World of Glass_definitva
Disclaimer: Naruto
e tutti i suoi personaggi appartengono a Masashi Kishimoto. Nessuna
violazione di © è dunque intesa.
Note:
i tre asterischi sanciscono la fine di un giorno, mentre i brani in
corsivo indicano un flashback (non sono in ordine cronologico).
World of Glass
Higher
than Hope
The hopes
were high
the
choirs were vast
Now
my dreams are left to live through you
«Vediamo…
sì, per cominciare direi che ognuno di voi dovrebbe
presentarsi».
«E cosa
dovremmo dire?».
«Oh,
bè, le cose che
vi piacciono, quelle che odiate… i vostri sogni nel
cassetto, i
vostri interessi… cose così, insomma».
«Allora,
maestro, che ne dici di presentarti tu per primo?».
«Giusto. Non
sappiamo nulla di te».
«Volete che
mi presenti?
Bè, io mi chiamo Kakashi Hatake. Non ho nessuna intenzione
di
dirvi cosa mi piace e cosa non mi piace. I miei sogni nel cassetto?
Bè, anche se ve li dicessi… e per
finire… ho
diversi interessi!».
«Sentite, ma
in pratica… ci ha detto solo il suo nome».
«Bene.
Adesso tocca a voi. Cominciamo a partire da destra».
«Io mi
chiamo Naruto Uzumaki!
Mi piace il ramen… e mi piace ancora di più il
ramen che
mi offre il maestro Iruka all’Ichiraku! Ciò che
odio sono
quei tre minuti in cui aspetto che il ramen sia pronto. E il mio sogno
per il futuro… è superare in abilità
tutti gli
Hokage… e far capire a tutta la gente del villaggio quanto
sono
forte!».
‘È
cresciuto proprio bene…’.
«Il mio
hobby è fare scherzi».
‘Capisco’.
«Il
prossimo!».
«Mi chiamo
Sasuke Uchiha.
Odio un sacco di cose e non me ne piace nessuna in particolare. Non
voglio parlare dei miei sogni… ma ho un’ambizione!
Riportare agli antichi fasti il mio clan… e uccidere chi so
io».
‘Immaginavo’.
«Bene. E per
finire, la ragazza».
«Io sono
Sakura Haruno.
C’è una cosa che mi piace… anzi, una
persona… ahem… poi non so se dirvi il mio sogno
nel
cassetto… no! Non ce la faccio! E una cosa che odio
è
Naruto! I miei hobby, bè…».
‘Mi sa che alla sua
età le ragazze… più che ad allenarsi
pensano all’amore’.
«Bene! Basta
con le presentazioni».
Libertà
rubata, speranza perduta.
Per
quanto le si implori il proprio corpo rimane imprigionato da fredde
catene. Le lacrime scorrono senza fine e poi...
***
«Ecco fatto, Sai.
Ora va
meglio?», Sakura si alzò dalla sedia dinnanzi al
ragazzo,
gli diede le spalle e si sciacquò le mani nella bacinella
d’acqua, ormai inquinata da troppo sangue, che giaceva su un
piccolo tavolo.
Sai abbassò
lo sguardo verso
la sua mano sinistra e saggiò le bende che coprivano lo
spazio
dove, fino a pochi giorni prima, si trovavano il suo mignolo e anulare.
Non faceva più tanto male.
«Sì.
Grazie, Sakura».
Lei sorrise e si
asciugò le
mani con uno straccio, macchiato anch’esso di sangue, e si
voltò, legandosi i capelli.
«Ah, non
è che
potresti aiutarmi un attimo con Naruto?», chiese, mentre si
avviava verso il letto posizionato vicino alla finestra.
«Certo».
Sai si
alzò, raggiungendola.
Silenziosamente, osservò quello che ormai era solo il mero
involucro del suo compagno: immobile, statico nel suo aspetto calmo e
sereno, le palpebre abbassate come se stesse dormendo, i fili delle
flebo sul dorso della mano sinistra, le macchine che monitoravano il
suo battito cardiaco e gli consentivano di respirare, i graffi e le
ferite sul corpo.
Era così da
tre giorni, oramai. Cominciava a pensare che non si sarebbe
più risvegliato.
Durante lo scontro con
Danzo aveva
voluto combattere per forza, sebbene le ferite che si era procurato
combattendo contro Pain e Nagato non si fossero ancora rimarginate;
così, era sceso in campo, sprezzante del pericolo che stava
correndo. Senza nemmeno rendersene conto, abituato a fare affidamento
sul chakra del Kyuubi, una fonte pressoché inesauribile di
energia, aveva superato il suo limite. Non era a conoscenza delle
regole: un colpo al di sopra delle tue forze e potevi morire
– o
restare completamente paralizzato. Al terzo rasengan, aveva ceduto, era
svenuto e, da allora, era rimasto su quel letto, come morto.
Sakura si occupava di
lui come di
nessun altro, mettendo nella sua opera tutto il suo affetto; sapeva che
le sue condizioni erano gravissime, ma continuava a sorridere, come se
andasse tutto bene.
Andrà
tutto bene, deve andare
tutto bene.
Altrimenti,
che senso avrebbe avuto questa guerra?
Ora
c’è la pace, no?
Dobbiamo
essere felici.
Lentamente, la
aiutò a cambiare i bendaggi, disinfettare le ferite e, con
un panno, a rinfrescargli un po’ il viso.
Sakura, alle volte,
rimaneva seduta
al suo fianco, dicendogli qualcosa di tanto in tanto, sperando che
sentire qualcuno vicino l’avrebbe aiutato a risvegliarsi. Gli
raccontava di quello che avrebbero potuto fare – lei, Sasuke
e
Naruto, e anche Sai se voleva – una volta che si sarebbe
risvegliato; i posti che avrebbero potuto vedere, tutto il ramen che
avrebbero potuto mangiare.
Era il suo sogno:
vivere con le persone che amava.
La pace era
necessaria, una
premessa per vivere con loro; pensava. Quante persone sarebbero morte?
Sapeva che sarebbero state tante, ma era convinta che loro avrebbero
superato tutto insieme, sarebbero sopravvissuti alla morte e iniziato
una nuova vita.
Poi, la guerra era
arrivata sul
serio. Le persone morivano come insetti, non importava se fossero
ricchi, poveri, forti o deboli; semplicemente, morivano, senza nessuna
distinzione. Forse era questo l’unico lato positivo della
guerra:
gli uomini erano tutti uguali. Ma si sarebbe stancata presto di
pensarlo. Dopo poco tempo, iniziò a odiare la guerra con
tutta
se stessa, attendendo solo la sua fine.
Non c’era
niente di buono in
essa, no. Aveva distrutto tutto: le vite delle persone, i legami, le
città, i sogni. Non rimaneva più niente, se non
una
manciata di macerie e terra bruciata.
Sai uscì e
chiuse la porta, lasciando Sakura sola a finire di accudire Naruto.
Salì le
scale che
conducevano al primo piano, dove si trovava la maggior parte delle
stanze che erano riusciti a ristrutturare. Lui era in camera con altri
tre uomini che non aveva mai visto; avevano perso tutti chi la moglie,
chi un figlio, chi l’intera famiglia, e si erano ritrovati da
soli.
Lui non aveva nessun
familiare, e
non poteva capire quello che stavano provando. Ma, ne era sicuro, se
Sakura o Naruto fossero morti, avrebbe dovuto provare dolore.
Era quello che si
sentiva quando qualcuno a cui tenevi periva, vero?
Si distese sul letto,
spossato e stanco, e si addormentò quasi subito.
«Tu!»,
aveva tuonato Danzo dall’entrata, indicandolo.
«Hai
tempo fino a questa sera per tornare alla Radice».
Erano le
cinque e al
tramonto mancavano pressappoco due ore.
Sai era seduto su uno
dei letti di
fortuna che avevano costruito. Con sguardo spento, osservava un punto
del pavimento, senza vedere davvero.
Avrebbe dovuto
dimenticare tutto e lasciare quel posto, lo sapeva.
Era sempre stata solo
una missione, era naturale che un giorno sarebbe dovuta finire.
Eppure, sapeva che
‘Sai’ non voleva abbandonare i suoi compagni di
squadra.
Danzo
l’aveva richiamato alla
Radice per farlo combattere contro di loro. Quelli erano i suoi piani
fin dall’inizio: uccidere l’Hokage, ridurre la
popolazione
alla fame e poi procedere con il colpo di stato.
Ma Danzo sapeva bene
che i pochi
sopravvissuti non l’avrebbero mai accettato come Hokage, e
gli
alleati di Suna non avrebbero permesso che si svolgesse un colpo di
stato sotto i loro occhi. Quindi, molto probabilmente, le sue
intenzioni erano: annientare i pochi superstiti e gli alleati che erano
accorsi sul campo.
Poi, come gli aveva
sempre detto,
si sarebbe seduto sulla poltrona dell’Hokage e avrebbe
ammirato
la totale devastazione. Sai si chiedeva, però, che senso
avrebbe
avuto governare un pugno di ninja a lui devoti in un paese che non
esisteva più.
Il sogno di
quell’uomo era folle.
Ma Sai era un suo
soldato e ai comandanti bisognava obbedire, così gli avevano
insegnato.
Se avesse potuto,
sarebbe rimasto lì, con loro. Se.
Il suo sguardo si
posò sullo
zaino già pronto che giaceva in un angolo della stanza e
sugli
strumenti da disegno che aveva lasciato su una specie di piccolo
comodino.
Chiuse gli occhi e
inspirò profondamente.
Allora, la porta si
aprì, e
Sakura fece il suo ingresso, il volto turbato. Sai la salutò
con
un gesto della mano e sorrise. Lei non ricambiò.
«Finiscila
di fingere e
spiegami cosa diavolo sta succedendo», disse, con un tono che
non
ammetteva repliche. Sai sospirò: non poteva rispondere.
«La mia
missione con voi
è finita, devo tornare alla Radice».
Capì subito
che la sua risposta non sarebbe servita ad alleviare i sospetti di
Sakura, ma la prima regola della Radice era non divulgare informazioni
su di essa e qualunque cosa la riguardasse.
«Questo
l’avevo capito
– incominciò lei, prendendo un’ampia
boccata
d’aria –, ma che intenzioni ha Danzo?
Perché ti ha
richiamato?». Si guardarono per qualche istante: Sai era
indeciso
su come rispondere, mentre la rabbia cominciava a inondare veloce il
volto di Sakura.
«Non lo
so». Sakura fece alcuni passi verso di lui, i pugni stretti
lungo i fianchi; ormai gli era davanti.
«Non dire
cretinate,
Sai!», lo afferrò per la maglietta, furiosa. Sai
rimase
immobile, lo sguardo vacuo.
«Vuole
ucciderci?»,
la voce di Sakura si incrinò e si fece poco più
che
sussurrata; gli occhi leggermente lucidi. «Noi dobbiamo
vivere
e poi potremo iniziare una nuova vita… lo sai…
io…», continuò, la voce flebile e
fragile, come se
stesse confessando un segreto.
Un silenzio glaciale
si impadronì della stanza.
«Almeno ora,
rispondimi!
Vuole ucciderci? Parla!». Sai espirò profondamente
e
socchiuse gli occhi per un attimo, prima di rispondere. Dopotutto, lui
non aveva svelato niente, Sakura ci era arrivata da sola.
«Sì»,
la
guardò sussultare, mentre una lacrima scendeva solitaria
lungo
il suo volto. Poi distolse lo sguardo, che andò a posarsi di
nuovo sullo zaino.
«Perché…?», il piccolo
sussurro si disperse nell’aria, senza una risposta. Il
silenzio
la fece da padrone per qualche istante.
Delicatamente, si
liberò
dalla sua presa, oramai senza forza, e si alzò.
«Devo
andare ora». Sakura non lo guardò, a testa bassa,
si fece
da parte.
Sai prese lo zaino e
si
avviò verso la porta; la aprì. «Cosa
proverai
quando massacrerai i tuoi compagni, Sai?», la domanda era
stata
posta con odio, disprezzo. Sai non si voltò e
uscì, in
silenzio.
Il pomeriggio era scivolato
via
sereno e ora che la sera scendeva lenta con la sua invocata
tranquillità, la piccola comunità cominciava ad
organizzarsi per la cena. Avevano deciso, dopo un’accesa
discussione, che quella sera si sarebbe mangiato riso bollito e della
selvaggina catturata nel pomeriggio. Niente di speciale, ma, in quella
situazione, un vero banchetto.
Sakura stava
cominciando ad
apprezzare il momento della cena più di quanto si rendesse
conto: le piaceva il clima di condivisione e allegria che si creava.
Ora camminava nella
foresta, alla
ricerca di Sasuke, che era andato ad allenarsi da qualche parte
–
a quanto aveva detto – e non si era più visto.
Sakura non
voleva che si perdesse il pasto.
Camminò
ancora per qualche
minuto e, accortasi di essere vicina alla radura in cui si trovava la
lapide dedicata agli eroi di Konoha, decise di farci un salto, prima di
continuare la ricerca. Si fece spazio tra i rami degli arbusti e stava
per entrare nella radura, quando si accorse di un’altra
figura
che era in piedi davanti alla lapide. E, prima che potesse capire
esattamente cosa Sasuke stesse facendo lì, lui rese noto di
essersi accorto della sua presenza.
«Cosa
c’è,
Sakura?», le chiese, senza nemmeno voltarsi per appurare che
lì ci fosse davvero lei, continuando a fissare la
lapide,
lo sguardo impenetrabile.
«Bé…
ci stiamo
organizzando per cena giù, volevo-»,
cominciò.
«D’accordo. Tra poco vengo», la
interruppe lui.
Sakura, da parte sua,
si aspettava una risposta del genere, anche se avrebbe voluto che
tornasse con lei. Pazienza.
«Ok».
Si voltò e tornò dagli altri velocemente.
Quando
arrivò, il pasto era
già pronto; era arrivata proprio poco prima che tutti si
mettessero a tavola. Bè, tutti a parte Choji, che era
già
intento a divorare tutto quello che gli capitava davanti, sotto lo
sguardo sconcertato di alcuni.
Trovò
Temari in cucina, intenta a fare le porzioni di riso.
«Oi, posso
darti una mano?», chiese.
«Oh,
sì. Ci sono le altre scodelle lì», le
rispose, riconcentrandosi subito sul suo compito.
Sakura prese le
scodelle e si accostò a Temari.
«Quel
vassoio per chi
è?», disse, notando un vassoio con due piatti di
riso e
due porzioni di carne che era alla destra di Temari.
«È
per
quell’idiota di Shikamaru e suo padre –
cominciò
–; certo, eh, tale padre tale figlio! Non accennano a
staccarsi
da quel cavolo di letto. Oggi ho avuto seriamente l’impulso
di
buttarli giù a calci», finì, con un
tono che poteva
essere considerato serio. Sakura scoppiò a ridere. Magari un
giorno l’avrebbe fatto davvero.
Temari si finse offesa
e
continuò. «Ehi, non c’è
niente da ridere!
È davvero stressante, credimi!», e
cominciò a
ridere anche lei per rendere più vero quel fittizio scambio
di
battute felici e spensierate, mentre prendeva il vassoio e si avviava
verso le scale.
La porta della loro
stanza era
socchiusa come l’aveva lasciata. Entrò piano e si
crogiolò per un momento nel silenzio assoluto che regnava
nella
camera, appoggiando la cena su un piccolo comodino che c’era
fra
i due letti. Guardò Shikaku, che dormendo le dava le spalle,
e
sospirò: non voleva svegliarli.
«Di nuovo
qui?».
«Non stavi
dormendo?»,
chiese di rimando al ragazzo che ora la guardava, visibilmente
assonnato. Lui si coprì gli occhi con un braccio.
«No. Ogni
volta che chiudo gli occhi vedo mia madre».
«Ho portato
la cena»,
disse lei, cambiando discorso. Le faceva male vedere il suo volto
contratto in quell’espressione che le ricordava troppo quella
di
Kankuro e il fatto che aveva dovuto lasciarlo a Suna, ferito in modo
serio nel corpo e nella mente, per seguire i suoi doveri di
neo-Kazekage. Shikamaru guardò per un attimo il vassoio, per
poi
rivolgere lo sguardo al soffitto. Poteva dire di aver imparato a
memoria ogni singola crepa, ormai.
«Non ho
fame. Voglio solo dormire, sono stanco».
«Devi pur
mangiare qualcosa, avanti». Lui la osservò per un
attimo, annoiato e vagamente infastidito.
«Lasciami in
pace, Temari».
‘Lasciami
in pace, Temari! Non lo capisci? È morto! Mor-to!
È colpa
mia… è solo colpa mia’.
Le parole di Kankuro le si
conficcarono in testa come degli aghi. Lo sapeva che Gaara era morto,
sapeva cosa voleva dire perdere una madre. Sapeva che era necessario
andare avanti, e che tormentarsi, come faceva Kankuro, rimuginando su
imprese impossibili che avrebbero potuto salvare i propri cari era inutile. Sapeva che
faceva tremendamente male, questo più di ogni altra cosa.
Indurì lo
sguardo,
mascherando ogni emozione che potesse fuoriuscirne; si chiuse in se
stessa per un attimo e strinse i pugni.
«So
benissimo che stai male. Lo
so
come ci si sente quando tua madre viene uccisa e tu non hai potuto fare
niente perché eri troppo piccola e insignificante, quanto
soffri
a vedere tuo fratello sacrificarsi per il Paese che ama più
di
ogni altra cosa e morire,
mentre un altro
fratello muore dentro
per colpa del rimorso», si fermò per un attimo,
soppesando
quello che aveva appena detto, con voce bassa ma ferma, piena di
sottile rancore e altre cose che in quel momento non aveva voglia di
identificare.
«La guerra comporta vittime.
Chi sopravvive va avanti».
Shikamaru la
guardò per un
attimo, vagamente sorpreso e cosciente di essere stato colpito nel
punto giusto. Rimase immobile per una manciata di secondi, poi
sbuffò e fece un mezzo ghigno.
«Che fai,
ricicli battute, Mendekouse?».
Temari
ghignò a sua volta,
sapendo che quello era il suo modo di ringraziarla e farle capire che
aveva afferrato il concetto; ancora leggermente seccata dal
comportamento dell’altro.
«Tu ricicli
errori, cry-baby, siamo pari».
«Mancano i
fazzoletti», disse lui, indicando il vassoio. Temari si
accorse che era vero, se li era dimenticati.
«Che
c’è, vuoi
che esca così puoi piagnucolare in pace?», chiese
acida.
Shikamaru la guardò malissimo, come ad affermare che lui, un
uomo forte e coraggioso, non potesse piangere. Come no.
Temari
sbuffò e si diresse verso la porta.
«D’accordo,
d’accordo, vado. Buon pianto!».
La serata
passò tranquilla,
cadenzata dalle risate causate da Kiba e Rock Lee, che facevano a gara
a chi riuscisse a interpretare quello che Choji
‘diceva’
mentre mangiava.
***
Era immerso in
un’oscurità liquida e densa, si sentiva affondare
sempre
di più. Tuttavia non provava dolore, non sentiva proprio
niente,
ora che ci pensava bene.
Ogni tanto, un ricordo
bussava alla
porta del suo cervello intorpidito, facendoglielo rivivere come un
sogno. Alcune volte pensava di sognare sul serio ciò che
vedeva;
altre gli sembrava addirittura di sentire delle voci ovattate e
distorte, ma non capiva quello che dicevano.
Non ricordava chi era,
non ne
sentiva nemmeno il bisogno. Voleva solamente affogare in quelle calde e
soffocanti tenebre; anche se così sarebbe… cosa?
Un dolore lancinante
al petto. Aprì gli occhi.
Quel
giorno il cielo era coperto da una spessa coltre di nubi, che non
permetteva ai raggi del sole di penetrarvi e far evaporare la
schiacciante umidità, che rendeva l’aria
appiccicosa e
stagnante.
Camminavano
da quelle
che
sembravano ore, attraversando quella che una volta era la loro
città, alla ricerca di corpi rimasti sotto le macerie, o di
qualcosa che poteva tornare utile. Si erano divisi in gruppi per
eseguire l’operazione il più velocemente
possibile, ma non
in modo meno doloroso.
Shikamaru
era di
qualche passo
più indietro degli altri, il suo cammino reso più
difficile dalle stampelle e dalle macerie che gliene rendevano arduo
l’uso. Sua madre l’avevano trovata un numero non
specificato di ore prima, sotto le macerie del negozio della famiglia
di Ino, insieme alla madre di Choji e della sua stessa amica. Suo padre
non aveva retto alla raccapricciante vista ed era dovuto tornare
all’ospedale; lui invece era rimasto, vuoto e incredibilmente
stanco.
Non
aveva potuto fare
niente.
Si
ritrovarono davanti
all’ennesimo cumulo di calcinacci; resti di quella che una
volta
era la prestigiosa Accademia di Konoha. Quella scuola incarnava il
sogno del suo maestro e di suo padre; era un simbolo per ricordare loro
ogni giorno per cosa vivevano e combattevano: mantenere vivo e pulsante
il cuore di Konoha. Un giorno, anche lui avrebbe voluto seguire le loro
orme.
E
ora?
Ora
quel cuore era
stato strappato via, vivo e pulsante, gettato nella polvere e
calpestato.
Davvero,
non
c’era più niente per cui lottare.
‘Scaccomatto’.
You choke
a scream
crushing
a dream
made
the scheme real
Sakura si svegliò
di soprassalto, ansimante e madida di sudore, dall’orribile
incubo che stava avendo.
Se il giorno sorrideva
ed era
sempre pronta a distribuire speranza come niente, di notte tutte le sue
paure, i rimpianti, il dolore prendevano corpo e la tormentavano, sotto
forma di incubi, facendole vedere tutti i peggiori scenari che potevano
verificarsi. In quei momenti le mancava qualcuno a cui aggrapparsi, era
sempre e completamente sola tra le sue ansie più cupe. Non
era
raro vedere vividamente il corpo di Naruto, coperto di sangue e freddo,
che si arrendeva al destino come non aveva mai fatto, rinunciando al
suo sogno; e nemmeno sentire la pressante assenza di Sasuke, troppo
ossessionato dal suo sogno di vendetta per vivere davvero; oppure
vedere Sai uccidere i suoi compagni di Konoha senza provare niente,
perché il suo unico obiettivo era completare la missione.
Poteva
scorgersi mentre, piangendo, posava dei fiori sulla tomba del maestro
Kakashi e su quelle dei suoi genitori.
Ma lei aveva un sogno,
e cosa
c’era di più bello? Eppure non sognava mai di
rimproverare
Naruto per l’ennesima idiozia e non vedeva Sai e Sasuke
sorridere
leggermente ai loro quotidiani battibecchi, Ino sgridare Choji per la
sua ingordigia, i suoi genitori sereni. Mai da quando tutto questo era
iniziato aveva sognato davvero o c’era stato il sole in lei;
solo
un cielo cupo e senza speranza.
Scacciò via
quei pensieri e
si alzò, preparandosi, sia fisicamente che mentalmente, ad
affrontare la nuova giornata.
Dopo una colazione
frugale,
passò a prendere il necessario ai medicamenti di Naruto, e
poi
salì nella sua camera. Aprì piano la porta e,
quando si
ritrovò osservata da due occhi cerulei, quello che teneva
fra le
braccia le cadde miseramente.
«Naruto!»,
esclamò, incredula. Sentiva già le lacrime
scendere calde
sul suo viso, ma non se ne curò. Corse verso il capezzale
del
suo compagno e gli si gettò praticamente sopra,
singhiozzando.
Naruto, dal canto suo,
era
relativamente sveglio da poco e piuttosto rintronato. Non sapeva
dov’era né perché. Aveva provato a
muoversi, ma non
sentiva altro che un fastidioso formicolio ovunque. Magari erano i
farmaci, pensava.
La vista di Sakura
l’aveva
rassicurato, come sempre. Avrebbe voluto tranquillizzarla con qualche
carezza, una pacca sulla spalla, ma non riusciva a muoversi, se ci
provava sentiva solo più forte il formicolio.
«Cretino,
pensavo che non ti
saresti più risvegliato! Ma come cavolo ti è
saltato in
mente di… di… razza
d’idiota!». Sakura non si
rese conto di stare dando dei piccoli pugni sul petto
dell’amico,
come una bambina, finché non alzò lo sguardo,
incrociando
quello vagamente divertito e confuso di lui. Si mise subito a sedere e
si asciugò le lacrime, mormorando un
‘idiota’
sottovoce.
«Sakura…
cos’è successo? Io ricordo di stare
combattendo… poi più niente».
L’interrogata
rimase
silenziosa per un attimo, raccogliendo le idee. Poi gli
spiegò
tutto: perché era svenuto, Sai che gli aveva salvato la
vita, la
breve convalescenza, infarcendo il tutto con insulti e rimproveri
più o meno coloriti qua e là.
«Quindi il
formicolio che
sento e il non riuscire a muovermi sono dovuti al fatto che ho superato
il limite?», chiese quando lei ebbe finito.
«Sì».
«Ed
è… permanente?». Eccola là,
l’unica domanda a cui Sakura non voleva rispondere.
«Non ti
preoccupare, andrà
tutto bene»,
rispose lei. Ma il sorriso era troppo tirato, gli occhi chiusi con
troppa enfasi, il volto troppo contratto, perché Naruto
potesse
credere a quelle parole. Tuttavia, sorrise debolmente; non voleva farla
preoccupare più di quanto non stesse facendo.
«Bene!».
Passò un
minuto di silenzio tra i due, prima che Sakura si alzasse a raccogliere
le cose che prima le erano cadute.
«Ora ti
cambio le fasciature», affermò. Naruto
annuì appena.
«Sasuke
dov’è?», chiese all’improvviso
lui, mentre
Sakura cominciava ad adempiere il suo compito.
«Non
l’ho ancora visto
oggi, probabilmente ad allenarsi da qualche parte», rispose
lei,
senza interrompere il suo lavoro. Naruto guardò il soffitto,
assente.
«Bene, ho
finito!»,
proruppe lei, dopo un po’, sorridendo, mentre si girava per
andarsi a sciacquare le mani nella bacinella sul tavolino.
«Ora vado a
riferire la bella
notizia agli altri, vedrai che ti verranno a trovare! E più
tardi ti porto il pranzo», affermò poi,
rivolgendosi di
nuovo a Naruto, che sorrise.
Quindi Sakura raccolse
le bende da buttare e si diresse verso la porta.
«Grazie,
Sakura»,
uscì e chiuse piano la porta; poi corse velocemente nella
sua
stanza, presa da un’improvvisa nausea.
Avrebbero celebrato un
funerale per
tutte le vittime, quella mattina, ma non gliel’aveva detto,
non
ce l’aveva fatta. La paralisi di Naruto era permanente, ma
non
gli aveva detto nemmeno questo. E dire che odiava la gente vigliacca e
bugiarda.
Si sentiva disgustosa.
Let's
celebrate the modern end
Let
the world begin again
Celebrate
the Renaissance man
Il sole picchiava forte in
quel
momento, i suoi raggi incapaci di sciogliere il gelo nei cuori e un
vento troppo leggero per spazzare via l’odore di sangue
rappreso
e morte e lacrime che stagnava nella piana aleggiava quieto.
Li avevano seppelliti
nella stessa
pianura dove Pain aveva perso la vita, perché era
l’unico
luogo abbastanza grande da contenere tutti i corpi e non
c’erano
macerie; avevano messo vicine le famiglie e gli amici, cercando di
mantenere intatti quei legami anche nella morte. Il silenzio regnava
sovrano, interrotto ogni tanto da qualche singhiozzo troppo forte.
Sakura poteva vedere quasi tutti i sopravvissuti presenti chinati sulle
tombe dei propri cari a vuotarsi di tutte le lacrime e di tutto il
dolore, per poi incominciare a sperare nell’inizio di una
nuova
vita.
Si asciugò
invano il viso
per l’ennesima volta, volgendo il suo sguardo a Sai. Lui non
piangeva. Se ne stava in piedi, le braccia lungo i fianchi, da una
parte, distaccato dagli altri e dal loro dolore, il volto atono, vuoto.
Perché non
piangeva?
Distolse lo sguardo da
lui quasi
immediatamente, presa da un’improvvisa rabbia. Nessuna di
quelle
persone significava niente per lui? C’era qualcuno per cui
avrebbe pianto?
I sentimenti che
giorni prima
l’avevano attanagliata quando lui se n’era andato
cominciarono a riaffiorare violenti, inondandola, e non
riuscì a
fermarli.
«Perché
non piangi per
i caduti?», glielo chiese senza nemmeno pensarci, gli occhi
fissi
sul mucchio di terra davanti a lei, rifiutandosi di guardare
l’espressione spaesata che sicuramente c’era sul
volto
dell’altro. Non provava niente?
«Io…
non li conoscevo», rispose Sai dopo qualche istante, un
po’ riluttante.
Intanto le persone
cominciavano ad
andare via, sembravano tutte terribilmente stremate. Alcuni
cominciavano a pensare dove avrebbero potuto ricominciare a vivere,
magari in un altro villaggio, altri non volevano staccarsi dal passato;
come un bambino, che Sakura avrebbe potuto vedere, se solo avesse
alzato lo sguardo, che non voleva abbandonare la tomba del padre,
mentre sua madre, distrutta, cercava di portarlo via.
Ma Sakura era troppo
impegnata a cercare di controllarsi, che fare troppo caso a quello che
accadeva intorno a lei.
Non
li conosceva.
Come ‘non li
conosceva’? E, anche se fosse, non erano suoi compagni?
Persone del suo stesso villaggio
per le quali valeva sacrificare la propria vita?
Sai guardava la
ragazza mentre lei
stringeva inconsciamente i pugni, chiedendosi se avesse detto qualcosa
di sbagliato. Ancora non era riuscito a capire bene quando le sue
parole erano fuori luogo, errate, cattive e quando invece servivano a
consolare, rassicurare oppure se erano dolci o gentili. In ogni caso,
non voleva ferire Sakura e sapeva che se si faceva qualcosa di
sbagliato bisognava chiedere scusa in modo molto gentile, soprattutto
se la persona era irascibile e assurdamente imprevedibile come Sakura.
Forse non avrebbe
dovuto dire che non li conosceva. Ma era vero, perché non
essere sincero?
«Non erano
tuoi compagni,
Sai? Ino Yamanaka, Kakashi Hatake, Shino Aburame, Hinata Hyuga, Gai
Maito, Neji Hyuga, TenTen… non erano tuoi compagni? Non li conoscevi?»,
la voce di Sakura si faceva via via più alta e impregnata
d’odio e dolore mentre pronunciava quei nomi di persone che
non
avrebbe più visto, se non in una vecchia foto.
Sai restò
immobile, mentre
la sua mente annaspava in cerca di una risposta sincera –
perché non gli piaceva mentire – che allo stesso
tempo non
avrebbe fatto infuriare l’amica ancora di più.
Lui considerava compagni Naruto e
Sakura, sapeva di provare per loro un sentimento che i più
chiamavano amicizia,
quindi un compagno
era un amico;
ma non si sentiva legato allo stesso modo con quelle persone che magari
aveva visto solo un paio di volte e con cui non aveva nemmeno mai
parlato veramente, di cui a malapena ricordava i volti. Era sbagliato?
C’era qualcosa che non andava in lui se non sentiva niente
per
loro?
Non sapeva come
rispondere, certo che, qualunque risposta avesse dato, non sarebbe
riuscito a calmare Sakura.
Lei, nel frattempo,
era tornata a
guardarlo, pronta a scorgere ogni più piccola crepa sulla
maschera che, sapeva, Sai portava. Ma non c’era niente di
quello
che voleva vedere: dolore, rimorso, andava bene anche solo dispiacere;
invece non c’era niente di tutto questo. In compenso sembrava
pensieroso, e Sakura si chiese se gli ci volesse una qualche sorta di
concentrazione per provare dolore. Era una semplice macchina che faceva
quello che gli veniva ordinato e che ora tentava di provare un
benché minimo quanto falso dolore?
Poi, Sakura finalmente
capì
che la risposta era che no, non li considerava suoi compagni, magari
nemmeno ricordava chi erano, e si chiese se lo stesso valeva per lei e
Naruto: contavano qualcosa per Sai o erano semplicemente come
dell’inchiostro su uno dei suoi disegni? Anonimo,
insignificante?
Si alzò un
piedi lentamente, finalmente rivolgendo il suo sguardo al ragazzo, che
si maledisse, certo di aver sbagliato di nuovo. Non
c’era un modo per capire, prima di sbagliare, come si doveva
agire?
La ragazza
abbassò la testa, improvvisamente interessata alla terra
vagamente smossa.
«Non siamo
niente per te,
vero?», disse sussurrando, tanto che Sai dovette fare qualche
passo in avanti, avvicinandosi a lei, per sentire. Avrebbe voluto
ribattere, ma la ragazza non gliene diede il tempo.
«A Ino
piacevi, sai? –
continuò, mentre il viso le si bagnava di nuovo ricordando i
suoi amici – Diceva che eri strano e ‘assurdamente
carino’,
come ti definiva, però ti trovava simpatico, soprattutto
quando
te ne uscivi con qualche stupidaggine… il maestro diceva che
promettevi bene, era contento di averti nella sua squadra…
tutti
gli altri ti avevano accettato di buon grado… ma tu, tu non
provi niente?», le ultime parole erano accusatorie,
risentite, e
Sai non potè fare a meno di maledirsi di nuovo, mentre
cercava
di ricordare le persone nominate da Sakura e afferrare i ricordi che le
riguardavano.
«Non lo
sapevo…», riuscì a dire.
«No che non
lo sapevi! Di noi non te ne importa niente! Niente!»,
controbatté lei, guardandolo nuovamente.
Sai rimase un attimo
spiazzato: non era vero. Fece un paio di passi in avanti, allungando un
braccio per raggiungerla.
«Non
è vero, Sak-», provò a dire, ma lei gli
schiaffeggiò via la mano con forza.
«Non mi
toccare! E non
mentirmi! Avanti, dillo che di noi non te n’è mai
importato niente, che sei solo…», che sei solo una spia di Danzo,
che ci hai ingannati tutti con la tua recita.
Non poteva finire la frase, non in presenza di altre persone,
perché era certa che se lo avessero saputo per Sai non ci
sarebbe stata alcuna speranza di vivere. E no, non stava scherzando.
Il ragazzo le
sembrò quasi
offeso, ritrasse il braccio quasi con stizza, non l’aveva mai
visto così, e in fondo si dispiacque per quello che stava
per
dirgli, ma non abbastanza. Si sentiva in colpa e furiosa come non mai
allo stesso tempo, non sapeva che fare.
Sakura
esitò per un momento, prima di rendersi conto che non sapeva
davvero che cosa
fosse Sai. Una macchina? Una vittima?
«Sei
solo… solo… – ripeté,
incerta – si può sapere cosa diavolo sei?
Prima-», non finì la frase, perché Sai
la interruppe.
«Sono
Sai».
Si sentiva ferito.
Non aveva mai provato quel sentimento, ma ora che Sakura continuava a
ribadire che lui non provasse niente nemmeno per lei e Naruto si era
sentito in qualche modo tradito, incompreso, perché era
certo
che Sakura avesse capito quanto significassero per lui; invece sembrava
di no.
«E cos’è
‘Sai’?»,
insistette Sakura, la voce aspra, sapendo di colpire a fondo. Si
sentiva male per quello che stava dicendo, eppure non riusciva a
fermarsi; sentiva di dovere sfogarsi, esternare tutta la frustrazione
che da troppo dimorava in lei. Perché proprio in quel
momento,
proprio con Sai, non lo sapeva.
«Non lo
so», rispose lui, glaciale e ferito.
Perché non capiva?
Sakura gli rivolse un
ultimo
sguardo, prima di correre via, urtando leggermente Temari, che stava
venendo proprio in quel momento per vedere se c’era qualcosa
che
non andava. Evidentemente era arrivata troppo tardi.
Sai guardò
il cielo, perso nei suoi pensieri.
Chi era lui?
‘Sai’ era
un nome falso, che serviva solo per la durata della missione; non aveva
un passato e non ne aveva mai voluto uno, non aveva sogni né
obiettivi che non fossero completare la missione e tornare vivo alla
Radice. Ma ora la Radice non esisteva più, e lui era
soltanto un
foglio vuoto in attesa che qualcuno vi scrivesse sopra qualcosa, qualunque cosa.
Quindi, lui chi era?
Non era nessuno,
perché aveva cominciato, in qualche modo, a cambiare, ma non
era nemmeno una persona,
perché non era vivo abbastanza.
Chi
era?
C’era stata
una piccola processione in camera sua, quel pomeriggio.
Si erano presentati
tutti i suoi
amici; sembravano essere reduci da una lunga giornata di intenso
lavoro, ma cercavano di non darlo a vedere, mantenendo un fastidioso
sorriso di circostanza. A lui non dissero niente di tutto quello che
era successo nei giorni precedenti, se non lo stretto necessario quando
lui si faceva insistente con le domande; tuttavia si premurarono di
augurargli ‘una pronta guarigione’ in tutti i modi
possibili.
Guarigione.
Più Naruto
ci pensava,
più si convinceva che Sakura gli aveva mentito e, in
realtà, per lui, non c’era alcuna speranza.
Ma era davvero vita
quella che
l’attendeva? L’eterna permanenza in un letto,
impotente e
incapace di fermare la vita che inesorabilmente l’avrebbe
lasciato indietro, come i suoi compagni?
Qualcosa in lui
s’incrinò, mentre rifletteva.
Girò la
testa quel tanto che
bastava per guardare il cielo cominciare ad imbrunire, oltre i vetri
della finestra; sorrise amaramente.
«Pare che io
abbia un sogno irrealizzabile…».
Non era andato al
funerale, le
lacrime le aveva già versate per chi doveva. Era di nuovo
lì, in quella radura, dove la lapide riluceva degli ultimi
raggi
di luce, la pietra tinta di riflessi caldi e rassicuranti. In certi
momenti aveva l’impulso di farla a pezzi, gettando sui nomi
incisi sulla pietra la colpa di quello che gli era successo, in altri
la guardava quasi con rispetto, ricordando le gesta che erano insignite
lì dentro.
Si sentiva stranamente
leggero, ma
non in senso di felice,
come invece sarebbe dovuto essere, dato che aveva realizzato il suo
sogno. In compenso era vuoto,
senz’anima e senza uno scopo.
Un sogno era un
qualcosa di opaco, sfuggente.
C’era e non
c’era e,
quando pensavi di averlo finalmente afferrato, quello ti scivolava
dalle mani, lasciandoti freddamente vuoto.
E Sasuke questo
l’aveva
imparato a sue spese, accecato dal desiderio di Vendetta: quando aveva
ucciso Itachi, per un attimo aveva assaporato la pura
felicità,
il compimento di un sogno portato avanti da una vita, per poi
sprofondare nei più cupi meandri del rimorso;
perché tutto
quello che aveva fatto non era servito a niente, aveva addirittura
peggiorato la situazione, e aveva sbagliato tutto.
Poi, però, era arrivato Madara e gli aveva ridato la vita
con le
sue informazioni; ma, soprattutto, aveva di nuovo qualcuno da vendicare
ed espiare così il senso di colpa che lo attanagliava. Non
chiedeva di meglio.
E ora era di nuovo
vuoto e, per
giunta, solo. Si sentiva assurdamente inutile e fuori luogo, sebbene
avesse accolto di buon grado le intenzioni di Sakura e Naruto di
integrarlo di nuovo in quello che rimaneva del villaggio. Gli avevano
offerto una nuova luce, e lui aveva seriamente provato a seguirla, con
tutto se stesso; ma non era abbagliante e invitante come quella rossa
come il sangue della Vendetta, che si era ormai spenta per sempre.
Lui era un Vendicatore
e, appunto, se non aveva nessuno da vendicare la sua esistenza era
totalmente inutile.
«Quale sogno
inseguire, ora, Itachi…?».
One last
perfect verse
It's
still the same old song
Oh
Christ, how I hate what I have become
***
For my
dreams I hold my life
for
wishes I behold my nights
a
truth at the end of time
losing
faith makes a crime
Quando Sakura si
alzò dal
letto, la mattina dopo, si sentiva già orribilmente stanca.
Non
aveva chiuso occhio, rimuginando su quello che aveva detto, fatto,
pensato il giorno prima, disgustandosi del comportamento che stava
avendo, e allo stesso tempo giustificandolo.
Aveva troppa paura di
chiudere gli
occhi, temendo i tremendi sogni che sicuramente
l’attendevano,
intrisi di rimorso e rancore malcelato, di una miscela di sentimenti
che non voleva affrontare.
Sbuffando
osservò le
occhiaie che si potevano scorgere appena sotto i suoi occhi, e, senza
nemmeno fare colazione, si avviò verso la camera di Naruto.
Aveva notato, il
giorno prima, che
non riusciva a restare sveglio a lungo, e spesso si addormentava senza
nemmeno accorgersene, o restava in una specie di perenne dormi-veglia;
sperava che con l’andare dei giorni sarebbe migliorato.
Sperare, sperare, non
faceva altro; ma niente di quello che desiderava diventava
realtà, ma non poteva
perdere la speranza, o sarebbe stata davvero la fine. Alcune volte,
però, non poteva fare altro che maledire se stessa e la
speranza
che tanto la illudeva.
Arrivata alla stanza
di Naruto fece
un bel respiro e poggiò la mano sul pomello per aprire la
porta,
ma sentì delle voci provenire dall’interno.
Accostò
l’orecchio alla porta e per un attimo le parve di sentire
Naruto
e Sasuke parlare, ma si accorse che c’era Sai con Naruto.
Non voleva vederlo.
Sentiva che doveva
chiedergli
scusa, ma una parte di lei, orgogliosa e rancorosa, non glielo
permetteva. Perché scusarsi? Quell’idiota non
faceva altro
che confonderla: prima tradiva Konoha, come se per lui non contasse
niente. Ma, durante lo scontro con Danzo, quando Naruto era collassato
e nessuno pareva riuscire ad arrivare in tempo per salvarlo da un ninja
della Radice che stava approfittando della situazione per finirlo,
correva in suo aiuto e lo salvava. Tuttavia, Sakura era sicura di
averlo visto ferire alcuni ninja di Konoha che poi non sarebbero
più guariti, ma non l’aveva detto a nessuno. Non
capiva:
da che parte stava?
Si
allontanò in fretta,
prima che Sai uscisse o si accorgessero della sua presenza, tuttavia
non poteva fare a meno di chiedersi cosa si stessero dicendo.
Decise che quando
sarebbe ripassata da Naruto, dopo colazione, gliel’avrebbe
chiesto e si diresse verso la cucina.
Sasuke aveva un brutto
taglio sulla
spalla sinistra, che richiedeva cure giornaliere a cui, anche se di
malavoglia, doveva prestarsi.
Di solito era Sakura a
cercarlo per
medicarlo, ma quel giorno, poco prima dell’ora di pranzo, era
stato lui a chiederle di farlo. Che strano.
Ora erano nella stanza
di lui, al
piano terra, che si trovava, se non ricordava male, pressappoco sotto
quella di Shikamaru e del padre.
La conversazione non
era molto
vivace: ogni tanto Sakura gli poneva qualche domanda – come
stava, dove si recava per allenarsi, se era andato a trovare Naruto
– e Sasuke rispondeva con un cenno della testa oppure con
delle
risposte brevi e concise. In questo non era cambiato, come in molte
altre cose. Sakura aveva notato con piacere che il suo comportamento
era pressoché lo stesso di quando era a Konoha, e questo non
poteva che renderla felice, perché almeno una cosa era come
la desiderava. Certo non poteva andare a pensare che le apparenze, troppo spesso,
ingannano. Oh, non ci avrebbe mai pensato!
Resurrection of a horrid dream
Blend of hate and
intense desire
Putrefy
Vile... surreal
D’un tratto, mentre
stava per
chiedere al ragazzo cosa avesse intenzione di fare quel pomeriggio,
sentì un tonfo provenire dalla stanza sopra di loro. Molto forte; poi
delle urla.
Guardò in
alto, preoccupata
e vagamente curiosa, quasi a voler provare a vedere quello che stava
accadendo attraverso il soffitto; anche Sasuke alzò il capo,
più infastidito che altro.
Finì di
rifare la fasciatura e raccolse le sue cose in fretta.
«Sasuke-kun,
corro a vedere
quello che è successo di sopra, magari hanno bisogno del mio
aiuto!», disse, mentre cominciava a dirigersi verso la porta.
«D’accordo»,
rispose l’altro, atono, mentre si ricopriva la spalla ferita
con il kimono.
«Sakura–»,
la chiamò, proprio quando lei stava aprendo la porta per
uscire.
«Sì?»,
chiese, sorridendo.
«Grazie»,
e non importava se il suo sguardo fosse più umano e la parola
più colma di
significati di quanto lui stesso avrebbe voluto quando lo
disse.
«Prego».
Salendo le scale, di
fretta, incontrò Choji che faceva la sua stessa strada, ma
in senso inverso, con calma.
«Choji! Ma
cos’è successo di sopra? Quel rumore di
prima…».
«Il solito,
niente di grave.
Non c’è da preoccuparsi», disse lui, e
per un attimo
le sembrò che sogghignasse. Alzò un sopracciglio:
niente
di grave?
Lo stomaco del ragazzo
brontolò rumorosamente e lui ci si passò una mano
sopra,
come a rassicurarlo. Brutta similitudine, decisamente. Rassicurare uno
stomaco…
«Scusa, ma
ho una fame da
lupi, vado a vedere se qualcosa è
pronto…».
C’era un momento in cui non avesse una fame da lupi?
Sakura sorrise
divertita.
«Ok».
Quando
arrivò in camera di
Shikamaru e aprì la porta, cercò quasi invano di
trattenersi dal ridere davanti alla situazione che si trovava davanti,
sembrava uscita da un libro comico: Shikamaru era per terra, che si
strofinava la nuca – probabilmente l’aveva battuta
–
con la gamba ingessata attorcigliata al lenzuolo e un po’
rialzata e urlava contro Temari.
Lei lo sovrastava,
minacciosa e un
po’ sporta in avanti con le mani sui fianchi, e gli gridava
contro di rimando; mentre Shikaku, sdraiato sull’altro letto,
se
la rideva tranquillamente.
«Tutto bene
qui?»,
chiese, la mano ancora sul pomello della porta. La sua espressione
tentava di essere, se non seria, almeno normale, ma senza successo.
Shikamaru e Temari si
girarono contemporaneamente verso di lei e la guardarono per un attimo,
silenti.
«No!
Quest’idiota–», risposero
all’unisono,
rigettandosi immediatamente in un’altra sessione
d’insulti.
«Prima le
donne!».
«Guarda che
tu di donna hai solo le sembianze!».
«Come se tu
fossi un uomo!».
«Ma io lo sono,
Mendekouse!».
«E io ho un
fottuto nome,
maledetto misogino-con-la-testa-ad-ananas!».
«Anche io,
dannato essere-che-tenta-di-assomigliare-ad-una-femmina!».
Sakura
sospirò profondamente e si riavviò i capelli,
totalmente ignorata.
«Posso
sapere
cos’è successo qui…?»,
chiese, quasi
esasperata, guardando speranzosa Shikaku. Questi si alzò,
sorridendo, e le si avvicinò – non si sarebbe
sentito
niente se fosse stato più lontano.
«Shikamaru
voleva dimostrare a Temari che sarebbe riuscito anche senza ‘l’aiuto di
una dannata donna’ a
scendere giù a mangiare. Il che implicava alzarsi dal letto
e
cercare le stampelle – non ricorda dove le ha messe,
probabilmente sono finite sotto al letto. E, come vedi, non
c’è riuscito», rispose, divertito.
«Ah. E
quanto andranno avanti?», disse, indicando i due che
continuavano imperterriti
nella loro discussione.
Shikaku rivolse a sua
volta il suo sguardo verso di loro e alzò le spalle.
«Non ne ho
idea, ma non voglio essere nelle vicinanze quando scoppierà
la rissa, perché scoppierà.
Credo che andrò giù».
Sakura
sospirò di nuovo, sconsolata.
«Vengo con
lei, Shikaku-san».
Uscirono e chiusero la
porta, lasciando gli altri due all’ennesimo round della gara
a chi insultava di più.
For years
I’ve been strapped unto this altar.
Now
I have only three minutes and counting.
I
just wish the tide will catch me first
And
give me a death I always longed for.
«Va tutto bene,
Sasuke?», chiese piano, cercando di rompere il ghiaccio.
Sentiva
il torpore avanzare inesorabile; probabilmente si stava addormentando
di nuovo. Sakura gli aveva detto che erano le medicine che gli facevano
quell’effetto.
«Bene»,
rispose
l’altro, quasi sussurrando. Il clima che c’era in
quella
stanza lo stava lentamente soffocando; voleva uscire e scappare dai
sentimenti e dalle cose non dette che lì vorticavano
violenti.
Naruto
cercò di sorridere.
«Ah, meno
male. Io invece
sono bloccato qui – provò a ridacchiare, senza
successo
–; mi annoio, sai? Non posso fare niente! Ma quando guarirò
voglio combattere con te; ti sta bene, teme?»,
disse, con il tono di sfida migliore – come quello di una volta,
sperava – che gli riuscì.
In realtà
si sentiva amareggiato
per vari stupidi
motivi.
Perché
Sasuke era
il suo rivale e lui doveva ancora sconfiggerlo.
Perché non
poteva neanche
prenderlo a pugni a poi piangere dalla felicità per tutto
quello
che gli aveva fatto patire.
Perché
aveva sempre detto a
tutti che sarebbe diventato Hokage e un fortissimo ninja; invece era
rimasto bloccato su un dannato letto per tutta la vita, mentre Sasuke
era riuscito a raggiungere i suoi scopi, senza guardare in faccia
nessuno.
Era tutto distrutto.
L’espressione
di Sasuke si incupì e guardò fuori dalla
finestra, incrociando le braccia sul petto.
«Fa’
come ti pare». Forse
voleva aggiungere qualcosa, forse.
Ma non lo fece.
Sakura
bussò piano alla porta e fece capolino nella stanza,
sorridendo radiosa.
«Tutto
ok?».
Naruto mise su un
sorriso di circostanza, mentre Sasuke si limitò
semplicemente a rispondere con un cenno della testa.
«Sì,
Sakura-chan
– la chiamò come
faceva una volta –, va tutto bene».
Oh, quanto
avrebbe voluto che tutto finisse.
The
end.
The
songwriter's dead.
The
blade fell upon him
Taking
him to the white lands
of
empathica,
of
innocence
Empathica
Innocence
Entrò nella radura.
La lapide riluceva dei
primi raggi di luce lunare, argentata e sinistra.
Tutto intorno i
sussurri della foresta erano appena udibili, il vento soffiava sommesso.
Un urlo, poi un altro,
un altro e un altro ancora.
Singhiozzi e lacrime.
Cadde in ginocchio.
Era un sogno.
Sì, era uno dei suoi incubi.
Guardò
disgustata gli
schizzi di sangue che splendevano sulla pietra, il nome
‘Itachi
Uchiha’ inciso con cura sotto agli altri nomi, il corpo di
Sasuke
riverso a terra nel suo stesso sangue.
Avrebbe vomitato, lo
sapeva. Ma
quello era un sogno, vero? Non era possibile, era troppo assurdo. Lei
era solo andata a cercarlo per la cena. Solo per quello. I suoi incubi
le stavano sicuramente facendo qualche scherzo.
Ingenuamente
provò a pizzicarsi la guancia per svegliarsi –
quello era un
incubo.
Niente.
Perché non
riusciva a svegliarsi?
Provò
ancora, ancora e ancora, ma quell’orripilante quadro rimaneva
sempre al suo posto.
«Quale sogno
inseguire ora, Itachi…? La Morte?».
I know I will die alone, but
loved.
***
Loro erano felici
e su questo non poteva transigere. Doveva essere così, per
forza: la guerra era finita, Sasuke era tornato a casa, erano vivi.
Avrebbero dovuto essere felici.
Ma allora perché?
Perché
Sasuke si era ucciso?
La loro vita doveva
tornare come
prima. Ora era impossibile. Perché aveva dovuto rovinare
ogni
cosa? Andava tutto bene, dannazione!
Sakura non chiuse
occhio nemmeno quella notte, continuando a rivivere il ritrovamento del
corpo di Sasuke, ancora e ancora.
Quante volte aveva
vomitato? Quanto aveva pianto?
Non si era convinta
del tutto che non stesse sognando, non aveva perso la speranza di
risvegliarsi; perché il mondo non poteva essere
così infernale.
Cercò di
trovare un motivo,
una qualche assurda ragione, inutilmente. Non poteva chiedere a nessuno
se sapesse qualcosa, perché Sasuke non parlava con nessuno,
tantomeno agli altri membri dell’Hebi, a meno che non volesse
provare a fare una seduta spiritica per ricondurre indietro Juugo e
quell’odiosa Karin. L’altro, Suigetsu, se
l’era
svignata da qualche parte dopo la fine della battaglia.
Ma, se ci pensava
bene, non aveva
mai veramente parlato con Sasuke da quando era tornato. Non sapeva
niente di come avesse passato gli anni senza di loro, di
perché
fosse venuto a Konoha, perché
era rimasto.
L’unica cosa
di cui era certa
era che Danzo doveva avergli fatto qualcosa – che non sapeva,
non
aveva voluto parlarne –, per questo voleva così
disperatamente ucciderlo, come aveva fatto.
Ma cosa?
Stava sprofondando
nelle sue paure,
tutte le sue certezze vacillavano e poi si infrangevano miseramente,
come vetro, lasciandole il vuoto intorno.
Avrebbe dovuto dirlo a
Naruto. Un
brivido la scosse a quel pensiero: non aveva il coraggio né
tantomeno la benché minima idea di come comunicarglielo; non
voleva farlo soffrire ancora di più, ma era impossibile. Di
sicuro lui avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di vederlo, anche
strisciare fino al cimitero, e non poteva permetterlo.
Possibile che al mondo
ci fosse solo dolore?
Si girò a
pancia in sotto e affondò la testa nel cuscino, soffocando
l’ennesimo singhiozzo troppo forte.
Il trillo fastidioso e
acuto del
monitor cardiaco l’accolse immediatamente quando
aprì la
porta della stanza di Naruto. Terrore e panico si dipinsero nitidi sul
suo volto, mentre gettava le cose che aveva a terra e correva verso il
letto.
Era un gioco, le stava
facendo
qualche scherzo, come sempre. Aveva staccato la macchina da solo e
quindi quella agiva come se fosse morto. Era così.
Peccato che fosse
paralizzato e non potesse fare niente.
«Naruto!
Naruto? Non fare
l’idiota, svegliati! Ehi!», urlò, mentre
cercava di
concentrarsi sul massaggio cardiaco e non guardare il suo viso, freddo
come il ghiaccio e olivastro. Avvicinò l’orecchio
al
cuore, come aveva fatto anche poco prima: nessuna pulsazione.
No, no, no.
«Naruto! Ti
prego,
svegliati… ti prego…», provò
a chiamare di
nuovo, la voce roca e rotta dalle lacrime.
Provò in
tutti i modi a farlo riprendere o, per meglio dire, resuscitare.
Nessuna risposta,
nessuna pulsazione.
E quel volto freddo,
gli occhi
socchiusi che sembravano osservarla di nascosto, il corpo rigido come
pietra. Sentì un conato di vomito colpirla prepotentemente,
scappò dalla stanza e si rifugiò nel bagno
più
vicino, lasciando la porta della ormai camera mortuaria aperta.
Don’t
you die on me
You
haven’t made your peace
Live
life, breathe! Breathe!
«Sakura…
come stai?», domandò con gentilezza Temari, mentre
le porgeva una scodella di riso.
Quando Sakura era
uscita dal bagno
qualcuno si era già accorto della morte di Naruto, aiutato
dalla
porta spalancata della stanza, che rendeva la scena vagamente
pittoresca. La notizia si era diffusa veloce come il vento e ora tutti
la trattavano con quel velo di pietà e ostentata gentilezza
che
la faceva infuriare come non mai. Non aveva bisogno della loro
pietà, del loro conforto, della loro gentilezza; voleva
essere
lasciata in pace.
Normalmente sarebbe
stata grata
della gentilezza di Temari, perché sapeva che capiva come si
sentiva; magari sarebbe anche passata sopra a tutto il resto. Ma si era
stancata, di tutto. Non le importava quello che provavano gli altri,
voleva solo far sparire il dolore e avere almeno qualche dannata risposta.
Non sapeva
perché Sasuke si era ucciso. Non sapeva chi aveva ucciso
Naruto né il movente.
Quando era tornata in
camera, poco
prima di raggiungere gli altri per pranzo, aveva ripensato
più
lucidamente a quello che era successo: le macchine che lo tenevano in
vita erano staccate e quindi non era più stato in grado di
respirare autonomamente ed era morto nel sonno. C’era un
piccolo
problema: Naruto non poteva staccare le macchine, perché era
paralizzato e non c’era modo di recuperare la sua condizione.
Allora chi era stato? E perché l’aveva fatto?
«Odio le
domande retoriche,
Temari», rispose, e, anche se cercava di sorridere, la sua
voce
era comunque intrisa di scherno.
L’altra
ragazza
aggrottò le sopracciglia, infastidita dal comportamento di
Sakura. Se non fosse stata in una situazione così difficile
di
sicuro gliene avrebbe dette quattro.
«Donna, vuoi
muoverti con quel riso?», la domanda, gentile e pacata
come al solito, di Shikamaru la distolse da Sakura, che intanto aveva
cominciato a mangiare.
«Se tu
riuscissi a stare in
piedi potresti anche fare da solo», lo rimbeccò,
stuzzicandolo su quanto accaduto il giorno prima.
Shikamaru
borbottò qualcosa sottovoce e sbuffò, ma in
compenso si zittì.
«Sai non
viene a pranzo oggi?», chiese Choji tra un boccone e
l’altro, a nessuno in particolare.
Sakura si
sentì osservata e alzò lo sguardo infastidita.
«Che ne so
io di cosa fa quello?», chiese acida, per poi ricominciare a
mangiare.
Gli altri si
guardarono sorpresi,
perché non era assolutamente da Sakura rispondere in quel
modo.
Pensavano che sarebbe stata triste, addolorata, infelice, ma non
intrattabile, rabbiosa e schiva.
«Ma non
siete…», provò Kiba.
«Compagni di
squadra? Ma non farmi ridere. Non siamo niente, lui
non è mai stato niente», lo interruppe lei.
Finì il
riso, si alzò e se ne andò, senza dire una parola.
Cominciò a
dirigersi verso la sua camera.
Non vedeva Sai dal
giorno del
funerale, quando gli aveva urlato contro. Non che volesse vederlo,
certo, e non si sentiva nemmeno più in colpa; o almeno di
questo
tentava di convincersi.
Poi, un pensiero la
fulminò:
due giorni prima Sai era stato in camera di Naruto, prima che lei
arrivasse e, quando aveva chiesto a Naruto di cosa avessero parlato,
lui aveva risposto in modo vago. Che fosse… ma
perché? E
poi in camera di Naruto c’erano stati praticamente tutti i
sopravvissuti e nessuno di loro – Sai incluso –
potevano
avere un movente.
Mentre entrava nella
sua stanza e
si sdraiava sul letto ci ripensò: e se si fosse trattato di
un
ordine contenuto in una missione che Danzo poteva avergli assegnato
prima dello scontro? Sai avrebbe potuto davvero uccidere Naruto a
sangue freddo?
Sai era fermo sulla
soglia della camera che fino a quella mattina aveva ospitato Naruto,
una mano sullo stipite della porta.
Quel pomeriggio
avevano dato
sepoltura a lui e Sasuke con una piccola funzione dedicata interamente
al primo. Si erano presentati quasi tutti, molti avevano pianto; Sakura
più di tutti. Lui era rimasto un po’ in disparte e
se ne
era andato solo quando a piangere sulle loro tombe era rimasta Sakura,
consumata dal dolore.
Si chiese se potesse
rimediare agli
errori commessi e aiutarla, mentre osservava assorto la penombra della
stanza; ogni traccia di chi l’aveva abitata già
scomparsa.
Bastava così poco a cancellare l’esistenza di un
essere
umano?
Si portò
una mano alla guancia e si sorprese di trovarla umida. Stava forse
piangendo per la prima volta?
Chiuse gli occhi e si
abbandonò alla nuova sensazione che si stava impadronendo
del
suo corpo, quella che i più chiamavano dolore.
La cena procedeva
tranquilla quando Temari richiamò l’attenzione dei
suoi commensali.
«Posso avere
la vostra
attenzione per un minuto?», si alzò, per rendersi
più visibile, e si schiarì la voce. Quando vide
che tutti
gli sguardi erano puntati su di lei procedette con il discorso.
«Come tutti
potete vedere
è ormai chiaro che Konoha, purtroppo, non esiste
più», a questa affermazione seguirono vaghi cenni
di
triste assenso.
«In
qualità di
Kazekage di Suna vi offro l’opportunità di
trasferirvi nel
mio villaggio, dove potrete continuare le vostre professioni mantenendo
l’identità di cittadini di Konoha, formando
così
una piccola comunità, oppure integrandovi interamente
diventando
cittadini della Sabbia». Si sedette e ci fu un attimo di
silenzio
generale. Poi i sopravvissuti si lanciarono in un’accesa
discussione: alcuni credevano che ricostruire e ricominciare da capo
fosse possibile, altri non volevano rimanere un minuto di
più.
«Io e mio
figlio verremo
volentieri con te, Temari», le disse Shikaku, sorridendo
appena.
Temari annuì e poi velocemente si rialzò.
«Ah,
scusate, dimenticavo:
dopodomani mattina dovrebbe passare di qui una carovana diretta a Suna.
Quindi, dato che ci sono ancora dei feriti pensavo che la cosa migliore
fosse aggregarci a essa». Detto questo si risedette, mentre
gli
altri continuavano a discutere.
***
Shikamaru sbuffò e
rivolse
lo sguardo al cielo plumbeo, mentre in sottofondo il rumore della
mascella instancabile di Choji, vicino a lui, contrastava il
picchiettio delle gocce di pioggia, leggere e impalpabili, che
scendevano piano, quasi fossero stanche anche loro.
Tutto intorno il mondo
era grigio,
non un raggio di luce passava. Erano seduti su un blocco di cemento,
poco lontani dall’ospedale.
«Che hai
intenzione di fare, Choji?».
L’interrogato
ingoiò un altro boccone, per poi prendere un'altra polpetta
di riso.
«Vengo con
te», rispose semplicemente.
«Non avevi
dei parenti, da qualche parte?».
«Sì,
ma… li
avrò visti un paio di volte, non li conosco, non voglio
essere
di peso; e poi preferivo stare con te». Shikamaru lo
guardò, mentre l’altro abbozzava un sorriso e
mordeva
l’ultima polpetta di riso.
«Uffa, sono
finite! Quasi
quasi vado a vedere se ce ne sono altre… dici che Temari mi
permetterà di finirle?», chiese, poi, rivolgendosi
all’amico, che scosse la testa.
«Nemmeno se
la preghi in ginocchio». Choji sorrise.
«Non dirmi
che l’hai fatto…», lo
stuzzicò.
«Ovviamente
no, ba–ka», rispose l’altro.
«Ino mi
picchierebbe se ne
mangiassi ancora», continuò Choji, osservando
sconsolato
il piccolo vassoio vuoto. Era proprio un peccato che non potesse
mangiarne altre, erano così
buone, e lui aveva una fame insaziabile.
Shikamaru lo
guardò per
qualche istante osservare il piatto come se si aspettasse di vedere
ricomparire qualche polpetta, vagamente infastidito: aveva detto quelle
parole come se fossero ancora in città, su un prato,
aspettando
che Ino uscisse di casa, dopo aver deciso che sì, era
perfetta
così com’era e nessun uomo poteva resisterle. E
poi,
quando li avrebbe visti, li avrebbe sgridati per essere degli ingordi
nullafacenti e minacciati finché non si sarebbero alzati.
Così era quando tutto andava come doveva.
Ora non
c’era niente di tutto ciò.
«Finiscila»,
esordì poi, alzando di nuovo il capo al cielo.
Choji lo
guardò interrogativo.
«Cosa?».
«Smetti di
comportarti come
se niente fosse», perché odiava il modo in cui
faceva
finta che filasse tutto per il verso giusto.
Choji
abbassò la testa e rimase in silenzio per qualche istante;
poi si alzò. «Ma… visto che Ino non c’è
ne posso mangiare un altro paio, no?», disse, quasi cercando
di
fargli capire che aveva afferrato il concetto e si era reso conto della
realtà; ma il suo tono era sempre troppo usuale.
Shikamaru
sbuffò e lo
guardò dirigersi dalla parte opposta all’ospedale,
a testa
bassa. Andava a mangiare, eh?
«Baka».
Chiuse gli occhi e si
concentrò sul rumore della pioggia, non curandosi se stava
cominciando a piovere seriamente. Non gliene importava niente.
Let the
rain fall, I don’t care.
Per tutto il giorno
c’era stato un vivace fermento all’ospedale; Sakura
non riusciva a sopportarlo.
Si era chiusa nella
sua camera: le
piangeva il cuore a vedere le persone che radunavano le loro cose,
svuotavano quello che fino a pochi giorni prima era il loro unico
rifugio per andare da qualche altra parte e ricominciare. Alcuni erano
già partiti, o almeno quelli che dovevano dirigersi in
villaggi
lontani; altri avevano deciso di restare a Konoha, indecisi se tentare
la via della ricostruzione o rimanere fin quando era possibile.
Lei non voleva
né andarsene
né ricominciare, e non riusciva ad accettare il fatto che
l’unica cosa che aveva legato tutte quelle persone e le aveva
fatte diventare come una grande famiglia fosse solo la guerra e, ora
che era terminata, i legami che si erano creati svanissero nel nulla.
Sarebbe rimasta da
sola in quel palazzo, svuotato da qualunque traccia del passato. Non
poteva assolutamente accettarlo.
Era uscita dalla sua
stanza solo
per mangiare qualcosa, a pranzo. Temari era passata una volta, durante
il pomeriggio, per chiederle se aveva bisogno di qualcosa, ma non aveva
risposto. Non era venuto più nessuno.
Chiuse gli occhi,
tentando inutilmente di prendere sonno.
Quando
sentì bussare piano,
si girò su un fianco, dando le spalle alla porta, sperando
che
lo scocciatore di turno si sbrigasse ad andarsene.
«Sakura?
Sono Sai, volevo–».
Quando
sentì quella voce strabuzzò gli occhi e si
alzò a sedere.
«Vattene!»,
gli rispose, avvicinandosi nel frattempo alla porta, quasi per
assicurarsi di averla chiusa.
«Io voglio
solo parlare, non…», riprovò Sai
dall’altra parte.
«Io voglio
che tu te ne vada», rispose lei, glaciale.
Sakura
sentì il ragazzo
sospirare e sperò con tutto il cuore che se ne andasse. Ci
fu un
attimo di silenzio, prima che ricominciasse a parlare.
«Mi
dispiace», disse,
poi. Sakura ebbe la tentazione di chiedergli per cosa si stesse
scusando, ma resistette e rimase silente.
«Non sentivo
– e non
sento – le persone che sono morte come miei compagni, ho
parlato
con loro poche volte, non ho fatto in tempo a conoscerli come conosco
te e Naruto», Sakura sussultò quando Sai
usò il
presente per Naruto.
«Quando hai
detto che per me
non significate niente mi sono sentito ferito – è
stata la
prima volta che ho provato quel sentimento –, pensavo che
almeno
tu avessi capito che non era così. Poi ho pensato che potevi
averlo detto perché eri arrabbiata, le persone si sfogano
spesso
così, vero?».
Sai
appoggiò una mano sulla
porta, mentre cercava le parole e provava a captare qualunque reazione
di Sakura alle sue parole. In quel momento, doveva essere appoggiata
con la schiena alla porta.
«Mi
dispiace, Sakura. Io…», la sua voce si
abbassò e Sakura tese l’orecchio.
«Naruto…
mi ha detto
che ci avevi sentito parlare. Non ti ha detto di cosa,
vero?»,
continuò, sussurrando.
«Lui stava
molto male. Non
voleva farti preoccupare, e non te ne ha parlato,
però…
aveva capito che non si sarebbe più mosso da quel letto; non
considerava più la sua una ‘vita’,
si sentiva come in una prigione, ha detto così»,
si
fermò un attimo, sentendo i singhiozzi soffocati di Sakura.
Se
solo fosse potuto entrare…
«Poi mi ha
chiesto… di
lasciarlo andare ed io… io lo vedevo soffrire e
ho pensato che un amico
avrebbe…», sentiva Sakura piangere e non riusciva
a continuare. Chiuse gli occhi.
«Ho deciso
di andare alla
Nuvola con il capitano Yamato; hanno bisogno di ninja esperti. Voglio
provare ad andare avanti e vedere cosa mi aspetta»,
affermò dopo attimi di silenzio, sperando che cambiare
discorso
sarebbe servito a qualcosa. Apparentemente no, a giudicare da quello
che sentiva. Sakura doveva essersi accovacciata per terra, continuava a
piangere; aveva sbagliato ancora.
Restò
immobile per qualche
minuto, aspettando invano che Sakura dicesse qualcosa, lo picchiasse,
qualunque cosa, pur di non sentirla piangere così
disperatamente.
Quando capì
che la ragazza
non aveva alcuna intenzione di rispondergli, se ne andò,
piano,
non perdendo del tutto la speranza di sentire la porta aprirsi.
Sakura
sentì i passi di Sai allontanarsi lentamente e
tirò un pugno al pavimento duro e freddo.
***
«Shikamaru! La
Giovinezza è con te, forza!».
Il ragazzo
guardò
infastidito Rock Lee, che non la finiva di incitarlo. Era euforico e
diceva stupidaggini come al solito, ma tutti sapevano quanto la morte
del suo maestro e dei suoi compagni di squadra l’avesse
colpito;
aveva passato la maggior parte del suo tempo, se non ad allenarsi per
non offendere la memoria di Gai, sulle loro tombe. Choji gli
aveva detto che alcune volte sembrava conversarci, mentre raccontava
alla pietra com’era andato il suo allenamento e cosa aveva
fatto
quel giorno; una vista piuttosto triste.
Lui con la tomba di
sua madre non ci aveva mai parlato.
«Sta’
zitto, Lee! Tu
non devi scendere le scale con queste dannate stampelle!»,
gli
urlò di rimando, dalla cima della rampa di scale che lo
separavano dalla porta.
I preparativi erano
quasi completi:
i loro pochi averi erano stati raggruppati e li aspettavano, insieme ad
altri sopravvissuti, appena fuori dal villaggio. Alcuni erano
già partiti, poiché li aspettava un lungo
viaggio, altri
attendevano che si riunissero tutti per salutare con calma.
Temari stava finendo
di organizzare le ultime cose e distribuiva ordini a destra e a manca
da quando si era alzata.
Vide uno strano
bagliore accendersi negli occhi di Rock Lee: non avrebbe portato niente
di buono.
«In nome
della Giovinezza, ti
porterò sulle mie spalle; non temere, ora
arr–»,
fece per affermare, indicandosi raggiante.
«No, no, per
carità,
non ti disturbare», lo interruppe Shikamaru, vagamente
spaventato. Nessun uomo si sarebbe fatto portare in spalla da un altro.
Bé, a parte Kakashi… ma quella era
un’altra storia.
Choji e Kiba
scoppiarono a ridere,
mentre Rock Lee pareva non capire perché l’amico
avesse
rifiutato una proposta che a lui pareva allettante come non mai.
Dopo
un’imprecisata
quantità di tempo, che equivaleva a quella in cui Choji
mangiava
circa cinque pacchetti di patatine recuperate chissà dove,
giunse all’ultimo gradino con un sonoro sbuffo, mentre Temari
lo
sorpassava come una tempesta, chiedendogli con scherno se dovesse
portarlo in braccio lei. Lui in tutta risposta la mandò al
diavolo.
«Bene,
adesso sbrighiamoci a
raggiungere gli altri, la carovana dovrebbe essere qui tra poco, stando
alla tabella di marcia. Sicuro di farcela, cry-baby?», disse
lei,
mentre cominciava a incamminarsi.
«Certo che
ce la faccio», borbottò lui.
Sai sedeva su una
pietra, apparentemente calmo, lo sguardo rivolto a terra.
«Ne
vuoi?».
Il ragazzo
alzò la testa,
trovandosi il pacchetto di patatine di Choji davanti agli occhi, mentre
il ragazzo gli sorrideva leggermente.
«No,
grazie», rispose gentilmente, non avendo idea di quale
mostruosa gentilezza il ragazzo gli avesse dimostrato.
Choji
continuò a sorridere, internamente grato di potersi godere
le patatine da solo.
«Ehi,
c’è
Sakura!», esclamò Kiba dall’alto
dell’albero
su cui era salito con Akamaru.
A Rock Lee
s’illuminarono gli occhi e le corse incontro, sbracciandosi a
più non posso.
«Sakura-chan!
Anche oggi la Giovinezza ti sorride!».
Sakura lo
guardò un
po’ imbarazzata e sconcertata da quel che diceva
l’amico;
portava un piccolo zaino in spalla.
«Grazie,
Lee», rispose, evitando l’abbraccio da orso che lui
le proponeva e sorpassandolo.
Notò Sai
seduto in disparte e Yamato poco lontano che conversava con Shikaku.
«A cosa
dobbiamo la tua presenza, Sakura-chan?»,
chiese Temari scherzando e ponendo l’accento sul
vezzeggiativo, in una muta imitazione di Rock Lee.
«Ho deciso
di partire con voi», rispose Sakura, e tutto di lei emanava
determinazione.
Dopo
un’altra notte quasi insonne, aveva deciso che Suna era
l’unica via per ‘vivere’.
Konoha era morta, lo
sapeva, non
avrebbe avuto senso continuare ad annaffiare una pianta ormai secca e
appassita, e rivedere quei luoghi così cari e le tombe dei
suoi
compagni l’avrebbe distrutta lentamente. Non era quello che
voleva.
E non immaginava che
Sai se ne
sarebbe andato. Anche se dopo quello che era successo il suo rapporto
con lui era mutato radicalmente, rappresentava un punto fermo per lei;
una certezza che ora si sarebbe dissolta, come le altre.
L’unica
scelta che le rimaneva era Suna.
«Bene, mi fa
piacere. La carovana dovrebbe essere qui a momenti, sei arrivata appena
in tempo».
Sakura
accennò un sorriso,
prima di notare Yamato che raccoglieva il suo bagaglio e diceva
qualcosa a Sai, probabilmente dovevano andare. Il ragazzo la
guardò per un momento, prima di avvicinarsi titubante.
Temari si
spostò vicino ad un gruppo di ninja medici di Suna, capendo
che non era il posto adatto a lei.
«Partite
ora?», chiese la ragazza, quando furono soli, il tono di voce
pressoché normale.
«Sì.
Anche se di
sicuro serviranno più di due ninja alla
Nebbia…»,
rispose lui, saettando lo sguardo da Sakura al terreno. La reazione di
Sakura, la sera prima, l’aveva scosso e fatto sentire ancora
più in colpa. Forse aveva sbagliato.
«Scommetto
che voi sarete sufficienti».
«Già».
Sai sorrise
amaramente. Sakura non gli aveva mai visto un’espressione del
genere sul volto. Forse aveva sbagliato.
Ci fu un attimo di
silenzio imbarazzato, prima che Sakura parlò di nuovo.
«Sai, io ho
capito che quello
che hai fatto era nel bene di Naruto. Io… non volevo
ammettere
che ci fosse qualcosa che non andava, però… non
posso
ancora perdonarti, perché…»,
cominciò,
guardando il ragazzo negli occhi.
«’Ancora’
vuol dire che un giorno lo farai?», chiese speranzoso lui.
«’Mai’
è un tempo troppo lungo, non trovi?», rispose lei,
distogliendo lo sguardo.
Sai abbozzò
un sorriso e sentì Yamato chiamarlo.
«Io devo
andare ora –
cominciò –, ma dovrò venire a trovarti,
per vedere
se mi hai perdonato».
Sakura
annuì impercettibilmente, rivolgendogli un mezzo ghigno.
«Un bel
destro la prossima volta non te lo toglie nessuno,
però».
Sai sorrise e si
voltò, salutandola con la mano.
«Sakura! La
carovana sta arrivando, vieni!», la chiamò Temari,
mentre gli altri si radunavano attorno a lei.
«Arrivo!».
«Ma che
carovana e carovana!
Forza, ragazzi: rendiamo felice lo spirito della Giovinezza facendo il
tragitto a piedi e impiegandoci non più di due
giorni!»,
esclamò Rock Lee, mentre lei si avvicinava.
I loro erano sogni al
di sopra di qualunque speranza; per questo, credevano che la loro
realizzazione fosse un atto dovuto.
Ora, non era rimasto
nient’altro che un riflesso distorto su uno specchio
d’acqua putrida disturbata dal vento, che sarebbe evaporata e
riscesa sulla Terra di nuovo limpida, e poi ancora, ancora,
ancora…
Soffrire
e divincolarsi, esitare e combattere per ciò in cui si
crede. La
libertà che ci si apre davanti è la prova che si
è
vivi. Ma la libertà che non sappiamo o non vogliamo usare
è una libertà inutile. Ora con questi pensieri
che si
agitano nel profondo di ciascuno di noi, ci apprestiamo a costruire un
nuovo mondo.
La
pioggia che incessante continua a cadere laverà via tutto
quanto: odio, tristezza, rimorso e persino le colpe.
Il
rosso
non è più il colore del sangue, ma quello del
sole che
sorge; un sole che solo i vivi potranno vedere e che li
condurrà
verso una Nuova speranza per il domani.
Owari.
Credits:
la scena iniziale è
ripresa dal primo numero di Naruto,
Masashi Kishimoto;
la cit. 1 è
contenuta nella canzone Higher
than Hope, Nightwish,
album Once
(2004);
le cit. 2 e 13 sono
riprese da Saiyuki, Minekura Kazuya, Square Enix;
la cit. 3 è
contenuta nella canzone Crushed
Dreams, Tristania,
album World of Glass
(2001);
la cit. 4 è
contenuta nella canzone The
modern end, Tristania,
album World of Glass
(2001);
le cit. 5, 8, 9 e 10
sono contenute nella canzone The
poet and the pendulum, Nightwish, album Dark Passion Play
(2007);
la cit. 6 è
contenuta nella canzone Sleeping
Sun, Nightwish,
album Oceanborn
(1998);
la cit. 7 è
contenuta nella canzone Dementia,
Tristania,
album Beyond the Veil
(1999);
la cit. 11
è contenuta nella canzone Dark Wings, Within Temptation,
album Mother Earth
(2000);
la cit. 12
è contenuta nella canzone Brighter than Sunshine,
Aqualung,
album A lot like love
OST.
Ovviamente ne
è consigliato l’ascolto durante la lettura, ma
questo dovevo dirlo prima, già.
Link al concorso.
Note sclerate
dell’autrice: sì, sono una macellaia
sadica, ho fatto morire tanta gente e mi sono pure divertita <3
Ma il mio sgobbamento
è stato premiato, e sono felicissima *__* (Grassie, giudiciA
XD)
Questo primo posto è del tutto inaspettato! *^*
Bando alle ciance,
è stato difficile scrivere questa storia, in primo luogo,
perché avevo una
certa persona
da soddisfare e temevo il Giudizio Supremo, e poi perché
dovevo
conciliare il tema del contest applicandolo a più personaggi
che
non avevo mai usato, inserendo una trama decente; è stato
stressante <3
È venuta
fuori una roba
mostruosamente lunga e l’idea, mi duole ammetterlo,
è
partita da una Sakura-Tarzan che scalava una montagna, purtroppo
è così XD
Passando ai
personaggi, Sakura e
Sai sono stati quelli più difficili da muovere: la prima
perché è terribilmente imprevedibile e volubile,
non
sapevo mai se avrebbe reagito distruggendo il mondo o rinchiudendosi in
un angoletto buio, il secondo perché comincia a cambiare e
quindi era difficile mantenerlo comunque IC lasciando trasparire il
mutamento.
Riguardo agli altri,
ho speso molto
tempo a cercare di mantenerli con il loro carattere originale, tuttavia
almeno leggermente mutato dalle vicende trascorse, visto che
–
anche se Kishimoto ormai ha buttato al vento il suo lavoro –
non
sono personaggi piatti e quindi cambiano.
Ah, le ripetizioni, dove ci
sono, sono volute, non sono a corto di sinonimi! XD
Inoltre, la frase di
Temari
“la guerra comporta vittime”, è una
rivisitazione
della frase “le missioni comportano vittime”, che
ha
pronunciato nel volume 26.
La storia è
divisa in sei giorni e doveva essere una specie di no pairing, visto
che credo qualunque romanticismo di sorta avrebbe stonato in una storia
del genere; ma qualche accenno qua e là c’è,
chi vuole intendere intenda XD
I fatti successi prima
della storia
li ho ricostruiti e li ho raccontati attraverso flashback diretti e
indiretti, talvolta lasciando solo qualche indizio.
Ci sono alcuni
riferimenti a Ugo
Foscolo e Giacomo
Leopardi qua e là, e di qualcun altro che ora
non ricordo…
Bé, non mi
pare di aver niente di più intelligente da dire; quindi,
addio XD
EDIT ritardatario:
ringrazio infinitamente Shatzy che ha segnalato la storia per le storie
scelte e con la stessa enfasi ringrazio l’amministrazione che
l’approvata! Grazie, grazie, grazie! ;*;
Ho aggiustato anche un po’ l’HTML (_ _)
V
p.s.
questo è il banner fatto dalla giudice, grazie! ;*;
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