Hero - Capitolo 0
Capitolo
0
La
Morte
Un’accentuata
espressione di dolore l’accompagnò nel cammino
verso chissà quale
luogo, tra gli innevati e sconfinati boschi canadesi. Il manto di
neve, uniforme nel coprire ogni ciuffo d’erba e chiunque
avesse
deciso di passare per quei luoghi: come lui. Il suo passo era
dannatamente lento, quasi trascinante e intriso d’energie
sprecate.
Il sangue ancora usciva, però molto più
lentamente, dal polso
destro. Fissava quel poco che ne rimaneva: era stata tagliata di
netto, chirurgicamente e con una maestria fuori dal comune…
nonostante fosse fatto con estrema violenza. Il suo rammarico fu
quello di non averla potuta recuperare: il suo nemico se la
portò
con sé lasciandolo agonizzare nel suo stesso sangue, ma ebbe
lo
stesso la forza di andare avanti…
per proseguire il suo cammino.
Gli
sarebbero mancati solo trecento metri, ma ormai ne aveva già
percorsi altrettanti dal luogo dello scontro e il sangue uscente dal
braccio aveva formato una traccia.
Ormai,
il suo corpo era esausto.
Decisi
di seguirlo da lontano, come sempre.
Senza
una mano… una goccia di
sangue, bianco in volto, come la neve al di sotto del suo sedere, e
ormai s’era accasciato anche a terra. L’animale che
incontrò
pocanzi, per caso, e dopo un’efferato scontro, sempre per
caso, che
ometterò per evitarmi altri problemi, decise di recidergli
la mano
per ricordargli che l’aveva quasi battuto. Ma, allo stesso
tempo,
non abbastanza forte per finirlo: perché qualcosa nella
logica
d’uccidere qualcuno per forza non gli tornava. Il risultato
fu che
venne atterato dal suo nemico, proprio per evitare che Mastiff
avrebbe potuto ripensarci: avrebbe potuto finirlo, ma per qualche
strana ragione non lo fece. Non credo che ci sia stata mancanza di
determinazione, ma credo ci sia stata qualche altra ragione
improvvisa.
«Chi
sei? Un uomo che può diventare animale? Che magia
è questa? Non ti
faccio fuori perché non non è giusto uccidere
solo per goduria
personale!» – Parlò usando uno strano
inglese, forse era una
mescolanza con quella usata dai Cherokee, imparata dai suoi genitori
adottivi. Diede le spalle al proprio nemico, forse per
ingenuità o
perché non s’aspettava che l’attaccasse.
Un
grido, da parte del suo avversario, lo fece voltare, ma era fin
troppo tardi. L’animale… il mezzo uomo…
gli si eresse di
nuovo e con uno scatto fulmineo, gli morse il braccio –
all’altezza
del polso, per essere precisi – gli tranciò la
mano via dal resto
del corpo e se la mangiò: quello che prima era un semplice
cannibale, divenne per metà orso e con un ghigno stampato
sul volto,
gli dimostrò che la sua scelta di risparmiarlo fu del tutto
sbagliata.
Preso
dal dolore per la rescissione del braccio – purtroppo non
sarebbe
dovuto accadere, ma non avrebbe potuto scoprire realmente chi fosse
–
e dal risentimento nel riconoscere che sarebbe stato megio fermarlo e
renderlo innocuo: invece di lasciarlo lì a marcire senza
assicurarsi
che sia del tutto inerme; dunque decise d’andarsene, Mastiff:
non
sarebbe stato – giustamente – saggio rimanere
vicino a qualcuno
che potrebbe aver intenzione di mangiarti solo per goduria personale.
Riuscì nel suo tentativo, trovando ancora quel briciolo
d’energia
dentro di sé per correre, mentre l’orso decise
anche lui
d’accasciarsi a terra e di riposare: i fiotti di sangue
sarebbero
stati una manna dal cielo per chiunque avesse voluto divertirsi a
cacciare uno che sembrasse un indiano: anche solo per scherzo, tanto
l’uomo sembra essere stato programmato per uccidere senza
pietà.
Anche se non esiste pietà nel togliere la vita a qualcuno
che non
soffre.
Fece
poche centinaia di metri, forse solo un centinaio…
per poi accasciarsi a terra e rendersi conto che stava per morire. Il
sangue caldo colante dalla mano stava ancora colando, mentre il suo
corpo stava sempre diventando più bianco: nonostante tutto
ero
sicura che non servisse il mio intervento.
Era
ancora, tra la vita e la morte. Ormai, gli sarebbe rimasto poco da
vivere.
Aveva
diciotto anni compiuti. Correva il cinque novembre del 1909, su
quella linea temporale e lo ricordo tutt’ora.
Passò
qualche minuto e divenne cadaverico: le forze l’avevano
già
abbandonato del tutto, ma non riuscii ad andare oltre, senza farmi
vedere. Non potrei mai donare i miei servigi a chi non servo.
A
mio figlio, non servo.
Mai.
Passarono
venti minuti, tanto che incominciai a sospettare che ci fosse
qualcosa di storto.
Invece
era tutto regolare, solo con un leggero ritardo: il sangue aveva
appena smesso di sgorgare dalla mano e la ferita s’era
già
cicatrizzata completamente. Da quel momento, si rialzò da
terra, ove
era stato per qualche decina di minuti, per riprendersi dalle sue
fatiche e prese a correre disperatamente. Con il moncherino alla mano
destra. S’avviò verso l’ignoto, e dalla
determinazione usata in
ogni passo, il luogo d’arrivo sarebbe dovuto essere molto
importante. E decisi di smettere di seguirlo, per impegni urgenti, e
nel mentre aumentò
il passo e la
sua velocità, lasciando persino le impronte sulla candida
neve.
Mi
distaccai da lui, comparendo in una grande tenda e lo vidi
sghignazzare, un altro tizio cui dovrà prestare attenzione,
mentre
contemplava il dissanguarsi delle sue ultime vittime. Due indiani
pellerossa, a cui darei quarant’anni – massimo
– d’età: i
loro occhi rivolti verso il cielo. Entrambi con il collo spezzato e
una ferita all’addome, più precisamente subito
sotto lo sterno.
La
sua bramosia era palpabile a occhio nudo, quasi godesse
nell’infliggere la morte agli altri e forse era il solo e
unico
scopo della sua vita. E l’unico dettaglio, distanziando il
triangolo dell’omicidio plurimo, era la fumata del focolare,
acceso
per chissà quale motivo. Anche se il fuoco era esterno alla
tenda,
se ricordo bene. Avrei potuto pensare che i due l’accesero
per il
freddo, o il cacciatore per lo stesso motivo: comunque accadde, il
cacciatore riuscire a lasciare la scena del crimine senza lasciare
altre tracce.
Solo
a quel punto, quando m’assicurai che fossero entrambi morti,
anche
io m’addentrai ove erano distesi i due cadaveri, per portare
le
loro anime ai loro destinatari, ma decisi di rimanere qualche secondo
in più, sia per capire perfettamente chi sia il loro
destinatario,
ma anche per ricordare come abbia permesso che qualcuno mi posssa
aver separato da lui.
Dispiegai
un po’ dei miei fumogeni per il lavoro teatrale donatami
dalla mia
mortale natura e posi le mani sul petto della donna. Feci un bel
respiro profondo. Lentamente la sua anima venne a me, come se
estratta da una carcassa ormai spenta e dunque non funzionante, ma
era in silenzio. Non si lamentava della sua condizione di morte, ma
solo un tacito silenzio aleggiava nella stanza. E così feci
anche
con l’uomo. Stesso risultato, ma nel prendermi anche
l’anima
dell’uomo, vidi entrare qualcuno dalla porta della tenda.
Sfondò
i due teli, che formavano la porta della tenda, con un calcio, nel
mentre notai che quello che
era entrato era proprio il mio Mastiff. Alto circa un metro e
settantacinque, a soli diciotto anni. Capelli scuri, come la pece.
Occhi marroni… quasi
neri. Fisico definito, asciutto e senza un filo di grasso:
aggiungerei che incominciava ad avere le prime rughe. Il suo calcio,
fu violento… il suo
volto si contrasse quasi lentamente, nel vedere i due indiani stesi a
terra. Si prodigò per cercare di capire cosa fosse successo.
Anche
se le ferite di taglio all’addome e alla gola, avevano detto
tutto
il necessario. In quel momento, anche gli occhi del ragazzo si
sgranarono e s’arretrò fino alla parete della
tenda, incominciando
a piangere lacrime di rabbia. Strinse il pugno sinistro per cercare
di trattenerla: trasudante da ogni poro del suo corpo. Avrebbe
stretto entrambe le mani, ma non poteva. L’uomo orso
gliel’aveva
portata via. E con lei, anche qualcuno a lui voleva bene.
Premusibilmente
sarebbero potuti essere i suoi genitori adottivi.
Non
ce la feci a vederlo in quel modo, soltanto perché ha
cercato di
fare la cosa giusta. Non toccava a lui ucciderlo, quel cacciatore.
Purtroppo la natura umana, è incline soltanto
all’autosopravvivenza.
E non possiamo farci niente. Anche se dovranno incontrarmi, prima o
poi.
Mi
mostrai.
In
tutto il mio effimero splendore.
Alta
sul metro e settanta. Capelli corvini lunghi, fino alle spalle, e
occhi verde acqua chiaro. Sorriso smagliante, e magra quanto basta
per non risultare pelle e ossa. Pelle chiara, roseo. E mi feci
calzare perfettamente il vestito su ogni curva sinuosa. Il mio corpo
era soltanto intangibile, ma fottutamente reale: purtroppo la mia
essenza m’avrebbe impedito di rimanere troppo in questo
mondo, ma
avrei voluto incontrarlo, per potergli riuscire a spiegare chi fosse
realmente e quale fosse il suo posto nel mondo in cui avrebbe
vissuto. Mi stringeva il cuore non potergli dire di più, ma
l’unico
momento che avrei avuto con lui mi sarebbe costata la
responsabilità
di non essere riuscita a fermare il circolo vizioso
dell’immortalità.
«Si
vede che hai preso da entrambi. Ricordo ancora quando
l’incontrai:
il tuo vero padre. Era grosso quanto un grizzly e non aveva
intenzione di concedersi a me. Pensai che ci fosse qualche strana
ragione, per cui non volesse farlo, ma… fortunatamente per
me…
chiunque ha bisogno di trovare la propria pace e
m’è bastato donargliela:
nient’altro. Funziona sopratutto per i guerrieri. Loro mi
conoscono
bene, m’incontrano in ogni loro battaglia: tra i loro nemici
o tra
i loro amici. O entrambi. E tra la loro famiglia. Purtroppo
è la mia
natura e non posso farci niente!» – Confessai,
senza troppi giri
di parole.
«E
tu chi sei? Cosa
gli è successo?»
– Mi chiese balbettando, guardando con terrore sia me e sia
il
corpo dei due indiani. Non si mosse dalla sua posizione, con la
schiena schacciata verso al muro.
«Sono
tua madre, Mastiff!» – Gli risposi. Dolcemente. Ma
mi limitai a
rispondergli.
«Ora
chi sarebbe Mastiff? Io sono Cuore Infuocato!» – Mi
disse, di
getto, ancora preso dal terrore.
«È
Mastiff il tuo vero nome. Te lo diedi alla nascita e tuo padre se ne
già era andato via, ignorante sulla tua nascita. Ti ho
dovuto
lasciare a dei genitori adottivi, dopo che presi con me loro figlio
perché era stato ucciso da uno spietato cacciatore. Quelli
non sono
i tuoi genitori. Ti hanno adottato perché volevano avere un
figlio
tutto per loro. Non ne comprendo il motivo, ma è andata
così. Ed è
stato meglio così, o almeno credo…»
– Glielo dovetti
confessare, ma ne ero consapevole. Delle conseguenze.
«Quindi
sei tu mia madre? Perché non mi hai tenuto con te, per tutto
questo
tempo?» – Mi disse, sempre di getto, e incredulo a
quello che
stavo sentendo.
«Si…
non potevo, Mastiff. Non avrei potuto mantenerti, la
mia essenza me lo impedisce: figliolo, io sono La Morte, e purtroppo
avrei potuto dirti chi tu sia realmente soltanto al giungere del tuo
primo “ultimo passo”. Però, da questo
momento, non potrai mai
più morire. Né ora e né mai. E sono
qui per avvisarti che avrai
una vita lunga e che sarà irta di pericoli, per te e per il
mondo in
cui ti trovi. E dovrai impegnarti con tutto te stesso per cercare di
trovare la tua pace. Ma io e te non potremmo mai più
rivederci. Te
lo dico, anche se tenterai d’incontrarmi di nuovo…
non servirà
che provi a suicidarti!» – Gli cercai di spiegare,
a parole mie,
anche se m’era difficile farlo. Nel farlo, feci un passo
indietro,
per far intendere che l’avrei dovuto lasciare andare molto
presto.
Infatti,
scomparii in una dissolvenza quasi teatrale. Divenni un fantasma.
Invisibile, incorporea. Lui decise di rimanere nella sua posizione.
Non si mosse per tutta la poca durata del discorso. Non feci nemmeno
attenzione ai dettagli della sua abitazione, sopratutto
perché
l’unica cosa importante era l’avvisare Mastiff del
suo
inesorabile e folle destino. Non la prese bene, rimanendo stranamente
in silenzio, nell’antro di quella tenda ormai vuota. Avrebbe
voluto
dire e dirmi tanto: lo capivo dalla tacita frustrazione che ebbe nel
constatare che non avrebbe potuto fare più niente per
riportarli da
luie e continuare a vivere, ma che avrebbe dovuto continuare a vivere
anche per loro due.
Solo.
Come
un cane.
Per
l’eternità.
Sono
consapevole che avrei dovuto iniziare a risolvere “i
guai” che
avevo – con altre entità come me –
combinato; ovvio che nessuno
dei miei… probabili… figli sa quello che
è successo e l’unica
cosa per cui sarei fortunata è che non potrebbero comunque
vedermi.
Stranamente ho sviluppato una strana empatia con qualunque cosa
appartenente al creato e pare che sia stata davvero destinata al
“veicolare” ogni essere al proprio destino: tutto
si crea e nulla
si distrugge. Mi definiscono solo una maledizione, ma l’unica
maledizione che porto con me è quella di non poter rivedere
mai più
i destinatari della vita.
È
triste, il mio lavoro.
Tutti
mi demonizzano, ma in realtà sarei e sono l’unica
cosa benevola
nell’intero flusso della vita, soprattutto degli uomini:
l’unica
razza che è destinata al “gioire al nascere e
piangere alla morte”
dei loro simili… anche se hanno un enorme falla di sistema
che
consiste nell’essere stati creati con un elevato senso della
proprietà sia fisica che morale degli altri e degli oggetti
e questo
sta portando a un’inevitabile autoestinzione.
Per
quanto nessuno possa vedermi e pensare che sia soltanto eterea, ho
una mia fisicità e sono più umana di quanto possa
– chi ha la
possibilità di ascoltarmi – immaginare. Posso
parlare e anche un
mio piccolo gesto può essere preso da infinite
interpretazioni –
tutte giuste e tutte sbagliate – perché nessuno
conosce cosa sono
costretta a fare, per rispettare la mia natura; anche io sono stata
creata da qualcuno d’infinitamente potente di cui non conosco
nemmeno l’esistenza, ma – per tornare al mio
discorso – quello
che sono sicura di sapere è che per cercare di gestire
questo
“compito” affidatoci, a me e agli altri tre come la
sottoscritta,
di gestire l’evoluzione del nostro universo
d’appartenenza,
abbiamo cercato di facilitarci il lavoro donando alcuni simulacri che
rispecchiassero la nostra natura all’uomo…
principalmente… e diciamo che non è andata del
tutto bene: ma
proprio per niente.
Per
me, potrei persino affermare che per eccesso di zelo ho lasciato che
s’arrivasse a un’evoluzione della specie non molto
“calcolata”,
– tanto nessuno potrà sapere niente di questa
storia – tanto da
arrivare a constatare – sia io che gli studiosi che nel corso
della
storia hanno avuto modo di studiare questi “esseri potenti di
qualcosa di straordinario rispetto al proprio precedessore”
–
l’esistenza dell’homo
potens come
denominazione dell’evoluzione biogenetica dell’homo
sapiens sapiens
e nel corso del tempo trascorso dalla scelta infausta di dotare la
razza, con il corredo genetico avente il più alto grado di
adattabilità alle mutazioni, di fattori che potessero essere
usate
anche per rendere i soggetti aventi queste
“mutazioni” non
influenzabili anche dalla morte.
La morte è un processo
inevitabile per la conservazione e il riciclo della stessa energia
che non si disperde, ma che tra materia e antimateria – per
ridurre
all’osso il concetto: esisterebbero anche gli altri tipi
d’energia:
tipo quello temporale, ma è un’altra storia
– è sempre atto il
processo di riciclo che permette la coesione tra le fonti
d’energia
e i suoi – dell’energia – consumatori;
chi non muore, altro non
fa che non permette un riciclo e trarre energia da una “fonte
di
consumo inesauribile” mi sembrava un buon modo per
equilibrare di
nuovo tutto il consumo d’energia.
Diciamocela tutta: non ho
progettai io le razze da inserire nell’universo e i vari
pianeti,
ma quel demente di mio “fratello” Theo –
voi lo conoscete con
il nome di Dio – si divertì a farle tutte a sua
immagine,
somiglianza ed ego – quindi potreste immaginare quante grane
mi
abbia “regalato” nel corso dei millenni. Poi
s’inserì
quell’altro permaloso del mio secondo
“fratello” Luck – che
credo possiate conoscere con il nome di Lucifero – che ha
l’abitudine nel criticare senza dare una reale soluzione.
Infine…
non ve lo dico: sarò anche io libera di fare o dire quello
che mi
pare.
Anche se un senso “più etico”,
m’impedirebbe di fare cose o prendere decisioni che non sono
eticamente corrette: nel provare a prenderle, ho fallito miseramente,
perché non avevo calcolato che non potendo interrompere
nemmeno io
il mio flusso e il consumo d’energia che ho –
proprio perché
devo continuare a esistere – non dovrei provare a fare cose
insensate: se nel voler ridurre i consumi d’energia
dell’universo,
dovessi unire la mia essenza d’interrutrice di flussi con
qualcuno
cui non può – per qualche anomalia genetica
– essere interrotto,
si creerà – con molta probabilità
– come progenie qualcuno –
per forza di cose – che avrà una, o due oppure
nessuna delle
nostre proprietà.
In
poche parole, per chi non ha ancora capito: unendo la mia genetica
con quella di un immortale, avrei potuto creare dei casini e sarei
andata a creare – io, come credo anche gli altri esseri come
me, da
come ho capito – altri esseri che hanno la
proprietà di non
potersi vedere il loro flusso energetico interrotto ed è
solo colpa
mia. E degli altri esseri come me. E come farei io, La Morte, a
permettere queste unioni… sia dal punto di vista biogenetico
e sia
dal punto di vista “energetico”? Ovvio: con il
sesso… la
pratica che ha sempre accomunato tutti gli esseri umanoidi
dell’Universo.
Vi starete chiedendo, voi
fortunati che avete avuto la possibilità di leggere questo
mio
testamento scritto che prova finalmente la mia esistenza, cosa
v’abbia spinto a cercare di capire cosa ci fosse dietro la
morte:
niente che non abbiate già visto. Avete presente come mai i
bambini
piccoli hanno delle reminescenze di signori che non hanno mai visto?
Bene: probabilmente una parte dell’energia che sta usando per
vivere era appartenuta – in passato – alla vita del
signore che
lui ha visto, che si stava guardando allo specchio…
probabilmente… e ne potrei citare altri casi, come quello
che vide
la vita oltre la morte e scoprì di ritrovarsi in un posto
confortevole. È così, quando non hai
più peso e sei libero di
volare nell’etere ove nessuno può comandarti.
Credetemi se
confesso che è davvero bellissimo essere liberi di poter
fare
realmente l’impensabile e quando ve ne renderete
conto…
sarà troppo tardi: vi consiglio, come madre e amica
irresponsabile,
di godervi ogni singolo momento che riuscirete a ottenere nel vostro
rimanere in vita… oltre al fatto che ognuno di noi
è responsabile
delle sue azioni e non è onesto nemmeno dare sempre colpa a
me dei
vostri fallimenti e delle vostre insicurezze.
Quello che cerco di dirvi, dopo
tutta questa storia è: godetevi il viaggio – senza
ritorno –
fino a che riuscite ad apprezzarne ogni respiro, ogni istante e
–
soprattutto – tutto il sudore che uno spende per arrivare
alla
propria realizzazione: anche io avrei voluto che qualcuno mi dicesse
che andava tutto bene, ma il mio trovarmi a portare il vuoto in chi
non poteva nemmeno vedermi.
Un amico disse che le uniche cose
belle al mondo sono l’amore e la morte… io gli do
ragione per il
semplice motivo che sono anche le due leggi che governano
l’universo:
se si ama, s’accetta meglio la morte e si muore, si lascia
meglio
chi si ama.
Con
questo pensiero, la musica è finita.
Dimenticavo
di avvisarvi che io non sarò più la cronista
dell’intera storia,
ma i lor signori saranno accompagnati nel loro addentrarsi in questa
strana realtà da mio figlio Mastiff. E se risulta essere
molto
“pragmatico” nel raccontarvi la vicenda,
è perché non vuole
annoiarvi.
Io
avrei da lavorare.
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