Vilesangue

di ChosenUndeaad
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Essere indegno. Microbo. Feccia.
Vilesangue.
Io non ne ero a conoscenza, finchè non sono capitato in questo inferno.
Recluso, al buio, in una cella minuscola, piena di sporcizia. Non so dove mi trovo, ma sicuramente non è Yharnam. Non è casa.
Ogni giorno mi sveglio, la schiena appoggiata alle viscide pareti muschiose, impregnate di umidità, e scorgo una fievole luce attraverso le sbarre.
Li sento festeggiare, quei bastardi, mentre fanno colazione e si ingozzano di dolci la mattina presto. Stanno festeggiando perché io soffro, perché sanno che, dopo il pasto più importante della giornata, inizia l’ora dei giochi.
Li aspetto in silenzio, il cuore che batte, forte, troppo forte.
Ansia. Paura. Rassegnazione.
Cosa ho fatto per finire in questo stato? Il solo appartenere ad una famiglia creduta morta ha fatto di me il bersaglio di queste persone, no. Di questi mostri.
Ora li sento avanzare, con passi pesanti, lenti. Si fermano davanti a me, uno mi porge una misera fetta di pane e un bicchiere contenente un goccio d’acqua.
Mi sfamo, e mentre mi sfamo piango. E loro già iniziano a ridere, a pregustare la giornata.
Vengo trascinato fuori dalla cella, per i corridoi bui delle segrete dove mi tengono rinchiuso.
Uno dei Carnefici mi tira un pugno allo stomaco, facendomi cadere a terra.
Ridono.
Mi rialzo, cammino, non oso guardarli negli occhi.
Entro nella solita stanza, l’odore del sangue si riversa nelle mie narici. Devo vomitare, ma mi trattengo. Non voglio perdere quel poco che ho mangiato, e dare altra soddisfazione a quegli pseudo-umani.
Mi spingono verso un arnese in ferro.
Li sento scherzare, ridere, discutere animatamente. Sanno che questa sarà l’ultima seduta di tortura, e vogliono finirla alla grande.
Un altro Carnefice mi si avvicina, ha un coltello in mano.
Due di loro mi immobilizzano. Quello che impugna il coltello è a un palmio dal mio naso.
Inizia a scavare con la punta della lama sul mio petto, andando sempre più in fondo, tracciando un segno indelebile sulla sua tela di carne.
Urlo. Uso tutta la voce che ho in corpo. E, quando anche quella viene a mancare, mi riduco a silenziose lacrime, che scivolano inesorabili sulla mia ferita.
Il simbolo dei Vilesangue, la runa della mia famiglia, è ora incisa sul mio corpo, per sempre.
La guardo, e mentre la guardo sento un suono. È diverso dai soliti rumori che odo, pare quello di una lama che fende l’aria e la carne.
Si fa sempre più vicino, sempre più chiaro.
Anche i Carnefici se ne sono accorti, e si stanno precipitando verso l’unica porta della stanza. Estraggono le armi, stanno all’erta.
Poi, uno di loro spalanca la pesante porta di legno e metallo. Subito dopo, cade a terra. Morto.
Tre cacciatori entrano nella sala, affondando le loro armi nei molli corpi dei Carnefici.
In breve tempo, sono tutti a terra. Gemono nel loro stesso sangue, implorano pietà.
Due dei cacciatori, con calma, li stanno finendo, uno a uno, in silenzio.
Il terzo cacciatore mi si avvicina, si toglie il cappello e si china su di me.
Sistema i suoi capelli azzurri nella solita coda, e io lo guardo nell’occhio buono e in quello di vetro.
“Sei stato bravo, Kurimuzon. Hai resistito fino ad ora.”
Mi sorride, gli sorrido.
Svengo.
 
Vilesangue.
Non è poi così male, come nome. Penso proprio che andrò a cercare quella Regina di cui parlavano tanto. La mia Regina.
Dopotutto, la runa che ho incisa sul petto non se ne andrà così facilmente… tanto vale portargli onore.
Portare onore a lei e alla mia famiglia.
Vilesangue.
Sì, mi piace decisamente, questo nome.




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