1
Arrivo inaspettato
Sapete che vuol dire
stare in
silenzio, con gli occhi chiusi, sentendo il proprio corpo, il battito
del
proprio cuore e il proprio respiro, magari nell’ombra di una
stanzetta
illuminata solo da una piccola finestra, nella solitudine? Ecco, lei
era così.
Era sdraiata sul suo
letto, in
silenzio; lei, il suo corpo e la sua musica. La sua mente viaggiava,
pensando a
mille cose diverse, da quelle più belle della sua vita non
proprio uno
spettacolo a quelle peggiori. Passava da un argomento
all’altro, senza un senso
apparentemente logico, ma con una spensieratezza assoluta. Contenta di
quello
che stava facendo: il niente. A volte le piaceva fare nulla, si
rilassava molto
e stava lontana da tutto il resto, isolandosi dal mondo.
Il suo corpo, fermo
immobile, si
rilassava, i muscoli riposavano, mentre la sua mente lavorava senza
sosta.
Milioni di omini lì dentro si davano da fare per soddisfare
un cervello
difficile come quello.
La musica, la musica era
quella
che le piaceva, le piaceva e la faceva stare bene con sé
stessa, era la sua
medicina quando le cose andavano di merda, era tutto ciò che
le serviva per
sopravvivere in un mondo ingiusto come quello, dove le guerre
incombevano, l’ecologia
non era un granché e le discriminazioni raziali erano ormai
sul quotidiano. Lei
andava avanti, ma come pochi si caricava sulle sue spalle tutti i
problemi del
mondo, e soffriva perché non poteva farci niente. Era
insofferente verso
l’intera umanità, perciò la maggior
parte delle volte cercava l’isolamento
totale. Meglio soli che mal accompagnati.
***
Uffa… Che pizza…
Pensò un
ragazzino sull’età dei
tredici anni, entrato in quella casa, assieme al gemello e alla madre,
scortati
da una donna, circa dell’età di
quest’ultima.
“Ciao Simone!
Che bello
rivederti!”, aveva accolto la mamma dei gemelli.
“Ciao, anche
per me! Come stai?”
Le due donne erano nel
salotto,
che si scambiavano i convenevoli, dopo due baci sulle guance, con
dietro i
gemelli che si guardavano e si parlavano solo con gli occhi.
Ma chi ce l’ha fatto fare?
Beh, sicuramente meglio di stare dai nonni!
Il gemello biondo
rabbrividì al
pensiero delle ramanzine della nonna e a tutti quei pizzicotti sulle
guance.
“Sto bene,
grazie. Tu, tutto a
posto, ti trovo benissimo.”
“Grazie.”
Simone si
girò verso i figli con
un sorriso e li abbracciò per le spalle, mettendoseli ai
fianchi.
“Ragazzi, vi
ricordate di lei?
No, eravate piccoli…”
“Sì,
veramente degli scriccioli!
Guardatevi adesso! Come siete cresciuti!” Passò le
mani sulle testa ad
entrambi, sorridendo.
No! Merda! I capelli no!,
pensò il gemello dai capelli corti e
mori, accuratamente in piedi sulla testa.
Quella mattina ci era
voluto un
sacco di tempo perché i capelli rimanessero in quello stato,
e ora tutto il suo
lavoro era sfumato in un secondo. Tutto per colpa di un’amica
di sua madre, che
non sapeva nemmeno chi fosse di per sé e quale ruolo avesse
avuto nella loro
infanzia, sapeva solo che sarebbero stati ospiti, lui e il fratello, a
casa sua
per una settimana perché loro madre doveva andare via per
lavoro.
Avrebbero tanto voluto
restare a
casa da soli, ma Simone glielo aveva vietato assolutamente, facendo una
scenata
di quelle che si fanno una volta nella vita: “Voi non rimarrete mai a casa da soli per
un’intera settimana! Almeno
fin quando non sarete maggiorenni e liberi di uscire da queste mura!”
Ma almeno erano in
città: loro
abitavano in campagna, e odiavano la campagna. Adesso che erano in
città, anche
se per solo una settimana, non potevano lamentarsi più di
tanto. Era l’unica
consolazione.
E adesso si ritrovavano
lì, con
valige al seguito, uno in una situazione piuttosto imbarazzante.
Cercò
inutilmente di tirarsi su i
capelli, facendo un’espressione buffa con il viso, mezza
lingua fuori dalla
bocca, come se stesse facendo un’opera d’arte. Il
gemello, vedendo la scena e la faccia del
fratello, se la sghignazzava alle sue spalle.
***
Lei aveva una visione un
po’
pessimista della vita, una concezione di essa del tutto differente
rispetto ai
ragazzi della sua età. Poteva restare giorni e giorni in
quel silenzio, in
quella sua pace interiore, senza mai uscire di casa, a pensare al senso
della
vita, perché l’umanità la disgustava in
quel modo. Forse la colpa per la sua
mentalità differente era dovuta al modo in cui era
cresciuta, troppo in fretta,
non capendo mai che voleva dire amare la vita.
Ma anche un cervello
così evoluto
aveva bisogno di energie e, in effetti, aveva un certo languorino.
Si alzò dal
letto e si infilò i
pantaloncini e una maglietta forse troppo lunga e larga per il suo
fisico
snello, per questo la usava solo in casa.
Appena uscita dalla sua
camera
sentì delle voci differenti da quella di sua madre.
Avvicinandosi al salotto,
le sentì meglio, e ce ne fu una in particolare che la
paralizzò del tutto. Non
ne sapeva il motivo, ma era così.
Si scosse, riprendendo
il
controllo del suo corpo, e decise di guardare in sala, anche se aveva
uno
strano nodo in gola e i brividi. Appena varcò la soglia del
soggiorno, si
paralizzò di nuovo, vedendo una donna, bella, alta, dai
capelli ricci, che
parlava accanto alla madre.
Non sapeva chi fosse, ma
quella
donna fece scattare qualcosa nella sua mente, come un ricordo lontano,
sfuocato, in bianco nero, proprio come i vecchi film.
Era la festa del suo
compleanno,
compiva tre anni. Vide il viso giovane di una bella donna, sorridente,
con in
braccio due bambini appena nati, identici. Vide sua madre al suo
fianco, che la
stringeva da dietro, con le braccia intorno al collo, mentre un suo
ditino era
nella manina di uno dei piccoli. Improvvisamente notte, le urla dei
suoi,
ancora una volta a litigare, lei che si copriva le orecchie.
“Ehi, mamma!
Non ci avevi detto
che la tua amica aveva una figlia!”, disse il gemello biondo,
nella realtà,
prendendo la manica della madre.
“Finalmente!
Eccoti! Dove ti eri
cacciata?!”, chiese l’altra donna, la madre della
ragazza, mettendosi le mani
sui fianchi.
Ma lei non la
sentì neppure,
guardava Simone, completamente impietrita sui suoi passi. Simone, dal
canto
suo, guardava lei, con le lacrime agli occhi.
Il ragazzino moro si
sentì
stringere il polso: era la madre che lo teneva, come se volesse sentire
qualcuno, per non sentirsi sola. Le due si guardarono ancora un
po’, in
silenzio, la ragazza, sedici anni appena compiuti, era quasi a bocca
aperta, da
quanto l’aveva sorpresa quella sua reazione
tutt’altro che volontaria.
“Eva…”,
mormorò Simone, sull’orlo
del pianto, mollando il polso del figlio minore e andando ad
abbracciare la
ragazza, quasi di corsa.
Eva, era quello il nome
della sedicenne,
presa alla sprovvista, rimase con le braccia aperte, non capendo
ciò che la
donna voleva dirle con quell’abbraccio. Quelle braccia che la
stringevano
forte, le conosceva nel suo inconscio, ma non ricordava. Non ricordava
nient’altro oltre a quello che aveva rivissuto nella sua
mente come un
flashback.
Improvvisamente
l’istinto di
abbracciare Simone, stringerla, sentire quel profumo dolce che le aveva
ricordato casa. Eva si lasciò andare alla salda stretta
della donna e ricambiò,
mettendogli le braccia intorno al collo.
I gemelli si guardarono:
non
capivano. Chi era quella ragazza? Perché loro madre sembrava
aver ritrovato una
figlia perduta? Ma soprattutto, perché quella ragazza
sconosciuta abbracciava
loro madre? E in quel modo… come se fosse sul serio sua
mamma.
Ora, ora che Simone la
stringeva,
ora che Eva stringeva Simone, Eva era riuscita a ricordare. Aveva
sbirciato
anche il viso di sua madre, sorrideva e un velo di lacrime luccicava
nei suoi
occhi scuri. Non la vedeva sorridere da quando Simone, la sua migliore
amica,
era uscita dalla loro vita, anzi, da quando loro erano uscite dalla
vita di
Simone, trasferendosi in Inghilterra, per ben tredici anni. Ora erano
tornate,
di nuovo in Germania, di nuovo da Simone, che, a quanto sembrava, non
le aveva
per niente dimenticate. Anzi, sembrava aver sofferto molto la loro
mancanza in
questi anni.
Simone si
staccò dall’abbraccio e
le prese le spalle, cercando di non piangere, di trattenere le lacrime.
Anche
Eva aveva quell’istinto di piangere tra le sue braccia, ma
non poteva lasciarsi
andare, non avrebbe offeso il suo orgoglio per questo. Non piangeva
mai, perché
avrebbe dovuto farlo in quel momento? Appunto, non lo avrebbe fatto.
Così si
era imposta.
La donna le
accarezzò i capelli,
con l’affetto di una mamma, quell’affetto naturale
che Eva non aveva mai
ricevuto dalla sua di mamma, tutto per colpa di suo padre. Tutto per
colpa sua.
Forse anche un po’ da quello derivava la sua insofferenza
verso il genere
umano. In quegli istanti, in quella dolcezza, pensò che ne
valeva la pena di
vivere solo per le persone come Simone, solo per quelle.
Appoggiò una
ciocca dei suoi
capelli lunghi, lisci e biondo scuro sulla sua spalla, sorridendo con
amarezza,
poi il suo sguardo si posò negli occhi di Eva, impietrita,
completamente
immobile davanti a lei.
“Eva, lei
è Simone, ti ricordi di
lei?”, le chiese dolcemente la madre.
Eva non ebbe la forza di
rispondere. Simone non ci badò troppo e le prese la mano, la
avvicinò ai
gemelli.
“Eva, loro
sono Bill…”
Bill, il gemello moro,
con i
capelli (una volta) in piedi, trucco nero sugli occhi e un piercing sul
sopraciglio,
le porse la mano esibendo un sorriso tipico da bambini.
“Ciao”,
disse timidamente, mentre
la ragazza gliela stringeva.
Ora era più
che sicura che i bambini
che aveva in braccio la versione giovane di Simone, nel suo ricordo,
erano
loro. Due minuscoli bimbi identici, che ora lo erano un po’
meno. L’altro
ragazzino, accanto al moro, stese la mano ancora prima che la madre
facesse il
suo nome.
“Tom,
piacere”, la prevenì lui,
sorridendo.
Era apparentemente
diverso dal
gemello, aveva i capelli biondi, al contrario del fratello che li aveva
neri, e
portava i dreads. Inoltre si vestiva stile hip hop, maglia e pantaloni
larghi, non
come l’altro, che portava una maglietta attillata nera e dei
jeans altrettanto
stretti.
Eva fece un mezzo
sorriso e alzò
un sopracciglio, stringendogli la mano.
Fai l’indipendente, ragazzino?
Avevano entrambi la
faccia da
ribelli, ma Bill conquistò subito la sua simpatia: sapeva
riconoscere ad occhio
le persone con le quali poteva avere speranze di comunicazione, ed
erano poche.
Bill era una delle poche
persone
con cui si sentiva in dovere di comunicare espressamente le sue idee,
lui
sarebbe rimasto ad ascoltarla, ne era certa, e quindi non avrebbe
sprecato
fiato inutilmente. In più, Bill aveva qualcosa nel suo
sguardo, qualcosa di
irresistibile, quel misto tra innocenza e mistero. E per concludere era
quello
tra i due che si vestiva più simile a lei, colori scuri e
accessori stravaganti.
“Scommetto che
vi divertirete
assieme”, disse la mamma di Eva, sorridendo ai ragazzi.
Che vuol dire che ci divertiremo?,
si chiese Eva.
Ecco che notò
le valigie dei
gemelli all’entrata, solo allora l’illuminazione.
Questa… è opera tua,
mamma.
Non ne sapeva niente,
sua mamma
non le aveva detto niente, né dell’arrivo di
Simone né dei gemelli e della loro
permanenza in casa loro. Il suo umore cambiò
all’improvviso, guardò la madre
con rabbia. Però si limitò a quello,
perché di dare spettacolo anche davanti a
Simone non le andava proprio.
Promemoria: litigare con mamma dopo che
Simone sia lontana almeno dieci
chilometri.
Quando madre e figlia
litigavano
lì dentro cadevano le mura, si scatenava la terza guerra
mondiale.
“Mi dispiace
molto, ma io adesso
sul serio devo andare.”
Simone guardò
l’orologio al polso
e si affrettò a riprendere la borsa e il cappotto che aveva
lasciato sul divano
lì di fianco.
Come? Di già?,
pensò Eva con la tristezza negli occhi, guardandola
mentre baciava i figli sulle guance.
“Mi
raccomando, fate i bravi,
eh”, disse sorridendo.
“Mamma,
l’hai fatto apposta vero?
Ce l’hai già detto mille di volte!”
“Ma io direi
anche duemila!”,
concluse Tom con un sorriso.
“Sì,
ok, però è meglio saperlo
bene che non saperlo.”
La madre di Eva
accompagnò Simone
alla porta, parlando ancora, e Simone che la ringraziava per tenere i
gemelli
in sua assenza.
Bill, Tom e Eva si
guardarono per
un istante. Ora che li guardava bene, riusciva ad accorgersi che i loro
lineamenti dolci e morbidi erano identici e anche i loro occhi nocciola
uguali.
Quei ragazzini le fecero tornare in mente amari ricordi, ricordi che
nemmeno
credeva di avere.
Non pensava mai al suo
passato e
quando lo faceva non andava a pensare a due mocciosetti
(anche se avevano dell’adorabile, erano pur sempre mocciosetti);
aveva affrontato cose ben peggiori e di gemelli non
se n’era affatto parlato.
“Ciao ragazzi!
Baci!”, Simone
soffiò dei baci nel salotto, sorridendo e scappando via.
I gemelli
l’avevano salutata con
la mano, mentre Eva non aveva fatto proprio un bel tubo. In tutto quel
tempo,
non aveva detto una sola parola. Era proprio di lei: non sprecava
parole e poi non
era una chiacchierona. Pure con i pochi amici che aveva parlava poco o
niente.
“Eva, vuoi
renderti utile nella
società? Ecco, ne hai l’opportunità:
sistema le valigie di Bill e Tom e falli
accomodare. Mica vuoi farli stare in piedi così,
no?”, disse la madre di lei,
sorridendo.
Eva non sapeva proprio
come
prenderla: era incazzata con lei, non le aveva detto che avrebbe dovuto
condividere casa con due ragazzini,
i
figli di Simone, una delle persone a cui si era accorta di tenere di
più al
mondo (che erano già poche), eppure, vedendo la sua gioia,
quel suo sorriso che
era mancato per troppo tempo sul suo viso, non riusciva a litigarci e
ad
esserci incazzata fino in fondo.
Eva si lasciò
scappare un
sorriso, che nascose subito tra le labbra, e andò
all’entrata per prendere le
valigie dei gemelli.
“Ma
va’, lascia stare, facciamo
noi. Tu dicci solo dove dobbiamo metterle”, era intervenuto
Bill, bolccandole
il polso della mano che già aveva preso il manico di una
borsa.
Eva lo guardò
in viso, stupita
dalla sua gentilezza. Ogni minuto che passava si affezionava sempre
più a quel
bambino, non sapendo nemmeno un motivo sensato.
“Ma che
gentile! Si vede che tua
madre è Simone. Beh, visto che si era decisa a fare qualcosa
nella sua giovane
vita, lascia portare a lei ormai quella valigia”,
intervenì ancora sua madre.
Ancora una presa in giro
verso
Eva e lei che non riusciva a risponderle, sarà stato per il
suo sorriso
contento, sarà stata per la presenza dei gemelli, ma non ci
riusciva.
“Ok, va bene.
Dai Tom, dacci una
mano pure tu, no? O vuoi fare la bella statuina?”, gli chiese
Bill,
sogghignando.
Altro punto in favore di
Bill
assegnato da Eva, che sorrise. Prese una valigia dal mucchio e la
tirò su,
portandola poi con sé in mezzo al corridoio, per poi tornare
indietro.
“Scusa mamma,
ma dove mi avevi detto
che dormivano? Non me lo ricordo…
Sai come sono, le cose che mi dici
entrano da una parte ed escono dall’altra.” Le
prime parole di Eva in presenza
dei ragazzini.
“Che bella
voce!”, urlò Bill,
tappandosi la bocca con la mano, arrossendo, quando notò che
tutti lo stavano
guardando, compresa Eva, alla quale era rivolto il complimento.
“Grazie
ragazzino!”, disse Eva,
con un sorriso.
Stava per sfregargli la
testa,
Bill era già pronto con gli occhi chiusi e i denti stretti
per non urlare
bestemmie, ma lei si fermò.
“Ehi, non ti
rovino i capelli,
non ti preoccupare.”
“Per quello
che possono essere
ancora rovinati…”, aggiunse il fratello facendo un
gesto con la mano e
sorridendo.
La madre di Eva,
intanto, era
uscita dalla cucina, ma non aveva ancora risposto alla figlia.
“Allora mamma?
Dove hai detto,
a me,
che li mettiamo?”, chiese, ancora insistendo sul verbo
“dire”, cosa che sua madre non aveva fatto.
“Ehm…
sì. Sul divano letto. Le
valigie portatele in camera tua, ok?”
“Ok”,
disse facendo il segno con
la mano.
I tre portarono le
valigie in
camera di Eva. Bill, appena entrato, non risparmiò a nessuno
la sua meraviglia
e la rese pubblica senza problemi.
“Questa camera
è stupenda!” aveva
detto, entrando e guardandosi intorno senza fiato.
“Wow!”
Le pareti erano colorate
di un
viola tenue e c’erano poster dei Green Day e dei Placebo
attaccati su tutta una
parete e sulla porta. Il letto a baldacchino era in mezzo alla stanza,
ricoperto da stupende lenzuola e piumoni neri a scheletri bianchi. Il
computer
portatile sulla scrivania e sopra una mensola solo di cd e dvd. La
televisione
invece era alla parete, con sotto anche la play-station. In fondo alla
stanza
c’era una finestra, che dava direttamente sulla piscina del
condominio, deserta
in quanto faceva ancora freddo. Dall’altra parte
c’era l’armadio a due ante,
dipinte da Eva stessa di nero, con attaccato un appendino con un
vestito nero,
con un fiocco rosso scuro intorno alla vita.
Bill si
avvicinò ad esso e
accarezzò la stoffa morbida del vestito, con gli occhi
brillanti.
“Ti
piace?”, chiese Eva, mentre
metteva la valigia vicina alla parete.
“Un
sacco!”, disse Bill con un
sorriso, guardando Eva e il piccolo sorriso che aveva sulle labbra.
“L’ho
fatto io”, continuò felice
la ragazza. Con Bill era un piacere sorridere, e le veniva anche
piuttosto
naturale.
“Davvero?
È bellissimo.”
“Grazie.”
Anche Tom
appoggiò le valigie che
aveva in mano accanto alla parete, poi si mise dritto sulla schiena,
con le
mani sui fianchi, guardandosi intorno.
“Ma te lo
metti anche?”, chiese
malizioso, guardando dall’alto in basso il corpo della
ragazza.
“Sì,
qualche problema?”
“No, nessuno,
anzi! Comunque non
so cosa ci trovi in questa stanza, Bill. È buia!”
disse, indicando intorno a
lui con la mano.
Bill e Eva lo
guardarono: il
primo con la faccia seria e la seconda con un sorrisetto strafottente.
“Sì,
è buia come l’interno del
tuo cranio”, rispose Bill, sorridendo e chiudendo gli occhi
al fratello.
Adoro questo moccioso!
Eva non poteva crederci.
Non si
sentiva così felice da un sacco di tempo, e il motivo della
sua felicità era nell’aver
trovato una persona, un ragazzino,
che la capisse.
“Divertente,
Bill.”
“Ragazzi!
Venite, è pronta la
cena!”, disse la mamma di Eva dalla cucina.
“Menomale, ho
una fame!”, disse
Tom, mettendosi una mano sullo stomaco.
“Tu pensi
sempre a mangiare, è
inutile”, Bill sorrise scuotendo il capo e raggiunse il
fratello accanto alla
porta.
Eva rimase a guardarli,
mentre
uscivano dalla sua camera, parlando tranquillamente. Bill
tornò indietro,
accortosi che Eva non era con loro. Sbirciò di nuovo in
camera sua con la
testa.
“Tu non
vieni?”, le chiese,
sorridendo.
Eva sorrise al piccolino
e lo
raggiunse.
***
Era ora di andare a
dormire, i
gemelli erano già sistemati sul divano letto, mentre Eva
ancora vagava per la
sua stanza, in preda a uno dei suoi ragionamenti confusi.
Si fece coraggio ed
entrò nella
camera della madre, che trovò in un pigiamone rosa. Le venne
da ridere, ma la
questione che voleva affrontare non era una delle più
divertenti, perciò non
era il caso.
“Eva, tesoro,
che cosa c’è?”, le
chiese dolcemente la madre.
La madre le
indicò di sedersi
accanto a lei, sul letto. Eva si avvicinò piano, come se
avesse paura di un
contatto brusco con la tenerezza. La spaventava moltissimo. Ci era
passata da
bambina, avendo tutta la tenerezza del mondo, per poi non avere niente.
Non
voleva sentire ancora quella sensazione addosso.
Si mise seduta sul
letto, a gambe
incrociate, di fronte alla madre.
“Volevo
parlarti di una cosa.”
Parlavano effettivamente
poco. Il
dialogo non era sicuramente una “dote” di Eva,
perché per lei era proprio una
dote, e la madre non l’aveva mai aiutata a parlare con lei
dei suoi problemi,
su quell’aspetto era mancata. Era mancata in molto da quando
nella sua infanzia
si susseguivano problemi dopo problemi, e tutti
all’improvviso.
“Perché
non mi hai detto di Bill
e Tom? Di… Simone?”
La madre si
incupì, il suo
sorriso rimase nascosto nell’ombra mentre parlavano.
“Perché…
Eva, io… non sapevo come
dirtelo.”
“Come?”
“Avevo paura
che ti facesse male
rivedere Simone, non la vedevi da tanto, credevo che ti avesse fatto
ricordare
quando…”
“Mamma…”,
la abbracciò.
Si era preoccupata per
lei, solo
ed esclusivamente per lei. Eva non avrebbe avuto problemi a perdonarla,
e non
sarebbe nemmeno servita una nuova e frustante litigata.
Il loro rapporto era
forte, erano
molto unite, ma mancava quel qualcosa che Simone aveva cercato di farle
capire:
l’affetto. Da quando Simone non c’era
più stata per entrambe, avevano perso
quell’affetto che doveva venire naturale, da madre a figlia.
Erano rare le
volte che manifestavano apertamente all’altra il proprio
affetto. E di sicuro
quelle rare volte non era certo Eva a manifestarlo e a cercarlo.
Sbagliava.
Sbagliava, e di grosso. Così si allontanava ancora di
più dalla madre.
Aveva capito tutto
questo adesso,
grazie all’arrivo di Simone, dei gemelli, di quello che era
successo. Ringraziò
il cielo perché Simone fosse di nuovo nella loro vita.
“Grazie,
mamma”, sussurrò,
lasciandosi cullare dalle braccia della madre, ritornando con la mente
agli
istanti felici della sua infanzia.
“Prego, cucciolotta.”
“Non mi
chiamare così, ti prego.”
“Perché?
Ti piaceva tanto quando
eri bambina!”, la madre sorrise e le fece solletico in
pancia, godendosi fino
in fondo la gioia che le regalava la figlia.
“Sai che ti
voglio bene, sì?”
“Sì,
lo so mamma. Anch’io te ne
voglio.”
“E comunque
scusa se non te l’ho
detto… è che…”
“Fa niente
mamma, non ti
preoccupare”, le stampò un bacio sulla guancia
calda e sorrise.
“Quel
coso… Ma non ti da
fastidio?”, le chiese, prendendole il viso e accarezzandole
il labbro
inferiore, dove c’era un anellino argentato di metallo
freddo, sull’angolo
destro.
“No, lascia
stare, dai!”, aveva
gridato piano, ridendo e lasciandosi cadere accanto alla madre, sul
morbido
piumone rosa.
“Mamma…”
“Mmh?”
“Posso dormire
qui?”, aveva
chiesto Eva, sistemandosi meglio accanto alla mamma, sorridendo e
accucciandosi
al suo fianco.
La madre le
accarezzò la guancia,
le rimboccò le coperte, ritornando indietro nel tempo,
quando ancora erano una
famiglia. Ora erano lei e sua figlia, ma non rimpiangeva nulla, era
contenta
della sua famiglia: la sua unica figlia.
“Certo, certo
che puoi.”
Eva stava già
dormendo, il
respiro regolare, serena. La mamma sorrise e spense la luce, dopo
averle donato
un morbido bacio sulla tempia, ricordando l’infanzia della
sua bimba, rovinata,
purtroppo, volata nel vento. Sogni distrutti, desideri infranti. Per
colpa
anche un po’ sua, forse.
C’è sempre tempo per
rimediare.
***
“Tomi? Tomi,
stai dormendo?”,
chiese sussurrando Bill, avvicinandosi al corpo del fratello, nel
letto.
“No,
perché c’è qualcuno qui che
non mi fa dormire”, rispose, mettendosi meglio le coperte
fino al collo. Il
fratello non aveva detto altro, così si girò
verso di lui e sorrise.
“Che
c’è Bill? Dai, dimmi tutto.”
Anche Bill sorrise. Si
avvicinò
di più al gemello e si mise con la testa sotto al suo mento,
sentendo il calore
del suo corpo, il suo cuore nel petto.
“Che ne pensi
di Eva?”
“Eva?”
“Si,
Eva.”
“Mmh…
Beh… In che senso?”
“Come in che
senso? Ti ho fatto
una domanda. Che ne pensi?”
“Di sicuro non
si può definire
una che parla molto… A cena non ha spiccicato una
parola.”
“Sì,
vero.”
“Poi…
che devo dire?”
“Io la trovo
simpatica, è forte.”
“Dici questo
solo perché ha la
stanza buia?”
Bill gli
puntò il dito sul petto,
mentre le braccia del fratello lo abbracciavano teneramente.
“Primo, quella
stanza non è buia.
E secondo, no. Non lo dico per
quello. Anche se non parla molto, penso che sia una ragazza diversa
dalle
altre, non so se capisci.”
“Si veste
strana come te?”
“No. Ha un
qualcosa in più… che
ne so.”
“Poche idee e
soprattutto
confuse, vero fratellino?”
Erano completamente al
buio nel
salotto. Nella casa regnava il silenzio e sembrava che gli unici svegli
nella
notte fossero loro, insieme, come volevano essere. Loro e nessun altro.
“Forse.”
“Beh, sai che
ti dico? Io la
trovo… intrigante. Sì, è
l’aggettivo giusto.”
“Dio, Tom, sei
sempre il solito!”
“Aspetta.
Insomma, non ti viene
anche a te la voglia di scoprire com’è? Fa
così tanto la silenziosa… la
misteriosa, che… boh, che ne so… ti attira. A te
no?”
“A te ti
attirano tutte, Tom.”
“Perché
mi piacciono le ragazze!”
“E che vuol
dire?! Anche a me, ma
non sono ossessionato come te. Vorrei vederti tra un po’ di
anni.”
“E io vorrei
vedere te. Secondo me
ti fanno Santo. Il Santino Bill…”
“Piantala
Tomi!”
“Ok, ok.
Allora sei soddisfatto?
Possiamo finalmente dormire?”
“Va bene, ma
solo se restiamo
così.”
“E va
bene…”
Tom mise meglio Bill fra
le sue
braccia, in modo tale che anche lui fosse comodo, si diedero la buona
notte e
si addormentarono, insieme, nella notte.
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Nota:
Nuova ff (in verità vecchia perchè l'ho scritta
un mucchio di tempo fa) solo per voi! Che ne pensate?
Grazie a tutti in anticipo... Vi voglio bene *__*
_Ary_
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