E così, questa, è la nostra storia... di Tsukuyomi (/viewuser.php?uid=68762)
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Capitolo 02 - Morsi
Due guardie semplici si avvicinarono al tavolo occupato da Sion, Arles
e il piccolo. Vi posarono sopra due grossi vassoi ricolmi di cibo.
Il bambino sgranò gli occhi nel vedere tante pietanze e, con
l’acquolina in bocca, si riempiva le narici degli ottimi odori. I
due adulti lo guardavano e gli porsero un vassoio affinché
potesse scegliere quello che preferiva. Non si fece pregare ed
indicò con sicurezza una bistecca fumante, estorcendo loro
un sorriso. Mentre gli adulti prendevano i piatti e si servivano
continuarono a dialogare del pargolo che sedeva al loro tavolo,
visibilmente affamato.
«Sion, ma all’orfanotrofio, non avevano i documenti di questo bambino? »
«No, è stato portato e abbandonato davanti al portone. Si
sospetta che sia stato un barbone, ma non si ha la certezza. Inoltre,
tutte le persone a cui abbiamo provato a chiedere sembrava che lo
vedessero per la prima volta in vita loro. Con persone intendo i vicini
di casa. L’unica persona che sembrava conoscerlo, oltre ai
genitori, é morta. »
«Strano. »
«Già. Molto strano. »
Sion e Arles discutevano con tono triste. Erano ovviamente dispiaciuti
del fatto che quel bambino, come tutti gli altri bambini del Santuario,
fossero dei prescelti. Significava che avrebbero avuto una vita
dolorosa, come loro due avevano già sperimentato sulla propria
pelle.
«Sion, dimmi dei genitori del bambino. Come sono morti?»
«Brutta storia amico mio. I genitori di … del piccolo,
rientravano dalla Finlandia e hanno perso il controllo della
macchina. Sono morti sul colpo. »
«Con chi era il bambino?»
«Con una vicina di casa, un’anziana donna che aveva quasi
adottato i genitori e lui. – indicò rapidamente il bambino
- Teneva spesso il piccolo con se,stando a quello che ho
scoperto. E’ morta la stessa notte dei genitori del bambino.
Probabilmente, essendo un prescelto, deve aver percepito
qualcosa di strano e deve essersi svegliato nel cuore della
notte. La, diciamo nonna, del bambino è caduta dalle scale ed
è morta anche lei. Da qui in poi non so niente.
Probabilmente il bambolotto è stato trovato da qualcuno per
strada ed è stato portato nell’orfanotrofio dove ho
mandato João.»
«Povero bambino. Ha solo cinque anni ed ha già vissuto tanti eventi traumatici.»
Scuoteva la testa, Arles, a sottolineare la tristezza che gli suscitava
il piccolo e gli mise davanti al naso il piatto da lui scelto.
«Già … - sospirò Sion – speriamo
almeno di riuscire a scoprire il suo nome il prima possibile.»
«Mi stupisco. Come facciamo a non saperlo? »
«Non lo so, davvero. Sono sconcertato da questa storia. Non
è mai accaduto prima. Potrei chiedere alle stelle il suo nome
celeste e potremmo chiamarlo con quel nome. Ma il punto è: lui
capirebbe che,anche se non l’ha mai sentito, è il suo
nome? »
«Non credo, è piccolo. » sospirò Arles.
«Oh, l’età non conta troppo alle volte. Sembra molto sveglio. » Sion sembrava sicuro delle sue parole.
«Sion, non lo metto in dubbio, ma a cinque anni ancora non ci si
sa tagliare la carne da soli, non ci si sa allacciare le scarpe e non
si sanno fare molte altre cose, non possiamo pretendere che
capisca una lingua che non ha mai sentito da un momento all’altro
e che capisca al volo il suo nome celeste solo perché glielo
diciamo noi». Nel parlare Arles si avvicinò al
piatto del bambino e, prendendo coltello e forchetta, iniziò a
tagliare la succulenta bistecca che vi troneggiava sopra.
«Jag kan göra detta genom att själv. » il bambino
prese il suo coltello e la sua forchetta e cominciò a tagliare
la carne in piccoli pezzi. Quando ebbe finito posò il coltello
sulla parte superiore del piatto e cominciò a gustare il pasto.
Nel mentre i due adulti lo guardavano sbigottiti.
«Ehm, dicevi scusa? » lo punzecchiò Sion.
«Niente, niente.»
Una volta finito il pranzo, Sion condusse il bambino in una
piazza interna al Santuario. Era circondata da olivi ultrasecolari, con
i rami grandi e contorti che s’intrecciavano per creare un riparo
fresco e rigoglioso. Sion gli lasciò la mano e gli fece cenno di
aspettare con le mani e, solo quando il bambino annuì, si
allontanò.
-Così è questo il caldo? Ne parlava sempre
papà perché il caldo fa fiorire le rose che piacciono a
mamma, ma lui è bravo e le fa fiorire anche in mezzo alla neve
… ma come fanno i fiori a vivere così, qui il sole
scotta e brucia. Dov’è mamma? Non la vedo da tantissimo
ormai e neanche papà. Perché non sono più tornati?
Forse mi sono comportato male. Sì, si sono offesi perché
ho staccato il petalo di quella rosa bianca che mi ha regalato mamma.
Non volevo però. Forse quel signore è andato a chiamarli
e sono qui. Voglio tornare con loro a casa. Sono salito anche su un
aereo. Che bello! E’ stato fantastico vedere le cose da lì
sopra. Tutte le cose che mi sembravano enormi, viste dall’aereo
che vola diventano minuscole. Chissà se potrò rifarlo.
Non mi è piaciuta quella macchina gialla, però
c’era fresco dentro. Ma non torna quel signore? E il signore che
mi ha regalato la macchinina dov’è? Quando siamo andati a
mangiare è sparito. Volevo mangiare con lui perché mi fa
ridere, parla sempre e parla in modo strano. Ho sonno. Speriamo che il
signore coi pulsanti in fronte torni presto. -**
All’ombra di un ulivo, il biondo pargolo svedese si
stiracchiò e si sedette, poggiando la schiena contro un
muretto che delimitava la piazza, mentre pensava agli ultimi due giorni
e a tutti quegli eventi che lo avevano travolto. Non sapeva
ancora,coscientemente, di essere orfano ma in cuor suo sapeva
già che non avrebbe più riabbracciato i genitori e che
non si sarebbe più beato delle loro carezze. Erano stati bravi
nell’educarlo, non lo avevano viziato troppo e gli avevano
insegnato ad essere indipendente da subito. Gli avevano spiegato
cos’era la morte quando era morto il suo criceto, gli parlavano
quasi come si parla ad un adulto spiegandogli con calma le cose ma
cercando di mantenere in lui l’ovvia innocenza della sua
età. Sapeva quando e come doveva lavarsi e vestirsi. Faceva
tutto da solo sotto la dolce supervisione dei genitori che non
mancavano di lodarlo ogni volta. Gli piaceva farli contenti e ricevere
complimenti.
Il lungo viaggio e il pianto convulso che lo avevano stremato e, ora,
anche il pancino pieno gli imponevano di abbandonarsi tra le braccia
del dio del sonno, che lo avrebbe cullato al posto dei genitori. Si
addormentò stringendo tra le mani la sua macchinina. Sion
mancò solo per pochi minuti, al suo ritorno sulla piazza non lo
vide.
«Oh Atena, mia dea … non dirmi che è scappato.» esclamò Sion preoccupato.
Si guardava intorno e si girava con piccoli movimenti convulsi.
Pensava già alle prese in giro di Arles “Ti sei perso il
bambino? E noi dovremo dormire sonni tranquilli perché tu vegli
sul Santuario?”. Fortunatamente il bambino era rimasto lì.
Doveva sempre obbedire agli adulti che conosceva e di cui si fidava:
altro prezioso insegnamento.
«Eccolo là» trasse un sospiro di sollievo e si avvicinò al corpicino rilassato del bambino.
«Ma … dormi! Devi essere distrutto. – sorrise Sion
carezzandogli i capelli finalmente asciutti dal sudore – Beh,
credo che ti lascerò qui. Se ti ci sei addormentato vuol dire
che ci stai bene e inoltre è il posto più sicuro del
mondo. Manderò qualcuno a prenderti tra un po’. Risposa
birbante, riposa tranquillo.»
Sion si alzò e si allontanò per tornare al tempio
all’ingresso del Santuario. C’erano altri arrivi previsti
per quella giornata.
João, dopo aver lasciato il piccolo alle cure del Gran Sacerdote
e del Cavaliere dell’Altare, decise di tornare alla propria
abitazione e di pranzare lì, dopo una doccia ristoratrice. Anche
lui era provato dal lungo viaggio. Dopo essersi rinfrescato sotto il
fresco getto d’acqua e dopo essersi rifocillato uscì con
l’intento di trovare il suo coinquilino. Voleva raccontargli del
bambino. Non sapeva che anche il giovane con cui divideva la piccola
casa era partito, poche ore dopo di lui, per andare a recuperare un
altro prescelto. Curiosò per tutto il Santuario, senza trovare
l’amico. Nell’esatto istante in cui meditava di tornare a
casa e abbandonarsi tra le lenzuola udì delle urla. Le grida
provenivano dall’ingresso del Santuario.
A passo svelto si diresse verso la sorgente delle grida e, con immensa
sorpresa, trovò un compagno alle prese con un bambino.
«Accidenti! Toglietemi questo mostro di dosso! Aiutatemi o lo ammazzo.»
«Calmati, Dioskoros. E’ solo un bambino» disse João con tono calmo.
«Un bambino?! Questo è un bambino!? E’ posseduto.
Non puoi capire che razza di viaggio mi ha fatto fare. Continuava a
dimenarsi come un pazzo. Non so neanche più quante volte ho
temuto che qualcuno chiamasse la polizia. E vagli a spiegare che non
l’ho rapito.»
Dioskoros lottava per immobilizzare quel bambino che sembrava avere la
meglio, era agile e si divincolava come un serpente. Ogni volta che il
soldato credeva di essere riuscito ad immobilizzarlo, il piccolo
riusciva a voltarsi e ad affondargli i denti nei muscoli.
«Ah ah ah, ma tu non sei quello che vuole un’armatura
d’oro? Non sei capace di badare neanche a un ragazzino. »
Il gigantesco portoghese prendeva in giro il compagno, sebbene non lo
avesse mai ritenuto tale.
«Provaci tu pezzo di bifolco! Ahia, molla la presa belva. E’la decima volta che mi morsica.»
Dioskoros era una normalissima guardia del Santuario
di Atena,un soldato semplice. Aveva 34 anni, capelli neri e occhi
nocciola. Aveva il volto ricoperto da una folta barba lunga. Non era
cattivo, ma era totalmente privo di ogni capacità per interagire
con gli altri esseri umani. Non aveva tatto e non dimostrava mai
gentilezza. Non riteneva che la gentilezza fosse una qualità
necessaria ad un soldato. Era semplicemente stupido.
Ora aveva le braccia ricoperte di morsi profondi e lottava come un
dannato per cercare di tener fermo quel piccolo guerriero che riusciva
ad avere la meglio su di lui. Non voleva fargli del male ma non
intendeva continuare a ricevere morsi e calci.
Il soldato scelse di fare il viaggio di ritorno in Grecia in nave. Un
viaggio durato due giorni, che si rivelò orribile per il
bambino. Dioskoros, infatti, pensò che tenerlo chiuso nella
cuccetta della nave lo avrebbe fortificato. Tornare in Grecia con
l’aereo significava compiere un viaggio di poche ore, e lui
voleva dare una prima lezione al bimbo. Quale lezione migliore di
quella? Il pargolo aveva imparato una cosa fondamentale però:
quell’uomo era un emerito stronzo.
«Di certo non si può dire che lo spirito guerriero gli
faccia difetto. Vero Dioskoros? » incalzò il gigante.
«Non stare lì impalato. Vieni a darmi una mano. Cretino. »
«Ok, ok, ma non scaldarti. Gli fai male così, per forza
poi ti si rivolta contro. Gli tengo le gambe ferme, tu allenta la
presa sulle braccia però. E attento ai denti, se ti da un altro
morso morirai dissanguato. Certo che ti ha conciato per le feste.
»
«Volevo vedere a te alle prese con questo animale. Ma dove ha vissuto, nella giungla? »
«¡Dejame asqueroso! ¡Cabron!»
«Ah, parli anche! Non hai fatto altro che grugnire fin’ora. »
«Dai Dioskoros, è che tu non ci sai fare coi bambini,
l’hai chiaramente terrorizzato. Magari è uno dei prescelti
per vestire una delle armature d’oro. Potrai vantarti di essere
l’uomo più morsicato da un Cavaliere d’oro. Il
bambino che ho portato io ha fatto le bizze solo quando ha visto il
Gran Sacerdote e Arles in veste ufficiale. Chissà cosa gli
sembravano quelle maschere. Povero piccolo, chissà se sta
bene…»
«João, lo vuoi tenere fermo? »
«¡Te he dicho de dejarme, burro! » il bambino parlava
a denti stretti, era pronto a difendersi in tutti i modi, non avrebbe
lasciato ulteriore possibilità di essere trattato come un
animale.
« Dioskoros, non stai facendo altro che spaventarlo. Cerca di essere più gentile. »
«Gentile? GENTILE!? Ma lo vedi? Ha fatto così tutto il viaggio.»
« Dioskoros, vuole che lo lasci andare. »
«Col cazzo. Questo ragazzino è posseduto. Non lascerò che mi salti alla gola. »
«Dai, lo tengo io, tu lascialo. »
Il bambino sembrò calmarsi per qualche istante, lasciando ai due
adulti il tempo di parlare senza dover urlare per coprire la sua voce.
«Neanche per sogno. Senti, tu che lo capisci, cosa sta dicendo? E soprattutto, come fai a capirlo? »
«Parla spagnolo. Sta dicendo che vuole che lo liberi.»
«Parlate la stessa lingua quindi, digli che se mi dà un
altro morso gli stacco la testa. Mi sta dicendo solo di lasciarlo?
»
«Non parliamo la stessa lingua. Io parlo portoghese, razza di ignorante. Cos’altro dovrebbe dirti poi? »
«Magari mi sta insultando. E quando hai imparato lo spagnolo? »
«Ho viaggiato parecchio da ragazzino e feci amicizia con alcuni ragazzi spagnoli. »
«¡Que te jodan, jilipollas! ¡DEJAME! » Il
bambino riprese ad agitarsi e scalciare. Emetteva degli strani suoni
gutturali negli sforzi in cui si imbarcava per cercare di liberarsi,
somigliando davvero ad una belva feroce.
«Mi sta insultando vero? Spesso le prime parole che si imparano
in una lingua straniera sono le parolacce, no? Presumo che tu le
conosca e presumo anche che me ne abbia detto parecchie. Dovremmo
lavargli la bocca col sapone. Ahia! Mi ha morso di nuovo. »
«Non ti ha insultato, tranquillo. »
«João, dimmi la verità.»
«Ok, ti ha dato dell’asino. »
«Solo? »
«Sì. »
«Mi stai mentendo? »
«Sì.»
«Bene.»
«¿Adónde me estais llevando? » il bambino
continuava a divincolarsi e urlava. Era chiaramente terrorizzato, ma a
quanto sembrava la paura non lo immobilizzava, anzi, lo rendeva
più combattivo e aggressivo.
Il portoghese bloccò saldamente le gambe del bambino spagnolo, stanco di quella scena patetica.
«Senti, lasciamelo un secondo, forse riesco a calmarlo un po’. »
«Goditelo João, non ne voglio più sapere niente. Il
mio dovere l’ho fatto - Dioskoros mollò la presa e se ne
andò di corsa – e ora vado a farmi fare
un’antirabbica. »
«Vale chico. Tienes que calmarte ahora. » disse con tono fermo e pacato.
Al sentire pronunciare quelle parole, il bambino si fermò e
guardò negli occhi quel gigante che lo teneva stretto a
sé. Sorrise e cominciò a parlare.
«¿Me entiendes? »
«Si. Yo soy portugués y hablo un poquito español. ¿Còmo te llamas? »
«Shura Manuel Kotipelto Ruiz». Dopo aver detto il suo nome completo, scoppiò a piangere.
Il gigante lo abbracciò più forte che poté,
cercando di non fargli male. Cercò di consolarlo ma il bambino
non aveva intenzione di calmarsi. Aveva appena affrontato due giorni di
viaggio in nave, e li aveva trascorsi rinchiuso dentro una cuccetta.
Non c’erano finestre e non aveva neanche potuto vedere il mare.
Si era arrabbiato quando, poco dopo la partenza, aveva capito che
avrebbe viaggiato per tutto il tempo lì dentro e da solo. Aveva
cominciato a gridare. L’uomo che lo accompagnava faceva la sua
comparsa per portargli qualcosa da mangiare e da bere, ma Shura non
aveva mangiato o bevuto niente di quello che gli aveva portato quel
tizio. Nella cuccetta c’era un piccolo bagno e aveva bevuto dal
lavandino. Ogni volta che andava a controllarlo gli urlava contro, ma
non capiva cosa. Che viaggio orribile aveva appena affrontato, e non
solo, la vita di Shura, in poco più di una settimana era
cambiata radicalmente.
«Shura, ¿cuàntos años tienes? »
João cercò di far parlare ancora il bambino, sperando che
potesse tranquillizzarlo.
«Seis».
Il bambino rispose con la voce rotta dal pianto e tirò su col
naso. Si grattò la testa e si stropicciò gli occhi che
pizzicavano per le abbondanti lacrime. Il gigante gli mise una mano
sulla testa e gli scompigliò con dolcezza i capelli già
spettinati provocando un sorriso di risposta seguito da un abbraccio
pieno di gratitudine. La belva si era trasformata ora in una tenera
creatura bisognosa di affetto e protezione.
«Chissà che viaggio ti ha fatto fare quel ‘mamóm de mierda’, povero piccolo»
Shura aveva capito solo ‘mamóm de mierda’ e si mise
a ridere girando la testa di lato, come a voler confermare la tesi del
gigante, che vedendolo non trattenne le risate.
«Sei buffo, piccolo! »
«¿Què?» disse inclinando la testa di lato.
«¡Estas gracioso!»
Nel sentire quello che per il bambino era un complimento arrossì
e nascose il volto abbassando la testa per poi lasciar sfuggire
un sorriso. Teneva le mani sui pettorali del gigante che si era
inginocchiato per poterlo guardare negli occhi.
Ora era il turno di Shura. Avrebbe posto lui le domande.
«¿Còmo te llamas? »
«Yo soy João y tengo veintinueve años. »
«¿Porque estoy aquì? »
«Porque tu eres un niño especial»
«¿Especial? ¿Porque soy especial? »
«Fuiste elegidos por las estrellas. »
«¿Estrellas? »
«Si, te daras cuenta en futuro. » concluse.
Shura annuì sicuro di aver capito niente. Lo stomaco
brontolò violentemente. Non mangiava da due giorni e moriva di
fame. Nel sentire il suo stomaco protestare vivamente girò la
testa all’indietro e fece finta di niente, ma il gigante si mise
a ridere, si alzò e lo prese per mano.
«Vamos a comer algo. »
«Si, tengo hambre. »
«¿Has comido hoy? »
«No. No he comido nada. »
«Ci avrei giurato »
Il piccolo spagnolo lo guardò sorridente. Non gli interessava
sapere cosa gli aveva appena detto. Ora erano amici e si fidava di
quell’omone tanto alto da toccare la luna con un dito.
João lo portò attraverso una serie di tempi enormi che si
stagliavano prepotenti verso il cielo, finché non giunsero alla
mensa. C’erano solo due compagni che finivano di rassettare. Un
uomo e una donna. Il Grande Tempio non aveva niente di diverso rispetto
a un'ordinaria caserma, eccetto l’aspetto. Le guardie e i cavalieri
di basso rango svolgevano a turno tutti i compiti. Erano poche le
figure specializzate. I cavalieri d’oro svolgevano principalmente la
funzione di presiedere al proprio tempio e prendevano parte alle missioni
particolarmente difficili, i cavalieri d’argento erano gli
esecutori di gran parte delle missioni e si preoccupavano di addestrare
le matricole, i cavalieri di bronzo avevano pressoché gli stessi compiti dei
cavalieri d’argento. Spesso
la cooperazione maestro-allievo durava nel tempo. Vi erano le
persone che non riuscivano ad ottenere un’armatura. Chi decideva
di restare al Grande Tempio nella speranza di migliorare le proprie
doti combattive svolgeva tutti i compiti che un comune soldato semplice
svolgeva in una normale caserma. Altre figure specializzate nel
Santuario erano le nutrici, donne che potevano non vestire la maschera,
infermieri e medici, cuochi e alcuni insegnanti. La formazione
culturale dei nuovi arrivati era affidata prevalentemente al maestro
loro assegnato e spesso, i ragazzi, dovevano partire per altre
destinazioni per poi tornare ad Atene per il torneo di assegnazione
dell’armatura.
* Jag kan göra detta genom att själv = posso farlo da solo
** Traduzione simultanea dallo svedese.
Rubrica “Impariamo qualche insulto in spagnolo”
*¡Dejame asqueroso! ¡Cabron! = Lasciami schifoso! Bastardo!
*¡Te he dicho de dejarme, burro! = Ti ho detto di lasciarmi, asino!
*¡Que te jodan, jilipollas! = lett. Che ti fottano, stronzo!
* mamóm de mierda = pezzo di merda
Voglio ringraziare tutti coloro che hanno deciso di sprecare un po' del
loro tempo nella lettura del primo capitolo,che subirà qualche
correzione al fine di eliminare qualche errore inguardabile, e a chi ha
voluto lasciare due righe.
Grazie a RedStar12 che mi ha aggiunto tra gli autori preferiti, che ha segnalato la fic come preferita e per la recensione.
RedStar12. Hai indovinato!
Forse ho dato troppi indizi :P Certo che compariranno Milo e Camus e,
sarà un incontro indimenticabile, o almeno, per loro è
stato indimenticabile ^_^
Camus. Sono felice che l'arrivo del biondino ti sia piaciuto. E dell'arrivo di Shura che ne pensi?
miloxcamus. Lieta che l'idea dell'infanzia dei gold ti sia piaciuta. Spero di riuscire a descriverli al meglio ^_^
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