capitolo 1
-Dove sono? Perché questo signore mi ha portato qui? Dove
sono mamma e papà?
Non sono più tornati a casa … e la nonna? Forse
non
dovevo scappare quando è caduta,
ma dovevo trovare aiuto a tutti
i costi … se fossi rimasto lì, buono, loro
sarebbero
tornati …
Forse si sono arrabbiati e per questo non sono venuti
a cercarmi. Ma chi è questo signore qui? E’
gentile
… -
Era estate, il sole splendeva alto sulla città di Atene. Le
strade erano colorate dalle vetture in coda e i marciapiedi erano un
brulicare
frenetico di persone. Nessuno sembrava sentire
particolarmente il caldo, nessuno tranne lui.
Era reduce da un
viaggio in aereo di dodici ore e, nonostante la meraviglia dovuta a
tante cose nuove e affascinanti, era stanco.
Quando arrivò all’aeroporto, accompagnato da
quell’omone gigante che lo aveva portato via
dall’orfanotrofio, pensò di sognare.
Guardò
divertito e incuriosito gli hangar, le persone che spingevano i
carrelli colmi di valige, le hostess con le loro divise eleganti e
sobrie,
i capitani nelle loro divise maestose e importanti. Gli
sembrò di essere in un’altra dimensione.
L’aeroporto era grande e luminoso. Ancora non aveva capito
dove
si trovava, non aveva mai visto in vita sua un posto del genere.
Ogni
sua domanda e perplessità su quel luogo strano venne
fugata quando il gigante, che fino ad allora gli aveva tenuto la
mano,
lo prese in braccio per mostrargli gli aerei. Il bambino non
riuscì a trattenere la sorpresa e restituì a
quell’uomo tutte le gentili parole
incomprensibili che gli aveva
rivolto. Non sapeva cosa gli dicesse , però
parlava tanto, in continuazione e lo faceva con voce gentile.
Non lo conosceva, lo vedeva per la prima volta, però
gli piaceva. Si era mostrato molto gentile con lui premurandosi di
portargli
un piccolo dono: una macchinina giocattolo, da corsa,
rossa e azzurra.
Mentre i due attendevano che il volo venisse chiamato, il bambino si
divertiva a far sfrecciare il suo bolide tra le caviglie degli altri
passeggeri,
anche loro in attesa.
Quando furono sull’aereo
l’omone lo fece sedere accanto al finestrino e
cercò di
intrattenerlo indicandogli tutto quello che
scorreva sotto il loro
sguardo. Il piccolo vide gli altri aerei diventare sempre
più
piccoli, il mare, le coste e i contorni della terra che pigramente
cambiavano fino a cedere completamente il passo al mare e poi di nuovo
alla terra. L’adulto parlava nel mostrargli tutto il visibile
anche se era
cosciente che il piccolo non avrebbe capito neanche una
singola parola. Forse fu meglio così, la voce
dell’uomo
era marcata da una sottile vena
di tristezza che fu comunque colta. Il
piccolo doveva salutare la sua terra natale.
Dopo un po’ guardare fuori dal finestrino diventò
noioso e
il piccolo trovò più interessante disegnare
mentalmente
dei percorsi sul sedile davanti
a lui, sul finestrino, sulle sue gambe
e sulle gambe di quel signore che lo accompagnava e che
accettò
di buon grado i suoi giochi partecipandovi
a sua volta. Sistemò
i braccioli dei due sedili per fare una piccola rampa di lancio, in
modo che la macchinina potesse saltare nuovamente sul sedile
di fronte
al bambino.
Il pargolo dava l’impressione di divertirsi un mondo e
commentava
sprezzante e allegro quel gioco, suscitando la risposta e
l’ilarità dell’accompagnatore.
Se solo fossero
riusciti a capire quello che si dicevano.
Trascorse un paio d’ore dal decollo fu servita la cena e i
due
mangiarono con gusto, giocarono un altro po’ con la
macchinina e
poi il bimbo
crollò in un sonno beato e tranquillo. Il gigante,
un ragazzo portoghese dall’altezza e dalla muscolatura
spropositata, con i capelli scuri e la pelle
annerita dal violento sole
greco, allungò una mano per fare una carezza al bambino che
ormai vagava per meravigliosi mondi. Si addormentò
a sua volta.
Arrivarono ad Atene attorno alle nove del mattino e salirono su un taxi
che li portò dentro la città. Il viaggio in
vettura
durò quasi un’ora e mezza,
trascorsa a mostrare gli
scorci della città al bambino. Il gigante interruppe il
discorso
che stava facendo al piccolo e pagò il tassista.
«Tenga il resto. Arrivederci. »
«Arrivederci. Buona giornata. »
Scese dal taxi giallo portando giù dalla macchina il bambino
con
la pelle chiarissima e delicata, i capelli biondi e due occhi grandi,
azzurri e profondi.
Aspettò che il taxi ripartisse e prese il
bambino per mano. Lo tirò a sé con delicatezza e
gli
disse con voce allegra:
«Hai visto? Siamo stati fortunati. Non abbiamo impiegato
molto
per arrivare al Grande Tempio. Ti troverai bene qui. Il Gran Sacerdote
dice che
sei un bambino speciale e che molto probabilmente, sempre che
ci abbia visto giusto, diventerai un cavaliere. Magari diventerai un
cavaliere d’oro,
chi può dirlo? Certo, l’allenamento
è duro e tu sembri così delicato, ma mai
sottovalutare
nessuno. Per ora resterai un po’ di tempo al Santuario,
ci sono
altri bambini come te e ne arriveranno altri, magari ne troverai
qualcuno che parla la tua lingua. Sai che il Santuario è una
specie di comunità
multietnica? Ci sono un sacco di persone di
tutto il mondo, io per esempio sono portoghese. Naturalmente dovrai
imparare il greco. E’ indispensabile
Ma sono sicuro che ci
metterai pochissimo. Noi stiamo andando lì –
l’uomo
si fermò per indicare al bambino il luogo dove erano diretti
-
povero piccolo,
sei tutto rosso. Hai caldo vero? Tranquillo, siamo
quasi arrivati. Non capisci una parola di quello che ti sto dicendo,
vero? »
Il piccolo si voltò verso quell’uomo, enorme e
statuario con la pelle scura, colorata da quel sole crudele.
Dopo averlo fissato per qualche istante il bambino aprì
bocca, e
con la voce resa un po’ roca dall’arsura
parlò.
«Jag
förstår inte. [Non ti capisco.]»
«E’ il tuo nome? » chiese
l’uomo, sempre
più incuriosito dalla musicalità di quella lingua
a lui
totalmente sconosciuta. Sperava ardentemente
che il bambino riuscisse a
capire che voleva sapere il suo nome. Infatti, incredibilmente, nessuno
sembrava conoscere il nome di quel bambino.
«Jag
förstår inte! »
«Ti chiami "Iogfestinte"?
»
«Vad?»
«Ah, ti chiami Vad?! E’ un bel nome, suona bene. Lo
sai che puoi cambiarti il nome? Se ti va puoi inventartelo oppure puoi
chiedere al
Gran Sacerdote qual è il tuo nome celeste. Ognuno di
noi ne ha uno, ma non interessa a tutti conoscerlo. Dopotutto non
è il nome che fà
la persona, o forse mi sbaglio? Tu che dici
piccolo vichingo? »
«Vart tar du
mig? [Dove mi stai portando?]»
«Ehi piccolo, quanto parli! »
Il bambino aveva avuto una risposta alla sua domanda, ma non capiva
cosa gli dicesse quell’uomo e l’uomo non capiva
quello che
diceva lui.
Era stanco dal viaggio, ma soprattutto stava morendo di
sete. Era tutto sudato. I capelli lunghi gli si appiccicavano
fastidiosamente sul collo e
sulla fronte, le gote erano rosse dalla
calura e si stava innervosendo, non riusciva a comunicare.
L’eccitazione del battesimo dell’aria era svanita.
Provò a parlare di nuovo.
«Var
är mina föräldrar? Där ska vi?
[Dove sono i miei genitori? Dove andiamo?]»
«Piccolo, mi dispiace davvero tanto. Non ho la minima idea di
cosa tu mi stia chiedendo.»
«Jag
behöver vatten. Jag har varma och törstiga. Kan jag
få ett glas vatten? [Ho bisogno d'acqua. Ho caldo e sete.
Posso avere un bicchiere d'acqua?]»
«Guarda! Siamo arrivati, sei contento?»
Camminarono ancora per un po’ tra rovine e turisti curiosi.
Finalmente si addentrarono nel Santuario, che sembrava fosse una
zona preclusa
alle altre persone. In quel luogo strano, sembrava che il
tempo si fosse fermato. Il biondo si guardava intorno, pensava a quanto
fosse diverso
quel posto dalla sua Luleå, certo il mare
c’era anche se lontano, ma c’era anche quel caldo
asfissiante che gli aveva tolto tutte le energie.
Non aveva mai sentito
un caldo del genere, non credeva neanche che potesse esistere. Voleva
tornare a casa dai genitori e continuare la vita
che aveva condotto
fino a qualche mese prima.
Non si sentiva minacciato ne da quel mistico luogo ne dal gigante che
gli teneva la mano. L’uomo si era dimostrato gentile e oltre
a
instillargli
sicurezza gli dava l’impressione di non essere
troppo sveglio.
Il bambino scrutava attentamente il paesaggio strano nel quale era
immerso, senza capire dove fosse, e gli piaceva: era tutto
così bello, così antico,
così
maestoso...così grande.
«Vieni con me, ti faccio conoscere il Gran Sacerdote in
persona. E’ un grande onore sai?»
«Skulle du ge
mig lite vatten?[Mi daresti un po' d'acqua?]»
«Poi ti porterò un po’
d’acqua, sembri affaticato.»
Entrarono in un tempio gigantesco dove trovarono due uomini vestiti con
delle lunghe tuniche scure. Portavano delle maschere e degli elmi
terrificanti.
Cominciò a tremare.
«Kalimera.
Gran Sacerdote, Cavaliere dell’Altare. Ho portato quel
bambino svedese. Eccolo.”
L’uomo che lo aveva condotto in quel luogo sciolse la mano da
quella del bambino e gliela posò su una spalla, in segno di
incoraggiamento,
spingendolo delicatamente a fare un piccolo passo in
avanti.
Il bambino si rese conto che sarebbe rimasto solo con quei due mostri e
si aggrappò con tutte le sue forze alla gamba del suo
gigante,
sussurrò «Jag
är rädd.[Ho paura.]» e
scoppiò in un pianto inconsolabile e disperato. Tra i
singhiozzi pronunciava qualche frase incomprensibile e
cominciò ad urlare a pieni polmoni.
«MAMMA! VAR
ÄR DU? [Mamma! Dove sei?]»
Le escandescenze del bambino erano dovute alla vista di quelle due
figure alte, imponenti e inquietanti. Vestivano degli elmi terrificanti,
ornati con fregi e immagini di draghi. Il portoghese
cercava di calmare il bambino, provava a parlargli e a staccarlo dalla
sua gamba.
La tenacia del bambino fu grande, resistette all’uomo
che, dopo qualche tentativo, decise di desistere dall’impresa
a
causa del timore
di far del male al piccolo.
«Mi dispiace, non capisco. E’ stato buonissimo per
tutto il
viaggio. Ha parlato un sacco ma non so cosa mi abbia detto. Inoltre ha
giocato
sereno con una macchina che gli ho regalato, perdonatemi se non
vi ho chiesto il permesso prima, ma mi è sembrato un gesto
carino, non
mi conosceva e…»
«Hai fatto benissimo João, te lo sei fatto amico.
» lo interrupe uno degli uomini.
Le due figure si stagliavano prepotenti all’interno di quella
sala un po’ spartana, ornata da fregi
e colonne, rischiarata da
una tenue luce.
«Ha ripetuto spesso ‘Vad’, ma non so cosa
voglia dire. Magari è il suo nome, ma non ci spero.
»
Per pochi istanti sembrò che la quiete calasse nel tempio.
Lo
sguardo terrorizzato del bimbo non accennava a staccarsi da
quelle due
figure terrificanti e ansimava, in silenzio, indeciso se riprendere ad
urlare e piangere o lasciarsi andare in balia dei futuri eventi.
Il Gran Sacerdote fece un passo avanti per avvicinarsi al bambino, ma
questi trovò nuove energie e si abbandonò
nuovamente ad
un pianto
colmo di angoscia e preoccupazione che interrompeva per
urlare qualche frase.
«Inte kommit
närmare! Gå bort!! [Non avvicinarti! Vai
via!]»
Il Gran Sacerdote non si fece intimorire dalle grida ma
fermò i
suoi passi. Con voce gentile provò a verificare se quella
parola
ripetuta
dal bambino fosse il suo nome, benché avesse la
certezza che fosse qualche intercalare.
«Vad?
[Cosa?]»
«Vad?
Förstår du mig? [Cosa? Mi capisci?]»
il bambino sembrò calmarsi nel sentire quella parola
familiare,
il pianto si placò un poco, ma solo per il tempo
che gli fu
necessario a capire che non avevano la minima idea di quello che stava
dicendo. Il Gran Sacerdote fece un altro passo avanti,
seguito
dal suo vice, ma dovettero fermarsi nuovamente.
«Nej!
Gå bort!! Glida bort det där! [No! Vai via! Togliti
quella cosa!]»
«Ma che ha da urlare tanto?» chiese Arles un
po’ stizzito.
«Lo so io. Ha paura, non ci capisce e le maschere non aiutano
a farlo calmare. »
Mentre il Gran Sacerdote parlava si sfilò la maschera e
l’elmo. Guardò il bambino dritto negli occhi e gli
sorrise. Il bimbo arrestò il suo
pianto quando vide che sotto
quella maschera tanto brutta e spaventosa si celava un uomo, un uomo
con gli occhi di un colore quasi innaturale,
ma dolci. Il volto era
severo e i capelli spettinati, lunghi e verdi. Arles tenne la maschera
e si allontanò farfugliando qualcosa a proposito della
salvezza
delle sue orecchie, ma nessuno ci fece caso.
«Ok, proviamo a ricominciare. Ti spavento ancora? »
Sion non si spiegava per quale motivo non conoscesse il nome di quel
bambino. Non era mai accaduto prima. Qualche notte prima,
mentre si
trovava all’Altura delle Stelle, vide il volto di quel
bambino.
Non gli venne detto il nome, ma sapeva che era figlio di una coppia
giovanissima che si era dovuta indebitare fino al collo per aprire una
piccola attività, sapeva che erano riusciti ad aprire il
vivaio
che tanto
desideravano e che erano riusciti a costruire una serra che
avrebbe permesso loro di far fiorire ogni tipo di fiore, ma soprattutto
le rose.
La madre di quel bambino aveva un profondo amore per le rose e
il padre invece era capace di farle fiorire anche nel deserto. Il
bambino
aveva ereditato entrambe le caratteristiche dei genitori. La
sua peculiarità non era solo legata alle rose, infatti,
possedeva anche un'incredibile
resistenza ai veleni. Sion era a
conoscenza delle dinamiche della morte dei genitori del piccolo
svedese, aveva visto la vettura accartocciata a
bordo strada ed era a
conoscenza che la giovane coppia morì sul colpo.
Le stelle gli comunicarono anche che i giovani genitori erano orfani e
che nessuno si sarebbe potuto occupare di quel bambino, lo informarono
dove venne portato il bambino, dove era ubicato l'orfanotrofio. Sapeva
che il bambino rimase orfano a quattro anni e che trascorse il
suo primo
compleanno senza i genitori. Le stelle gli mostrarono anche
il volto del pargolo, che riconobbe appena vide. Ora il Gran Sacerdote
era intenzionato
più che mai a scoprire il nome di quella
creatura delicata, concluse la frase con un flebile suono che doveva
risultare uno sprono a parlare ancora.
Il bambino non rispose, alzò la testa a cercare
l’approvazione dell’uomo che lo aveva condotto
lì.
Gli strinse la mano sulla gamba pizzicandogli la
carne e lo
fissò implorante. Voleva essere portato via. Arles
tornò
senza la maschera e con un grosso bicchiere di acqua fresca. Si
inchinò in modo
da guardare il bambino negli occhi e glielo
porse. Non gli sembrava veroin, finalmente poteva bere.
Afferrò
il bicchiere dalle mani di quell’uomo,
farfugliò
rapidamente «Tack» e bevve avidamente. Aveva tanta
sete,
dovuta al caldo e alla fatica del pianto.
Quando ebbe finito porse il bicchiere all’uomo che era stato
tanto gentile da portarglielo e sorrise.
«Oh, ma sai che sei molto più carino quando
sorridi? Quando urli come una volpe isterica ti deformi tutto!
»
«Arles – lo rimproverò Sion –
lui non ti
può capire, ma io sì. E’ solo un
bambino, sii
clemente…»
«Lo so che è un bambino … un bambino
che urla come una volpe isterica. »
Gli adulti si lasciarono andare ad una risata e il bambino li guardava
curioso e cominciò a chiedersi se non ridessero di lui.
Ma non
gli importava granché.
Dopo diversi minuti trascorsi ad ascoltare quelle parole nuove e a
fissare quei volti particolari e così diversi tra loro,
il
biondo svedese dovette tenersi lo stomaco che brontolava prepotente.
Sembrava che i grandi non avesse sentito i lamenti dovuti ai
morsi
della fame, per cui dovette ingegnarsi in modo che la loro attenzione
ricadesse nuovamente su di lui. Afferrò il lembo della
mastodontica
t-shirt indossata da João e la tirò a
se, iniziò a saltellare e disse: «Jag hunger. [Ho fame]».
Gli adulti lo accontentarono e si abbassarono tutti e tre in modo da
guardarlo negli occhi. Non sapevano quello che il bambino
dicesse e fu
provvidenziale l'intervento di Arles.
«Sembra inglese. Credo abbia fame.»
Sion avvalorò la tesi del vice e decise di portare il
bambino alla mensa con loro, congedando il portoghese.
Il Gran Sacerdote e il Cavaliere dell'Altare si recarono nella vasta
sala adibita al ristoro tenendo il bambino, tra di loro, per mano.
Si
sedettero e attesero di essere serviti. Sion e Arles ripresero i loro
discorsi riguardanti al bambino mentre il piccolo ingannò il
tempo
giocando con la macchinina.
_____________
Spero che questo primo capitolo sia di vostro
gradimento, aspetto critiche, suggerimenti e anche parolacce da
chiunque vorrà
sprecare un po' del suo tempo a recensire.
Per quanto riguarda lo
svedese, chiedo venia a
ogni svedese morto e vivente per aver violentato in questa maniera la
loro lingua.
Grazie a chiunque leggerà!
|