric è
diventata quasi una routine romperci
le uova nel paniere».
«Ma se è successo solo una volta»,
ribatté pacato, atteggiando il volto ad
un’espressione che la diceva abbastanza lunga. «E
stavolta Ced non c'entra nulla».
Avremmo
sicuramente cominciato a polemizzare, se Edward non avesse
fermato
entrambi, sbuffando sonoramente. Sapeva troppo bene, in effetti,
quanto diventavamo testardi e cocciuti
quando
cominciavamo a sproloquiare in questioni assolutamente futili. «Se cominciate ancora una
volta con i vostri battibecchi,
sapete quali sono le punizioni»,
sbottò, incrociando le braccia al petto.
Alzammo
le mani sulla difensiva, prima che puntassi nuovamente
il mio
sguardo su Jason. «Coraggio, consegnami le
chiavi», ripetei
imperativo.
Seppur
tentennasse ancora, dopo aver lanciato un’occhiata al
volto di Edward,
Jason sbuffò, infilandosi svogliato le mani in tasca; ne tirò fuori il suo mazzo
di chiavi e si avvicinò a me per
lasciarlo cadere
non curante nel mio palmo aperto, seguendole con lo sguardo quando le
chiusi in
un cassetto accanto al divano. «Tanto appena abbassi la
guardia me le riprendo»,
mi disse con fare
minaccioso, impuntandosi capricciosamente.
Lo
guardai con un sorriso vagamente bastardo, grattandomi non curante
il collo. «E tu credi davvero che le
lascerò lì?»
domandai, muovendo cadenzato la mano
destra.
Jaz
borbottò fra se e se qualcosa, forse scimmiottandomi
perché di sfuggita sentii
un “lascerò”. Mi guardò con quei suoi
occhi d’un azzurro
iridescente, con quel pizzico di
sfida che non glieli abbandonava mai. «A
costo di ispezionare l’intera casa, le
ritroverò», ripeté, annuendo a se
stesso. «O al limite scassinerò la
serratura». Detto ciò, si
risistemò la frangetta scura sulla fronte,
ancor più saccente
di me. Quando si dileguò nel
corridoio e tornare subito dopo
con il portafoglio
fra le mani, ci salutò velocemente e si fiondò
all’ingresso, richiudendosi la
porta alle spalle con un sonoro tonfo.
Guardai
Edward che ridacchiava, ancora in piedi nel bel mezzo del
salotto. Mi lanciò
un’occhiata, con un sorriso sornione
dipinto sulle labbra; si riavvicinò prima di
lanciarsi divertito
su di me,
facendomi ricadere all’indietro sul materasso. Un tantino confuso,
l’osservai sbattendo le palpebre,
vedendolo allargare il
sorriso. «Abbiamo un piccolo conticino
in sospeso,
mi sembra», mormorò, cominciando a far vagare due
dita della destra sul
mio
collo scoperto.
Trassi
un lungo sospiro, ormai trepidante. Adesso che Jason si era dileguato
nuovamente, non volevo essere
ulteriormente
disturbato. Così gli sorrisi a mia
volta, scostandomi di poco la
camicia, come se volessi
invitarlo. «Sono pronto a pagare il debito»,
replicai malizioso, vedendo entrambe
le sue bionde sopracciglia sollevate in
un’espressione maniacale.
Ci
mettemmo poco a ritrovare l’intimità iniziale
che avevamo perduto. Il gioco riprese normalmente, mentre
ormai non aspettavamo altro che
portarlo
una volta per tutte a compimento. Entrambi solo in intimo, non ci
curammo nemmeno del flebile gelo
che si
espandeva di tanto in tanto dalle fessure delle finestre, ma poi, quando giungemmo
al punto cruciale, a rompere
l’atmosfera fu il prolungato suono
del campanello e poi la cara e vivace voce di nostro
figlio. «‘To-san!
Stavolta ho
dimenticato le chiavi della macchina!»
Era
vero: l’imprevisto
porta un nome... Jason Mustang!
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Farai
felice
milioni di scrittori.
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