III.
Il
terzo incontro fu anche l’ultimo e il più
assurdamente casuale di tutti.
L’inverno
era arrivato presto quell’anno, impietoso, con i suoi venti
gelidi e la neve
che imbiancava le vie semi deserte. Le persone restavano rifugiate
nelle loro
case davanti al fuoco dei camini, avvolti in abiti pesanti e caldi.
«Se
esco ancora una volta oggi mi cadranno le orecchie per il
freddo.» Mormorò in
un sussurro mentre teneva una porticina di servizio aperta con un piede
e
portava all’interno alcuni sacchi. «E le
dita.» Fletté dolorosamente le mani
arrossate dal gelo un paio di volte mentre una cuoca portava uno dei
sacchi in
cucina. «Cadranno anche loro.»
«E
allora sarai anche più inutile del solito.» Si
lamentò la donnetta voltandosi.
«Se al contrario ti si gelasse la lingua almeno non dovrei
sentire le tue
continue lamentele, ragazzo. Muovi quelle gambe e porta qui il
resto.»
Lamentele, così le chiamava lei, eppure quello era
l’unico momento in cui
poteva sentire la sua voce, almeno quando non batteva i denti. Per
diversi
giorni quella era stata la sua routine quotidiani, avanti e indietro,
dentro e
fuori per trasportare oggetti e vivande per la festività
imminente e il gelo
continuava ad attanagliare Firenze nella sua morsa.
«Cosa
stai facendo con quell’affare addosso?» La voce
della Signora era anche più
pungente del freddo, Marco la guardò un attimo indeciso se
rispondere o meno,
optò per il silenzio, la via meno dolorosa.
«Allora?! Vuoi rispondere o no?»
Afferrò la vecchia coperta in panno logora e bucata che si
era avvolto sulle
spalle come un mantello, e la strattonò sciogliendo il
debole nodo e
lasciandola cadere con un gesto disgustato nella neve.
«Quella cosa sudicia
vicino al nostro pasto.» La allontanò meglio da
lei con un piede. Si strinse le
braccia attorno al corpo, forse la coperta non lo scaldava come avrebbe
voluto
ma era comunque meglio di quello, e il freddo aveva già
iniziato a penetrare
nella maglia leggera. «Verrai punito per questo.»
Gli afferrò il mento
costringendolo ad alzare il volto verso di lei. «Sembra quasi
che tu non voglia
altro.» Lo lasciò andare rientrando ad ampie
falcate nella residenza. Per
qualche secondo Marco rimase fermo sul posto poi raccolse la coperta
bagnata e
ormai inutilizzabile e la gettò in un angolo prima di
riprendere il lavoro
precedente.
«A
volte mi domando perché continuiamo a tenerti.»
Marco alzò lo sguardo verso la
porta senza muoversi da dove si era raggomitolato sul letto in cerca di
un po’
di calore. Il resto della giornata era passato senza intoppi e la sera
era
giunta. Aveva iniziato ad odiare quel momento della giornata, sapeva
cosa
portava. «Tua madre almeno era utile a qualcosa.»
“A
letto, quando eri troppo stanco di
tua moglie.”
Pensò, credevano forse che non lo sapesse?
Anni prima aveva osato immaginare una vita diversa, un risultato
diverso, aveva
presto cambiato idea preferendo la vita che aveva piuttosto che essere
conosciuto come suo figlio. Senza contare che pareva non aver preso
assolutamente nulla da lui, e ne era grato. «Non ho fatto
nulla di male.»
Azzardò a bassa voce, come un bambino che tenta di
difendersi, il rumore dello
schiaffo che calò su di lui parve risuonare tra le quattro
fredde pareti.
«In
quanto? Tredici anni forse? E ancora non hai imparato quando puoi
parlare.» Il
sapore metallico del sangue gli invase la bocca mentre un rivolo
scivolava
lungo il mento dal labbro dove si era morso. Avrebbe voluto correggerlo
che di
anni ne aveva sedici, non che in quel momento li dimostrasse, ma non
sarebbe
stata una mossa saggia. Ma in fondo a sedici anni non si è
saggi, o almeno, lui
non lo era.
«Ma
non posso mai parlare.»
«Esatto.»
Lo afferrò dai capelli, tirandoli e avvicinandolo.
«Eppure continui a farlo.
Dovrei tagliarti la lingua.» Lo lasciò andare
spingendolo contro il muro, si
era appena sollevato e aveva osato guardare nella sua direzione che
l’uomo
sembrava non aspettare altro che quel momento. Un singolo colpo di
frusta si
abbatté sul suo viso facendogli scappare un urlo che aveva
imparato in passato
a trattenere, ma non quella volta. Si coprì il volto con le
mani un attimo
troppo tardi.
«E
c’è altro che non hai imparato, inutile
ragazzino.» Lo afferrò dalla maglia
spingendolo giù dal letto e fuori dalla stanza senza
prestare troppa attenzione
a chi potevano incontrare. Nel momento in cui alzò lo
sguardo verso le scale
incrociò lo sguardo della padrona di casa, era ferma con le
braccia conserte
sulla sommità delle scale che portava alle camere da letto,
con un mantello in
lana stretto sulle spalle e un sorriso compiaciuto sul volto. Un attimo
dopo
era fuori dalla sua visuale, una porticina di servizio veniva aperta e
Marco si
ritrovò a mancare i due gradini che portavano in strada
scivolando e finendo
seduto nella neve che aveva iniziato a cadere ore prima. La punta della
spada
che altre volte aveva preso e che cercava di imparare ad usare era a
pochi
centimetri da lui, in mezzo agli occhi, rimase immobile, non
osò neppure
sbattere le palpebre. La spada venne lanciata a terra davanti a lui
senza cura.
«Dal
momento che sembra piacerti così tanto è giusto
che la abbia tu. Un regalo.»
C’era un profondo sarcasmo in quelle parole, Marco
deglutì a vuoto mentre un
peso gelido come la neve sotto di lui si posava sul suo petto, una
paura che
non aveva forse mai provato. «Ti servirà. La
città è piena di lupi affamati di
notte.» Qualcosa gli diceva che non si riferiva agli animali
eppure questo non
lo rassicurò, al contrario, la paura si fece più
tangibile, il freddo lo
avvolse dall’interno inchiodandolo immobile al selciato.
«Se domattina non ti
avranno sbranato» E sottolineò quelle parole molto
bene, con lentezza
calcolata, Marco non riusciva ad abbassare lo sguardo.
«allora considererò
perdonati i tuoi errori di quest’oggi.» Con quelle
parole si voltò e prima
ancora che il giovane capisse cos’era accaduto la porticina
era chiusa davanti
a lui, il rumore del chiavistello risuonò forte nella via
deserta, come se lo
avesse azionato con tutta la sua forza solo per farlo arrivare alle sue
orecchie.
Rimase
seduto davanti a quella porta per quella che parve
un’infinità, cercando di
capire di quali errori parlasse, era tutto perché aveva
scelto di usare una
vecchia coperta per ripararsi dal freddo? Forse quella era solo la
scusa che
avevano trovato per liberarsi di lui. Avrebbe voluto esserne felice ma
non gli
riusciva in quel momento, forse era il freddo, forse era la paura, il
non saper
dove andare, i lupi che vagavano
per
Firenze. Forse era tutto quello o forse nulla, forse qualcosa che non
capiva,
ma non riusciva ad essere felice di essere fuori da quella casa.
Dopo
quella che parve un’eternità si alzò
stringendosi le braccia attorno al corpo
per cercare inutilmente di scaldarsi, raccolse la spada e si
allontanò senza
una meta.
Era
nato a Firenze, per quei suoi sedici anni vi era cresciuto, eppure non
conosceva nulla di quelle strade, non sapeva dove portassero, le poche
volte
che era uscito non aveva il tempo di guardarsi attorno e presto finiva
col
reggere in mano più di quanto riuscisse a portare, sua madre
era morta anni
prima e ricordava così poco di lei.
Era
esausto quando alzando lo sguardo dalla strada trovò la
Cattedrale stagliarsi davanti
a lui, rimase qualche secondo fermo a guardarla mentre la neve aveva
ripreso a
scendere in fiocchi piccoli e leggeri, poi si trascinò in un
angolo riparato e
si rannicchiò a terra, le gambe tirate contro il petto, la
spada stretta a sé,
la sua unica arma, posò la testa sulle ginocchia, i riccioli
scuri cadevano
disordinati sulle braccia, poi chiuse gli occhi sperando di riuscire a
riposare
ma per quanto ci provasse il sonno non arrivava, c’era solo
il gelo.
E
c’era il gelo anche quando smise di nevicare e i primi raggi
del sole
brillarono in cielo. Era sopravvissuto a quei famosi lupi da cui il suo
Signore
lo aveva messo in guardia ma non sarebbe tornato da loro, a costo di
vivere in
quelle strade riparandosi negli angoli e osservando le persone
passargli accanto,
aveva visto centinaia di persone fare così, nessuno si
sarebbe accorto che ce
n’era uno in più.
Invece
qualcuno se ne accorse, quando ancora la città doveva
iniziare a svegliarsi,
quando le persone che passavano per le strade erano talmente poche da
poterle
contare sulle dita di una mano, qualcuno si accorse di lui.
«Perché
sei qui fuori?» Marco lo guardò dal basso senza
muoversi né aprire bocca. «Non
sarai stato qui tutta notte, esatto?» Il tono era sconvolto
mentre poneva
quella domanda, e quando l’espressione si fece ancora
più shockata capì che
qualcosa nel suo viso lo aveva tradito e gli aveva risposto.
«Sai cosa ti
dico?» Attirò la sua attenzione con quelle parole,
il tono era arrabbiato e per
un attimo Marco pensò che se ne sarebbe andato come era
logico facesse. «Ti
hanno cacciato? Peggio per loro!» Si sfilò il
mantello scuro avvolgendolo
attorno alle sue spalle con gentilezza nonostante il tono con cui
parlava.
«Ora, vieni con me.» Allungò una mano e
Marco la guardò qualche attimo prima di
afferrarla con la sua, incerto e debole per il freddo.
Non
fece caso alla strada che da quell’angolo della cattedrale
portò alla dimora
dei Medici, non sarebbe stato comunque in grado di ricordarla in quel
momento.
Lo condusse con attenzione in una stanza calda e accogliente.
«Siedi
qui, torno subito.» Mise una sedia davanti al letto per poi
sparire in un’altra
porta, Marco lasciò vagare lo sguardo, posò la
spada contro il muro
avvicinandosi ad uno specchio, il suo aspetto era anche peggio di quel
che
aveva osato immaginare. I capelli bagnati erano incollati alla fronte e
ai lati
del viso, metà del quale era coperto di sangue, non sentiva
dolore dai tagli ma
se doveva essere sincero non sentiva quasi nulla. Alcuni passi si
avvicinarono
nuovamente, si voltò affrettandosi a sedersi come gli era
stato ordinato poco
prima, l’ultima cosa che voleva era disubbidire ad un ordine
da chi lo aveva
appena salvato, non voleva sfidare la sorte più del dovuto.
«Credevo
fosse peggio sotto tutto quel sangue. Per fortuna sbagliavo.»
Marco aveva
trattenuto il respiro quando aveva avvicinato le mani al suo volto
iniziando a
pulire via il sangue, c’erano voluti diversi secondi prima
che la sensazione di
pericolo si acquietasse e alla fine era rimasto solo stupore e
imbarazzo. Il giovane
sembrava avere la sua età ma era difficile esserne sicuri,
in quel momento
sembrava più simile ad un adulto che si occupa di un bambino
che è caduto
sbucciandosi un ginocchio, la stessa delicatezza e calma, il tono
confortante.
O forse era solo lui a non essere abituato a quello.
«Allora…
hai un nome?» Aveva posato lo straccio nella bacinella e si
era voltato aprendo
l’armadio contro un lato del muro e cercando dei vestiti che
potessero andargli
bene, quando non arrivò risposta si voltò, Marco
annuì con un movimento rapido
del capo. «Non sai parlare? O non puoi?» Prese una
camicia bianca alzandola
davanti a sé e guardando Marco qualche secondo prima di
decidere che poteva
andar bene. «Sai scrivere?» Quando lo vide annuire
nuovamente lasciò da parte i
vestiti e aprì un cassetto della scrivania in legno scuro,
gli mise sulle gambe
un pezzo di carta e una piuma già sporca
d’inchiostro. Marco esitò prima di
prendere la piuma con mani tremanti e scarabocchiare con tratto incerto
il suo
nome.
«Marco.»
Lesse il giovane riprendendo la piuma e il foglietto e posandoli sulla
scrivania, lo ripeté una seconda volta lasciando che le due
sillabe
scivolassero lente sulla sua lingua. «Il mio nome
è Cosimo.» Si presentò
allegro con un sorriso. «Nessun cognome?» Marco
scosse la testa da una parte
all’altra e Cosimo si fece pensieroso mentre tornava
all’armadio e prendeva dei
pantaloni che posò sul letto con la camicia. «Non
importa. Troveremo qualcosa.
Ora cambiati, e riposa.» Si voltò incamminandosi
verso la porta. «Io trovo un
modo per spiegare la tua presenza.» Non era il tono
più convincente che Marco
gli avesse sentito usare, Cosimo si voltò abbozzando un
sorriso rassicurante
prima di lasciarlo solo. La stanchezza sembrò cadergli
addosso tutta d’un colpo
quando la porta si chiuse alle sue spalle.
«Cosimo!»
Nel sentire l’urlo avvicinarsi alla porta Marco scese scalzo
dal letto, prese
la spada e si spostò dall’altro lato della porta,
contro il muro. «Qui non si
tratta di aver portato in casa un randagio ma una persona.»
Quando la porta si
aprì Marco tenne la spada dritta davanti a sé
puntata contro il capofamiglia
dei Medici che, vedendolo, non parve per nulla impressionato.
«Ormai
è qui…» Azzardò Cosimo come
se quello potesse sistemare tutto, come se la sua
sola presenza nella casa gli desse il permesso di restare.
«Starà con me. Una
guardia personale.» Continuò mentre Giovanni si
avvicinava di qualche passo. «È
abile con la spada, credimi.» Avrebbe voluto dire che non
potevano
semplicemente buttarlo fuori di casa, che non era giusto e che non se
lo
meritava ma sarebbero state parole al vento.
«Abbassa
questa spada ragazzo.» Posò la mano sulla lama
spingendola verso il basso, lo
sguardo era severo, molto simile a quello che conosceva anche troppo
bene, la
voce invece, per quanto dura suonasse aveva un fondo di gentilezza,
quel ragazzo non era suonato come
dispregiativo ma solo basato sulla sua età. Giovanni lo
squadrò da capo a piedi
prima di puntare gli occhi nei suoi.
«Da
questo preciso momento dedicherai ogni istante della tua esistenza alla
protezione di questa famiglia, e alla sua in particolare.»
Indicò Cosimo alcuni
passi indietro senza staccare gli occhi da lui. «Metterai la
sua vita al primo
posto, prima ancora della tua, qualunque ambizione sarà
nulla ed eseguirai ogni
ordine che ti verrà dato.» Il giovane Medici fece
un passo avanti per obiettare
ma si fermò. «E se morirai, quando morirai,
sarà per lui.» «Padre!» Marco
rimase con le spalle contro il muro, la spada abbandonata lungo il suo
fianco,
Cosimo scattò avanti, esclamò qualcosa,
obiettò quello che alle sue orecchie
suonava come un ordine assurdo, non aveva portato Marco nella loro casa
per
quello, che stesse al suo fianco e lo proteggesse andava bene ma
quell’ordine
era troppo. Marco tutte quelle parole non le sentì.
Quando
quella mattina presto aveva preso la mano di Cosimo e aveva lasciato
che lo
guidasse, quando aveva lasciato che si prendesse cura di lui, quando si
era
presentato e gli aveva dato i suoi vestiti e un letto caldo in cui
riposare,
quando quella mattina lo aveva salvato Marco aveva già
deciso che avrebbe speso
il resto dei suoi giorni a proteggerlo da ogni cosa potesse presentarsi
sul suo
cammino. Era in debito con lui e non era il genere di debiti che si
estinguono
velocemente, no, forse non si sarebbe mai estinto e andava bene
così. Una vita
per una vita. Cosimo era diverso dalla famiglia in cui era cresciuto,
nonostante la durezza anche Giovanni de’ Medici era ben
diverso dall’uomo che
lo aveva incolpato di nulla. Era in debito col giovane e aveva deciso
che
avrebbe fatto tutto per dimostrare che salvarlo non era stato un errore.
Strinse
l’elsa della spada con una presa più decisa,
raddrizzò le spalle senza
spostarsi e alzò la testa osservando con decisione e
fierezza padre e figlio
davanti a sé. Quando era arrivato aveva pensato che quello
fosse il momento in
cui la sua vita prendeva una svolta drastica, forse in bene forse in
male
ancora non lo sapeva, non poteva essere più nel torto.
Quello era il momento
esatto in cui la sua vita iniziava.
«Lo
giuro.»
Angolino dell'Autrice:
Ed eccoci al termine. Avevo più idee riguardo il
primo incontro, alcune più drammatiche, altre meno, alcune
in cui si incontravano più avanti, alla fine questa ha avuto
la meglio.
Rispetto a quanto detto nella serie forse li ho fatti incontrare quando
erano più giovani ma va bene così... avranno
abbastanza anni per creare quel rapporto che si è visto.
Spero di riuscire a scrivere altro su di loro, sia generale sia come
coppia, qualunque cosa... ma se vedete che sto diventando troppo
cattiva con i personaggi fermatemi... toglietemeli dalle mani,
portateli in salvo!! (x°D Mi conosco... i miei preferiti
tendono a passare le pene dell'inferno e non ne escono sempre interi...
D: )
Se volete lasciare un commentino farete felice una piccola indifesa
scrittrice :3 *si indica e sventola la manina*
Bye Bye~
Aki
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